Perché il cervello ricorda più il dolore che la gioia? Ecco cosa dice la scienza

momenti negativi vs momenti positivi

Ci sono esperienze che ci segnano per sempre. Un litigio, un trauma, una perdita o una vergogna… Ricordiamo il volto, le parole e in alcuni casi persino l’odore di quella stanza. Eppure, delle mille gioie che abbiamo vissuto, ne restano solo pochi frammenti. Come mai? Perché la nostra memoria si aggrappa più al dolore che alla felicità?

La mente è fatta per sopravvivere, non per essere felice

Il nostro cervello non è progettato per renderci felici. Il suo scopo primario è uno solo: tenerci in vita. Per questo motivo, presta molta più attenzione a ciò che potrebbe farci male.

Quando proviamo dolore, fisico o emotivo, il cervello lo registra con maggiore intensità. È un segnale d’allarme. Funge da avvertimento per il futuro e ha la funzione di evitare che quella situazione o comportamento si ripeti nuovamente. Questo meccanismo prende il nome di bias di negatività, ed è uno dei più potenti filtri cognitivi con cui interpretiamo il mondo.

Il bias di negatività: il lato oscuro dell’attenzione

Studi psicologici dimostrano che di fronte a stimoli positivi e negativi di pari intensità, il nostro cervello dà maggiore importanza a quelli negativi.

  • Una critica ci colpisce più di un complimento

  • Un brutto voto si imprime nella mente più di dieci voti buoni

  • Un’esperienza umiliante ci resta impressa più di cento momenti di apprezzamento

Il motivo? La mente si è evoluta per anticipare il pericolo. Non è progettata per registrare la gioia, ma per evitare la sofferenza. Il ricordo doloroso è una lezione. Il ricordo felice è solo una pausa.

Il ruolo dell’amigdala

Da un punto di vista neurobiologico, il protagonista assoluto di questo processo è l’amigdala. Questa piccola struttura del cervello limbico ricopre un compito ben preciso: quello di rilevare e gestire la paura, l’ansia e il pericolo.

In presenza di un’esperienza negativa, l’amigdala si attiva con forza. E comunica con l’ippocampo, che è responsabile della formazione dei ricordi. Il risultato è che:

  • I ricordi negativi vengono immagazzinati più a lungo

  • Sono più vividi, più dettagliati e più carichi di emozioni

  • Si legano spesso a reazioni corporee (tachicardia, sudore e tensione)

Al contrario, gli eventi positivi non generano la stessa reazione d’allerta. E quindi non si imprimono con la stessa potenza.

La memoria non è un archivio oggettivo

Un errore comune è pensare alla memoria come a un hard disk. Inseriamo un file. E poi lo recuperiamo intatto. Niente di più sbagliato. La memoria umana funziona in modo completamente diverso. È un processo attivo, creativo e selettivo.

Ogni volta che ricordiamo qualcosa, non stiamo ripescando un ricordo. Lo stiamo ricostruendo. E lo facciamo in base al nostro stato emotivo attuale, ai nostri schemi cognitivi, ai nostri valori e alle nostre esperienze successive.

Questo significa che:

  • Il dolore del passato può essere amplificato dal nostro umore presente

  • Le emozioni negative tendono a essere rinforzate dal pensiero ripetitivo

  • I ricordi felici possono essere sbiaditi o distorti se non ci ricolleghiamo spesso a essi

La ruminazione mentale: un circolo vizioso

Uno dei principali meccanismi che mantiene vivi i ricordi dolorosi è la ruminazione. Consiste nel ripensare continuamente agli stessi eventi negativi, senza arrivare mai a una soluzione.

Chi soffre di ansia, depressione o bassa autostima tende a ruminare molto di più. E questo ha diversi effetti:

  • Aumenta l’importanza del ricordo negativo

  • Riduce l’accessibilità dei ricordi positivi

  • Rinforza la narrativa interna del fallimento o del pericolo

È come se, nella nostra mente, ci fosse una lente d’ingrandimento puntata sulle ferite. Mentre la luce dei momenti belli venisse spenta troppo in fretta.

L’effetto “emozione anticipata”

La mente si comporta come un calcolatore di probabilità: se una volta sei stato ferito in amore, meglio restare sulla difensiva. Se una volta hai fallito in pubblico, meglio non esporti più. Ma questo ha un costo:

  • Blocca la crescita personale

  • Alimenta l’evitamento

  • Irrigidisce la personalità e le scelte future

La memoria dolorosa diventa così una prigione, e non una lezione costruttiva da cui imparare per il futuro.

Emozioni e memoria: una coppia inseparabile

Le emozioni danno colore al ricordo

Senza emozione non esiste memoria duratura. Gli studi neuroscientifici lo dimostrano chiaramente: un evento emotivamente neutro tende a dissolversi nel tempo. Al contrario, un’esperienza che ci ha toccati nel profondo e che ha attivato una risposta fisiologica forte, ha molte più probabilità di fissarsi nel nostro archivio mnemonico.

Il motivo è che le emozioni agiscono da “marcatori somatici”, come ribadito dal neuroscienziato Antonio Damasio. Quando un evento provoca paura, vergogna, rabbia o dolore, il corpo reagisce. Aumenta il battito, si attivano i muscoli, cambia il respiro. Queste reazioni fisiche comunicano al cervello che quello è un momento significativo, e quindi merita di essere ricordato.

I ricordi traumatici sono indelebili?

In casi traumatici, questo processo si amplifica in modo radicale. Un evento traumatico può lasciare un segno così forte da alterare in modo permanente la struttura e la funzione del cervello. In particolare:

  • L’amigdala diventa iperattiva, pronta a segnalare pericoli anche dove non esistono

  • L’ippocampo, che dovrebbe inserire il ricordo in un contesto temporale, spesso fallisce, rendendo il trauma sempre “presente”

  • La corteccia prefrontale, che modula il pensiero razionale, può perdere temporaneamente il controllo

Il risultato? Il passato ritorna sotto forma di flashback, incubi e iper-vigilanza. È come se la memoria si fosse cristallizzata, senza possibilità di elaborazione.

La gioia, al contrario, è più leggera

Le emozioni positive sono meno invasive a livello fisiologico. Non provocano lo stesso tipo di allarme corporeo. Di solito non attivano la paura, non minacciano la sopravvivenza e non coinvolgono l’intero sistema limbico.

Ecco perché:

  • Le gioie vengono vissute “nel momento” ma raramente si fissano con la stessa forza

  • Spesso richiedono un’attitudine consapevole per essere notate davvero

  • Se non le rievochiamo attivamente, tendono a sbiadire

La felicità non fa rumore. Il dolore, invece, urla!

Si può allenare la memoria positiva?

Il potere della gratitudine

Una delle scoperte più potenti della psicologia positiva è che possiamo allenare la nostra attenzione. Possiamo spostare il focus. Possiamo, giorno dopo giorno, riscrivere le priorità della nostra memoria emotiva. E uno degli strumenti più efficaci è la gratitudine.

Praticare la gratitudine significa:

  • Ricordare consapevolmente le cose buone che ci sono successe

  • Riattivare le emozioni positive associate

  • Contrastare l’effetto sproporzionato del bias di negatività

Tenere un diario della gratitudine è una tecnica semplice ma potentissima. Bastano pochi minuti al giorno per scrivere 3 cose belle accadute. Non devono essere straordinarie. Basta che siano reali. E così si crea una nuova abitudine mentale: cercare il bene, non solo il pericolo.

L’effetto peak-end

Un altro strumento interessante ci arriva dalla psicologia cognitiva: l’effetto peak-end. Daniel Kahneman, premio Nobel, ha scoperto che tendiamo a ricordare un’esperienza non in base alla sua durata complessiva, ma in base a due momenti chiave:

  • Il momento più intenso (peak)

  • Il momento finale (end)

Questo vale anche per le emozioni positive. Un’esperienza piacevole con un picco molto alto e una fine soddisfacente sarà ricordata più vividamente, anche se nel complesso non è durata molto.

Cosa possiamo fare con questa informazione?

  • Scegliere consapevolmente di creare “picchi emotivi positivi” durante le nostre giornate

  • Concludere ogni giornata con un gesto carico di positività

  • Allenare la memoria a fissare questi momenti come ancora emotiva

Meditazione mindfulness

Spesso i ricordi felici svaniscono perché non li viviamo davvero. La mente è altrove. Siamo nel futuro o nel passato. Ecco perché la mindfulness, ovvero la pratica della presenza consapevole, può aiutare a rendere i momenti positivi più memorabili.

Quando siamo presenti:

  • Le emozioni vengono registrate con maggiore pienezza

  • I dettagli sensoriali si imprimono con più forza

  • La mente si allena a non saltare sempre al peggio

Il dolore come parte dell’identità

Spesso le esperienze dolorose diventano parte integrante della nostra storia personale. Quando raccontiamo chi siamo, non partiamo quasi mai dai successi o dalla felicità. Partiamo dalle ferite e dai momenti in cui abbiamo toccato il fondo.

È un meccanismo psicologico profondo in cui:

  • Il dolore dà profondità al racconto della nostra vita

  • Le ferite diventano prove del nostro valore e della nostra resilienza

  • I traumi si trasformano in pietre miliari della nostra evoluzione

Tutto ciò che ci ha spezzati tende anche a definirci. Ma c’è un rischio: quello di identificarsi in modo eccessivo con il dolore.

Quando succede:

  • La sofferenza diventa il nostro copione fisso

  • Ogni nuova esperienza viene filtrata attraverso quella lente

  • Si rinforza l’idea che il mondo sia ostile o che noi siamo “difettosi”

Il linguaggio crea la memoria

Il modo in cui parliamo delle nostre esperienze dolorose influenza il modo in cui le ricordiamo. La memoria non è un fatto oggettivo, ma una costruzione narrativa. Ogni volta che raccontiamo un evento, gli diamo forma. E spesso, senza rendercene conto, cristallizziamo il dolore attraverso il linguaggio.

Ecco alcuni esempi:

  • “Sono stato distrutto da quella relazione” crea un’immagine di impotenza

  • “Dopo quel trauma non sono più stato lo stesso” rafforza l’idea di rottura irreversibile

  • “Non supererò mai quello che mi hanno fatto” blocca ogni possibilità di evoluzione

Al contrario, quando usiamo parole che esprimono movimento, comprensione e trasformazione, anche il ricordo cambia tonalità. Diventa parte di un processo, non la fine di tutto.

Il ruolo dell’ambiente

La società tende a celebrare più il dolore più della gioia. I racconti tragici vengono considerati più “profondi”, più “veri”, e più “meritevoli di attenzione”. C’è quasi un culto della sofferenza. Chi è stato ferito viene spesso ascoltato più di chi ha vissuto serenamente. E questo condiziona il nostro modo di raccontarci.

  • Le storie drammatiche generano più empatia

  • La felicità è spesso considerata superficiale o poco interessante

  • Ci si sente più “legittimati” a condividere il dolore che la gioia

Tutto questo rinforza l’idea che il dolore debba occupare il centro della scena. Ma così facendo, lasciamo troppo poco spazio ai momenti felici della vita.

Come trasformare i ricordi dolorosi

Non devi cambiare il passato, ma il modo in cui lo guardi

Non possiamo cancellare un ricordo negativo. Ma possiamo cambiare il modo in cui lo portiamo dentro di noi. La psicoterapia, le pratiche di consapevolezza e la scrittura autobiografica sono strumenti potentissimi per riscrivere la narrazione.

Questi strumenti ci aiutano a:

  • Integrare il dolore nel nostro percorso senza rimanerne schiacciati

  • Dare nuovi significati agli eventi traumatici

  • Costruire una visione più completa, in cui anche i momenti felici rimangono impressi nella mente

Un esercizio utile è scrivere la propria autobiografia. Non limitarti a dire cosa è successo. Chiediti cosa hai imparato, come sei cresciuto e che qualità hai sviluppato grazie a quella ferita.

Le emozioni sono onde, non muri

Un errore frequente è credere che se un’emozione negativa si presenta, debba essere cacciata all’istante. Ma le emozioni non sono nemiche. Sono segnali. Hanno una funzione. Quando proviamo dolore, è un’indicazione che qualcosa ha bisogno di attenzione.

L’approccio più sano non è reprimere, ma accogliere. Alcune tecniche che aiutano:

  • Naming: dai un nome preciso a ciò che provi (non dire solo “sto male”, ma “sto provando frustrazione perché…”)

  • Accettazione: accogli la sensazione senza cercare di cambiarla subito

  • Rilascio consapevole: usa il respiro, il movimento e la scrittura per esprimere ciò che senti

Quando impariamo a fluire con le emozioni, anche i ricordi dolorosi diventano meno rigidi, meno invadenti e più integrati con noi stessi.

La bellezza della memoria selettiva

C’è una meravigliosa capacità che possiamo coltivare: la memoria selettiva positiva. Non significa illudersi. Significa scegliere consapevolmente dove dirigere l’attenzione.

Allenare questa capacità ci permette di:

  • Dare più peso ai ricordi belli

  • Creare ancore emotive positive nel nostro passato

  • Bilanciare la narrazione interiore

Ecco alcuni strumenti utili che puoi usare per questo scopo:

  • Rileggere i momenti felici (diari, foto, lettere)

  • Raccontare ad altri episodi che ci hanno fatto bene

  • Creare rituali di celebrazione della gioia

La mente dimentica facilmente ciò che non viene nutrito. Se non nutriamo la memoria positiva, saremo dominati dalla memoria negativa, soprattutto per il fatto che purtroppo, la mente è più predisposta a ricordare eventi negativi, rispetto a quelli felici.

La memoria come forma di cura

Ogni giorno scegliamo cosa portare con noi. Cosa rivivere. Cosa raccontare. Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo decidere come abitare il nostro passato. Questo è il grande potere della coscienza: occorre diventare autori della nostra memoria.

Ogni volta che riportiamo alla mente un ricordo, lo modifichiamo leggermente. Lo coloriamo con l’emozione del momento. Lo leghiamo ai pensieri che lo accompagnano. Lo inseriamo in una narrativa più ampia. Questo significa che possiamo:

  • Ammorbidire la durezza di un ricordo, se lo avvolgiamo di comprensione

  • Trasformare una sconfitta in insegnamento, se cambiamo prospettiva

  • Togliere centralità a ciò che ci ha feriti, se iniziamo a valorizzare anche ciò che ci ha ferito

Il perdono come forma di liberazione

Molti dei ricordi dolorosi sono legati a relazioni. Offese, abbandoni e ingiustizie. E spesso, ciò che mantiene vivo quel dolore è il rancore. Ma il perdono, che non è mai dimenticanza o giustificazione, è una scelta potente di libertà.

Perdonare significa:

  • Smettere di alimentare il ricordo con rabbia e dolore

  • Riprendere possesso del proprio presente

  • Lasciare che il passato perda la sua presa emotiva

Non lo si fa per l’altro. Lo si fa per sé. Per interrompere il legame tossico con un frammento di tempo che non merita più la nostra energia.

Un esempio reale: Anna e il padre assente

Anna ha 35 anni. Da bambina ha vissuto un abbandono doloroso: suo padre se ne andò di casa quando lei aveva solo otto anni. Per anni, ogni suo compleanno, ogni festa e ogni altro evento importante veniva macchiato da quella assenza. Non c’erano auguri, né telefonate. Solo silenzi. Solo vuoti.

Anna cresce con una ferita profonda. Per molto tempo interpreta quel silenzio come un rifiuto. Si convince di non essere abbastanza. Quel ricordo si fissa nella sua memoria come uno dei momenti più dolorosi della sua vita. Ogni volta che pensa al padre, riemergono rabbia, tristezza e un forte senso di abbandono.
Quel ricordo non cambia. Resta lì. Ma il modo in cui lei lo vive, sì.

Durante un percorso terapeutico, Anna inizia a lavorare sul perdono. Non un perdono automatico. Ma un percorso lento e difficile.

Scopre che suo padre aveva vissuto un crollo psicologico e che era incapace di gestire relazioni affettive. Questo non giustifica ciò che è accaduto. Ma cambia la narrazione: non è stata colpa mia.
Col tempo, Anna scrive una lettera al padre. Non per inviarla. Ma per liberarsi da questo peso. Scrive:
“Non so se potrò mai dimenticare quello che non c’è stato. Ma scelgo di non lasciare che quel dolore guidi ogni mio passo. Ti perdono per ciò che non sei stato. E perdono me stessa per aver pensato di non meritare amore.”

Da quel momento, il ricordo non scompare. Ma si trasforma. Non è più una ferita aperta, ma una cicatrice. Fa parte della sua storia. Ma non la definisce più. È riuscita a chiudere quel capitolo doloroso della sua vita.

Conclusione

Ricordiamo più il dolore della gioia perché siamo umani. Perché siamo programmati per sopravvivere, non per essere felici. Ma la bellezza della coscienza è che possiamo evolvere. Possiamo riscrivere il nostro dialogo interiore. Possiamo imparare ad aumentare l’importanza di ricordare eventi felici a discapito di quelli negativi. Non si tratta di cancellare le cicatrici, tuttavia non bisogna nemmeno caricarle di maggiore significato. 

Abbiamo la possibilità di decidere se nutrire ciò che ci ha fatto sentire felici o ciò che ci ha ferito.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei