Non esiste giustizia in grado di soddisfare ogni libero arbitrio

giustizia

Che cos’è davvero la giustizia? È possibile immaginare un sistema capace di soddisfare tutte le volontà e ogni desiderio del libero arbitrio umano? La risposta, per quanto possa sembrare scomoda, è un sonoro no. Non esiste giustizia che possa contenere pienamente la complessità del volere individuale. Non esiste norma, regola o equilibrio che possa rendere felici tutti, allo stesso tempo, senza entrare in conflitto con qualcun altro.

L’essere umano è un paradosso vivente. Da una parte desidera ordine, sicurezza ed equità. Dall’altra rivendica la libertà di decidere, scegliere ed esplorare. Quando questi due principi si scontrano, nasce la tensione profonda che percorre tutta la storia dell’umanità. Perché ogni volta che una legge viene scritta, qualcuno si sente limitato. Ogni volta che si garantisce un diritto, qualcun altro potrebbe percepire una perdita.

Il libero arbitrio

Il libero arbitrio è ciò che rende ciascuno di noi responsabile delle proprie azioni, ma è anche ciò che complica qualsiasi tentativo di giustizia universale. Senza la possibilità di scegliere, non potremmo parlare di colpa o merito. Ma proprio questa libertà, tanto preziosa quanto fragile, porta inevitabilmente al conflitto.

Prendiamo un esempio semplice: una persona desidera silenzio per meditare, mentre il vicino suona la chitarra a tutto volume. Chi ha ragione? Entrambi, o forse nessuno. La giustizia è chiamata a mediare tra queste due volontà, ma la mediazione comporta inevitabilmente una rinuncia. È questo il cuore del problema.

Le tre caratteristiche del libero arbitrio

  1. È unico: ogni individuo ha una volontà propria, irripetibile, che nasce da un intreccio di genetica, educazione, esperienze e convinzioni personali.

  2. È mutevole: ciò che vogliamo oggi potrebbe non essere ciò che desidereremo domani. La nostra volontà evolve con noi, influenzata da emozioni, eventi e relazioni.

  3. È relazionale: Viviamo immersi in una rete di relazioni, e le nostre decisioni inevitabilmente entrano in collisione con quelle altrui.

Il libero arbitrio, quando passa all’azione, diventa comportamento. E ogni comportamento ha conseguenze. Nessuna scelta è mai neutra. Anche un gesto apparentemente innocuo, come parcheggiare in doppia fila, può provocare disagio o danni ad altri.

Ecco perché la giustizia, in qualunque forma si presenti – etica, giuridica o sociale – si trova sempre a dover fare i conti con questo dato di fatto:

  • se concede troppa libertà, rischia il caos;

  • se impone troppe regole, uccide l’unicità;

  • se tenta un compromesso, non soddisfa pienamente nessuno.

Il paradosso è chiaro: ogni volta che cerchiamo di essere giusti, dobbiamo limitare qualcuno. Ogni limite è un sacrificio parziale del nostro essere.

Il mito dell’equità perfetta

L’idea che possa esistere una giustizia assolutamente equa è, per molti, un ideale da inseguire. Ma nella realtà, questa immagine si rivela fragile. Perché? Perché l’equità presuppone un accordo condiviso su cosa sia giusto. Eppure i valori cambiano da persona a persona, da cultura a cultura, e persino da epoca a epoca.

Perché la giustizia perfetta è impossibile?

  • I valori non sono universali: ciò che per me è sacro, per un altro potrebbe essere irrilevante o persino offensivo.

  • Ogni scelta è parziale: una decisione che favorisce qualcuno, spesso penalizza qualcun altro.

  • La legge ha bisogno di rigidità, ma il cuore umano richiede eccezioni.

La legge è, per definizione, un insieme di norme generali. Ma la vita reale è fatta di particolarità. È per questo che anche le migliori leggi mostrano presto i loro limiti.

Ecco alcuni esempi concreti:

  • La proprietà privata: tutela il singolo, ma può ignorare chi è senza casa o senza risorse.

  • La libertà di parola: è un diritto fondamentale, ma può diventare uno strumento di offesa o esclusione.

  • La giustizia penale: punisce chi ha sbagliato, ma può non offrire vera riparazione a chi ha subito il danno.

È dunque chiaro: nessuna legge può essere perfettamente giusta per tutti. Persino le norme più nobili nascono in un tempo e in un luogo ben precisi. Quando il mondo cambia, spesso diventano obsolete, se non addirittura dannose.

La vera giustizia, allora, non può essere un punto d’arrivo statico, ma un processo. Un tentativo continuo di trovare un equilibrio tra libertà individuale e convivenza collettiva. Un equilibrio che cambia, si adatta e si rinegozia giorno dopo giorno.

Giustizia e morale personale: due bussole, una sola coscienza

Oltre alle norme codificate, esiste un altro tipo di giustizia: quella che ciascuno porta dentro di sé. È una bussola etica che guida le nostre decisioni, spesso in modo silenzioso ma potente. La chiamiamo “coscienza”, ed è profondamente modellata da cultura, famiglia, religione, esperienze e affetti.

Tuttavia, questa bussola interiore non sempre coincide con le leggi esterne. Quando le due si scontrano, nasce uno dei conflitti più difficili da affrontare: quello tra ciò che è legale e ciò che sentiamo essere giusto.

Alcuni esempi eloquenti:

  • Un medico che accoglie la richiesta di eutanasia di un paziente lucido ma terminale, infrangendo la legge.

  • Un cittadino che ospita un rifugiato irregolare per puro spirito umanitario, rischiando sanzioni.

  • Un dipendente che rifiuta di eseguire un ordine aziendale che considera immorale.

In questi casi, l’individuo si trova intrappolato tra due obblighi: da un lato quello civile, dall’altro quello etico. E spesso la scelta comporta un prezzo personale molto alto: sanzioni, giudizi, ed emarginazione.

Questo mostra un punto cruciale: la giustizia istituzionale, per quanto necessaria, non può ignorare la complessità morale del singolo. Se la legge pretende di essere cieca di fronte ai contesti umani, finirà per produrre più ingiustizie di quelle che risolve.

Le norme, per funzionare davvero, devono essere:

  • Elastiche, non dogmatiche.

  • Contestuali, capaci di ascoltare le storie individuali.

  • Inclusive, aperte alle eccezioni quando necessario.

Giusto e sbagliato nel tempo: una questione storica

La giustizia non è scolpita nella pietra. È un costrutto storico, mutevole e soggetto a rivoluzioni morali. Basta guardare indietro per rendersene conto: ciò che un tempo era considerato giusto, oggi ci appare aberrante.

Ecco alcuni esempi storici:

  • La schiavitù era pienamente legale in molte parti del mondo.

  • Le donne erano escluse dal voto e da numerosi diritti civili.

  • L’omosessualità era punita penalmente in numerosi stati.

Tutti questi sistemi erano sostenuti da leggi, religioni e morali condivise. Ma oggi li riconosciamo come errori profondi. Ciò dimostra che la giustizia non è un’entità immobile: evolve con il pensiero, con la sensibilità collettiva e con il coraggio delle minoranze.

Grandi rivoluzioni morali sono nate da atti di disobbedienza

  • Gandhi, opponendosi alle leggi coloniali britanniche.

  • Rosa Parks, rifiutandosi di cedere il proprio posto su un autobus a un uomo bianco.

  • Nelson Mandela, sfidando l’apartheid pur sapendo di dover pagare con la prigione.

In ognuno di questi casi, il libero arbitrio ha avuto un ruolo centrale. Persone comuni hanno sfidato l’ordine costituito perché sentivano che le leggi erano ingiuste. Così facendo, hanno contribuito a ridefinire il concetto stesso di giustizia.

Se ci pensi bene, alcune catastrofi che sono accadute in passato dipendono proprio dal fatto che molte persone hanno eseguito degli ordini – sebbene assurdi -, senza battere ciglio, seguendo tutto alla lettera, come le persone ceh deportavano gli ebrei durante la seconda guerra mondiale

Ma tutto questo ci porta a un’altra domanda cruciale: chi decide cosa è giusto? Se la giustizia cambia nel tempo, su cosa possiamo davvero fare affidamento?

Giustizia e libero arbitrio: le visioni dei grandi filosofi

Per orientarci in questo mare di incertezze, possiamo affidarci alle riflessioni di alcuni grandi filosofi che, in epoche diverse, hanno cercato di rispondere a questa domanda. Ognuno, a modo suo, ha cercato di rispondere al problema della giustizia in relazione al libero arbitrio. E tutti, in un modo o nell’altro, sono arrivati alla stessa conclusione: una giustizia che comprenda pienamente tutte le libertà individuali è impossibile.

Thomas Hobbes – La giustizia come contenimento della libertà

Nel suo celebre Leviatano, Hobbes descrive lo “stato di natura” come una condizione di libertà totale, in cui ogni individuo ha diritto a tutto ciò che desidera. Ma questa libertà assoluta porta a una guerra permanente: l’uomo è un lupo per l’uomo.

Per uscire da questa condizione, gli uomini stringono un patto sociale, rinunciando a parte della loro libertà in cambio di sicurezza e ordine. Da qui nasce il potere sovrano, che impone regole e fa rispettare la giustizia.

Per Hobbes, la giustizia non è naturale, ma artificiale: è il frutto di un accordo, necessario per evitare il caos. E nasce proprio dalla limitazione del libero arbitrio individuale.

Jean-Jacques Rousseau – La volontà generale come forma di giustizia

Nel Contratto sociale, Rousseau propone un’altra visione. Anche per lui, l’uomo nasce libero, ma la libertà individuale, lasciata a sé stessa, porta alla disuguaglianza e alla sopraffazione. La soluzione? Rinunciare alla “volontà particolare” per aderire alla “volontà generale”.

La volontà generale, però, non è la somma delle opinioni individuali, ma una forma superiore di razionalità collettiva. È ciò che serve il bene comune.

Rousseau arriva a dire: “Chi si oppone alla volontà generale deve essere costretto ad essere libero.” Una frase paradossale, che rivela la tensione intrinseca tra libertà individuale e ordine sociale.

👉 In altre parole, per Rousseau, la giustizia non può mai soddisfare pienamente i desideri del singolo, perché questo metterebbe in pericolo la coesione del corpo sociale.

John Rawls – Una giustizia ipotetica

Rawls, nella sua opera fondamentale Una teoria della giustizia, cerca di costruire un modello di equità che non dipenda dalle preferenze personali. Il suo approccio è noto per l’idea del “velo d’ignoranza”: per decidere le regole di una società giusta, dobbiamo immaginare di non sapere chi saremo in quella società. Ricco o povero, uomo o donna, sano o malato? Non possiamo saperlo.

Questa finzione teorica ha un obiettivo: creare condizioni di imparzialità. Se nessuno conosce la propria posizione futura, allora ognuno sceglierà regole che non penalizzino nessuno in modo eccessivo.

Ma Rawls stesso ammette che si tratta di un esperimento mentale. Nella realtà, non viviamo dietro un velo d’ignoranza. Ognuno conosce i propri interessi, le proprie debolezze e le proprie appartenenze. E proprio questa consapevolezza rende difficile, se non impossibile, raggiungere un consenso autentico.

La giustizia, allora, diventa una “finzione regolativa”: un modello ideale a cui tendere, ma che non può essere applicato integralmente al mondo reale, perché la pluralità dei desideri e delle volontà è troppo ampia.

Isaiah Berlin – La libertà come conflitto permanente

Berlin è noto per aver distinto due forme di libertà:

  • Libertà negativa: l’assenza di impedimenti esterni (posso fare ciò che voglio, se nessuno mi ostacola).

  • Libertà positiva: la possibilità di autodeterminarsi secondo una propria visione del bene (sono libero se posso diventare ciò che scelgo di essere).

Entrambe le forme di libertà sono affascinanti, ma in entrambe, secondo Berlin, nascondono delle insidie. Se ognuno esercita una libertà negativa assoluta, il risultato è il caos. Se si impone invece una visione unica di libertà positiva, si rischia di cadere in una dittatura della virtù.

 In sintesi: ogni libertà realizzata implica la rinuncia a qualcos’altro. La convivenza richiede sempre negoziazione, sacrificio e compromesso. Nessuna società può contenere pienamente tutte le libertà individuali, perché queste sono spesso in conflitto tra loro.

Judith Butler – Quando la giustizia non vede

Judith Butler ci pone davanti a una domanda fondamentale: chi è riconosciuto come soggetto degno di giustizia?
Nel suo libro Vite precarie, denuncia come molte identità e forme di esistenza siano sistematicamente escluse dal linguaggio giuridico e morale dominante.

Pensiamo, ad esempio:

  • alle persone queer,

  • ai corpi non conformi,

  • ai rifugiati senza documenti,

  • alle minoranze invisibili.

Per Butler, la giustizia non può rispondere a ogni libero arbitrio semplicemente perché molti non sono nemmeno “visti” dal sistema giuridico. Il problema non è solo il conflitto tra libertà, ma l’esclusione stessa di alcune vite dalla sfera del diritto.

Questo ci ricorda che ogni teoria della giustizia, se vuole essere completa, deve interrogarsi su chi ha voce, chi è rappresentato e chi invece resta fuori dalla scena. Non basta mediare tra volontà conflittuali, bisogna anche ampliare lo spazio della rappresentazione.

Conclusione

Arrivati a questo punto, possiamo dirlo con chiarezza: non esiste una giustizia perfetta. E nemmeno la libertà assoluta. L’equilibrio tra queste due forze è fragile, instabile e costantemente messo in discussione.

La nostra epoca tende a cercare soluzioni semplici a problemi complessi. Ma la giustizia non è una formula, né un codice rigido. È un processo vivo, un percorso collettivo che si costruisce attraverso:

  • il dubbio,

  • il dialogo,

  • l’ascolto reciproco.

Non dobbiamo cercare di creare un mondo dove ogni desiderio sia esaudito e ogni libertà realizzata. Sarebbe una missione impossibile. Dobbiamo invece accettare che la giustizia è un’opera artigianale, imperfetta ma fondamentale, che richiede empatia, coraggio e responsabilità.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei