Uomini senza voce: il lato invisibile del dolore maschile

dolore uomo

Viviamo in un’epoca che parla molto di diritti, di equità e di inclusione. Ma ascolta poco, soprattutto quando a soffrire è un uomo.
Perché quando il dolore è maschile, non fa rumore.

Perché i problemi degli uomini non si sentono nei media? È presto detto! Non si possono raccontare a causa del fatto che scardinerebbero la narrazione dominante in cui gli uomini sono i cattivi e le donne le vittime.

Una narrazione che, nel nome della giustizia femminile — giustizia sacrosanta, sia chiaro — ha silenziato il disagio maschile. Come se i problemi femminili, significassero in automatico che l’uomo non abbia diritto a manifestare le proprie problematiche.

È davvero così difficile occuparsi dei problemi di entrambi i sessi, senza trasformare tutto in un gioco a somma zero?
Sembra di sì. Perché oggi, nel racconto dominante, c’è posto solo per una vittima — e di conseguenza, solo per un colpevole.
È questa la triste deriva a cui stiamo assistendo: un sistema in cui, per far valere le sofferenze di una parte, si deve per forza mettere all’angolo l’altra.

Così, quando i media parlano esclusivamente delle difficoltà femminili, si crea un effetto collaterale potente e tossico: si dà per scontato che gli uomini non solo stiano meglio, ma che siano addirittura privilegiati.
Eppure non è così. O almeno, il privilegio non è mai stato questione di genere, ma di contesto, storia personale, e altri mille fattori.
Pensare il contrario rappresenta una scorciatoia comoda, ma profondamente ingiusta e meschina.
Un uomo che sta male, oggi, rappresenta una contraddizione, un ostacolo ideologico e quindi… meglio ignorarlo.

I media rincorrono le storie che commuovono, che indignano e che generano condivisioni. Ma la sofferenza dell’uomo non genera like.
Non è politicamente redditizia.
Non è coerente con lo storytelling in voga, che vuole la donna sempre e solo vittima e l’uomo sempre e solo colpevole.

E allora, anche quando le statistiche danno l’allarme — suicidi maschili alle stelle, padri privati dei figli, senzatetto uomini divorziati alle stelle, hikikomori prevalentemente uomini in aumento — tutto resta in silenzio.
O peggio: viene ridicolizzato, sminuito e messo in discussione.

In questa società che applaude alla “parità” e all’“inclusione”, c’è una categoria esclusa: l’uomo che soffre.

Questo non è un manifesto contro le donne, né contro il femminismo autentico.
È un grido contro l’ipocrisia di un sistema che sceglie quali dolori meritano attenzione e quali no.
È un appello rivolto a un sistema marcio che ascolta le lacrime solo se scendono dal volto giusto.

È tempo di cambiare rotta.
Non per dividere, ma per unire davvero.
Perché non c’è vera giustizia, se è a senso unico.

La scomparsa del padre: il grande tabù del divorzio

Quando una coppia esplode, la retorica pubblica si schiera, quasi istintivamente, con la madre. E non è difficile capire il perché. La figura della madre è culturalmente associata all’accudimento, al sacrificio e alla protezione. Il padre? Spesso ridotto a bancomat, a spettatore o a colpevole predefinito.

Nei tribunali, la custodia esclusiva viene ancora oggi affidata in larga maggioranza alle madri. La cosiddetta bigenitorialità rimane troppo spesso una mera illusione. E per i padri che chiedono di vedere i propri figli, la trafila è lunga, estenuante e persino umiliante. A volte basta una parola sbagliata, una denuncia senza prove, un sospetto — ed ecco che il contatto con i figli viene limitato, o addirittura negato.

E se si ribellano, vengono accusati di essere aggressivi. E mentre le battaglie per l’equità si moltiplicano in ogni settore della società, la figura del padre divorziato continua a essere un fantasma.

Ecco cosa accade troppo spesso dopo una separazione:

  • Il padre perde la casa coniugale, che viene assegnata alla madre anche se lui continua a pagarne il mutuo

  • Deve versare un assegno di mantenimento spesso sproporzionato rispetto al reddito reale che percepisce

  • Viene escluso dalle decisioni importanti sulla crescita dei figli

  • Può essere oggetto di accuse infondate che lo costringono a lunghe battaglie legali per dimostrare la propria innocenza

  • Viene ridotto a “visitatore” nel rapporto con i figli, con incontri limitati e supervisionati

Tutto questo ha conseguenze psicologiche devastanti. Il senso di impotenza, la perdita di ruolo e la frustrazione nel non essere creduto. E come se non bastasse, la società osserva con sospetto il suo dolore.

FONTI ATTENDIBILI

Nonostante l’89,8 % dei divorzi preveda nella legge l’affidamento congiunto, nella pratica il bambino trascorre con il padre solo il 17 % del tempo. In Italia, l’affidamento esclusivo paterno è rarissimo: solo l’1,9 % dei padri lo ottiene, mentre la madre lo riceve nella maggioranza dei casi. https://www.papaemammeseparationlus.org/affidamento-dei-figli-al-padre-solo-nell19-dei-casi/?utm_source=

In molte separazioni conflittuali viene usata la falsa accusa di pedofilia. Oggi in Italia l’80% di tale gravissima accusa sono papà separati, poi risultanti innocenti nel 92,4% dei casi, e tutto orchestrato per tenere i padri lontano dai propri figli! https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/18/separazioni-conflittuali-a-perdere-e-sempre-il-padre/848367/?utm_source=

Gli ultimi dati ISTAT disponibili circa la collocazione e l’assegnazione della casa ( 2012  ) affermano questo:

  • Moglie assegnataria della casa familiare: 58,2 %

  • Marito: 20,4 %

  • Due abitazioni distinte: 18,4 %

Dati successivi (post‑2012) non sono disponibili in forma dettagliata e territoriale, tuttavia alcuni studi confermano la stabilità di queste percentuali.

https://www.addebitoseparazione.biz/statistiche-separazioni-italia.php?utm_source=

Il dramma dei padri divorziati che vivono sotto la soglia della povertà

Non è una leggenda urbana. Basta camminare nelle grandi città per incontrarli. Uomini soli, in giacca e cravatta, che dormono in auto o sotto i ponti. Non sono né tossicodipendenti, né criminali, bensì padri divorziati. Uomini che, dopo un divorzio, si sono ridotti a vivere per strada a causa del fatto che non potevano permettersi l’affitto a causa di spese troppo onerose da affrontare dopo il divorzio.

Questa è una realtà che viene sistematicamente ignorata. Perché è scomoda e perché mina il racconto secondo cui l’uomo è sempre in una posizione di potere. Ma la povertà maschile post-divorzio è in crescita ovunque in Occidente.

Stando ai dati della Caritas i nuovi poveri quasi 1 su 2 – 46% – sarebbero rappresentati da padri separati in cui i figli abitano stabilmente con la madre. I padri separati o divorziati in Italia sono 4 milioni, e ben 800 000 di loro vivono sulla soglia di povertà. Il 66% di loro non riesce a sostenere le spese di prima necessità. E questo dipende dal fatto che nel 94% dei casi è l’uomo che versa l’assegno di mantenimento per i figli e inoltre, solo il 30% di essi riesce a mantenere la casa. Il restante 70% deve necessariamente avere anche i soldi per trovare una nuova abitazione. https://www.lanazione.it/cronaca/caritas-nuovi-poveri-b66aba9b?live

Eppure, nessuno fa campagne per loro. Nessuno li racconta nei talk show. Nessuno si indigna. E chi osa parlarne viene spesso zittito con un’accusa velenosa: “Stai minimizzando le violenze contro le donne”. Ma dove sta scritto che aiutare gli uomini significa ignorare le donne?

La verità è che c’è un enorme buco nero di attenzione su tutto ciò che riguarda la fragilità maschile. La sofferenza maschile è invisibile. E quando si prova a raccontarla, si rischia il linciaggio culturale. E non provate a parlarne ora che i media speculano sui femminicidi. Per alcune donne, se parli di problemi maschili reali, sei una donna che odia le donne.

Più volte mi è stato dato questo questo. Siamo arrivati a questo punto. Io femminista convinta e proprio perché femminista combatto le ingiustizie sia femminili che maschili e non faccio sconti a nessuno.

QUESTO SIGNIFICA ESSERE FEMMINISTA. Altrimenti cadi nella trappola del FEMMINISMO TOSSICO, che è tutta un’altra questione.

Falsamente colpevoli: quando l’uomo è colpevole solo perché uomo

C’è una frase che terrorizza ogni uomo separato: “Mi ha aggredita”. Non servono testimoni e non servono prove. Basta una denuncia per avviare un processo — sociale, ancor prima che giudiziario — in cui l’uomo si ritrova sul banco degli imputati senza appello. In certi casi, anche se verrà poi assolto, sarà comunque rovinato.

Il sospetto resta, ma la reputazione sparisce. Basta guardare il caso mediatico che ha coinvolto Johnny Depp: ha perso tutto prima ancora che iniziasse il processo, vittima di una condanna pubblica preventiva.

La cosa più inquietante è che alcune donne sfruttano consapevolmente le accuse false — come quelle di violenza o stupro — perché conoscono bene le dinamiche di genere che operano nella nostra società.

Ogni volta che una donna uccide un uomo, le basta sostenere di essere stata vittima di abusi per ottenere comprensione o attenuanti, anche senza prove concrete. È una narrazione che, troppo spesso, gioca a senso unico.

ATTENZIONE: non si tratta di sminuire le denunce delle donne verso gli uomini, né di negare la gravità di certi reati. Il punto è un altro: dovremmo tutti imparare ad aspettare l’esito delle indagini prima di emettere un verdetto.

Eppure, troppo spesso, basta una semplice accusa — ancora tutta da verificare — perché un uomo venga etichettato come colpevole davanti all’opinione pubblica. Non vi sembra preoccupante questa automatica condanna sociale, che prescinde da prove, da processi e dalla verità dei fatti?

E allora chiediamoci: chi protegge gli uomini dalle false accuse?

Spoiler: nessuno.
E qui non si tratta di mettere in dubbio le vere vittime, ma di riconoscere che un’accusa falsa è una forma di violenza. E che i numeri esistono, anche se vengono sepolti sotto montagne di silenzi.

  • In molti paesi occidentali, una parte significativa delle denunce di violenza domestica si conclude senza prove concrete, spesso archiviate per “insussistenza del fatto”

  • Tuttavia, l’uomo viene comunque allontanato da casa in via cautelare, a volte anche dai figli, prima ancora che si indaghi a fondo

  • In molti casi, il reintegro nella propria abitazione è impossibile, anche dopo un’eventuale assoluzione

Una donna che denuncia viene — giustamente — ascoltata e protetta. Un uomo che subisce una denuncia falsa, invece, viene lasciato solo a difendersi. E anche quando prova a raccontare il suo inferno, viene accusato di “vittimismo tossico”.

Ma è davvero tossico difendersi? È tossico pretendere giustizia?
La presunzione di innocenza è un pilastro fondamentale su cui si erge ogni democrazia. Ma sembra che, nel contesto delle relazioni uomo-donna, venga sospesa.

E se c’è chi crede che “tanto se è innocente non ha nulla da temere”, allora è evidente che non ha mai dovuto affrontare un’accusa infondata in un’aula di tribunale con la propria vita in gioco.

I suicidi maschili (di cui nessuno parla)

In Italia c’è un dramma silenzioso che ogni anno fa più vittime di molte malattie. Si chiama suicidio. E ha un volto nettamente maschile.

Secondo i dati ISTAT più recenti, in Italia si registrano ogni anno circa 4000 morti per suicidio. Circa l’80% dei suicidi in Italia riguarda gli uomini.
Hai letto bene. Quattro su cinque!

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Eppure, quando si parla di salute mentale, le campagne sono quasi sempre rivolte alle donne.
Quando si parla di disagio psicologico, di dolore esistenziale o di supporto emotivo… l’uomo resta fuori. Perché si presume che debba farcela da solo e che non abbia bisogno di aiuto. Eppure 4 casi su 5 di suicidi sono uomini! NESSUNO NE PARLA!

Un uomo non chiede aiuto facilmente a causa di un eccesso di orgoglio o vergogna.
E allora spesso salta l’unico passaggio che potrebbe salvarlo: la richiesta di aiuto.
Così si impicca, si butta dal ponte, prende i farmaci, e muore in silenzio sapendo anche di essere secondo la società un PRIVILEGIATO.

E i motivi sono tanti.

  • Separazioni dolorose, con perdita dei figli

  • Difficoltà economiche post-divorzio

  • Solitudine cronica e assenza di relazioni profonde

  • Impossibilità di esprimere il proprio dolore senza sentirsi giudicati

È un genocidio psicologico che avviene sotto gli occhi di tutti, ma gli occhi sono chiusi.
E allora si continua a dire che “gli uomini sono privilegiati”.
Ma i privilegiati non si suicidano a migliaia ogni anno nel silenzio generale.

Il ritiro sociale ha solo un volto: quello maschile

C’è un fenomeno – Hikikomori – che cresce in silenzio come muffa sui muri dell’indifferenza. Viene dal Giappone, ma è ormai diventato un fenomeno che possiamo osservare ovunque. Giovani, quasi sempre uomini, che si rinchiudono in casa e smettono di vivere. Non studiano, non lavorano e non escono. Non ce la fanno più.

Non riescono più a sostenere la pressione, l’umiliazione o quella sensazione costante di non valere abbastanza, di essere superflui, sbagliati e colpevoli in partenza — come se ogni tentativo fosse già destinato a fallire ancora prima di cominciare.

L’hikikomori è la nuova malattia del maschio moderno.
E non è difficile capire il perché.

  • La scuola penalizza la mascolinità: meno movimento, meno sfida, più verbalizzazione ed emotività. Tutto calibrato su parametri femminili

  • I media li dipingono spesso come potenziali oppressori, privilegiati e da correggere

  • La società chiede loro di essere forti ma sensibili, decisi ma empatici, virili ma docili. Praticamente la società chiede loro di diventare degli OSSIMORI VIVENTI.

Il risultato?
Ritiro, ansia sociale e depressione.
E pochissimi ne parlano e solo sul web. Perché il disagio dei maschi non fa tendenza, fa paura. Svela le crepe di una società marcia fino al midollo.

Il fenomeno degli hikikomori – persone che scelgono di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi, chiudendosi in casa o addirittura nella propria stanza – è sempre più diffuso anche in Italia. Le stime parlano di oltre 50.000 casi, con una percentuale che varia tra il 70% e il 90% di maschi.

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NOTA BENE: Però qualcosa non torna! Se la narrativa dominante dipinge l’uomo come privilegiato e la donna come vittima o parte svantaggiata del sistema, può sembrare contraddittorio osservare che, nella realtà, siano proprio tanti uomini a vivere forme profonde di disagio: isolamento sociale e ritiro dalla vita pubblica (fenomeni come i NEET o gli hikikomori). Questo contrasta con l’idea che siano solo le donne a pagare il prezzo più alto in termini di benessere psicologico o sociale.

I lavori pericolosi, gli incidenti e il gender gap raccontato a metà

C’è un altro dettaglio “fastidiosamente vero” che viene sistematicamente ignorato nella narrativa corrente. Parliamo di lavoro, rischi e stipendi.

Nel dibattito sul cosiddetto gender pay gap ci si concentra sempre su un’unica domanda:
“Perché le donne guadagnano meno?”
Domanda legittima, ma la risposta, nella maggior parte dei casi, non è discriminazione diretta a parità di mansione.

Quello che viene spesso taciuto — o peggio, manipolato — è che a parità di mansione, uomini e donne guadagnano allo stesso modo.
Lo dice la legge. Lo dicono le buste paga.
Un uomo e una donna che fanno i camerieri, gli insegnanti, i farmacisti o gli impiegati ricevono lo stesso salario orario base, salvo straordinari, premi e anzianità.
E allora da dove nasce il “pay gap”?

Dal fatto che uomini e donne spesso scelgono (o sono spinti a scegliere) settori diversi.

Facciamo un po’ di conti.
Secondo i dati INAIL e ILO:

  • Oltre il 90% delle morti sul lavoro in Italia riguarda uomini

  • I settori con più incidenti gravi e decessi sono edilizia, trasporti, agricoltura e industria pesante

  • Sono lavori quasi totalmente dominati dagli uomini

  • Gli uomini sono anche la maggioranza assoluta tra i lavoratori notturni, su turni e a rischio fisico elevato

Eppure… non vediamo nessuna manifestazione per portare più donne nelle miniere o sui tetti a 40 gradi sotto il sole d’agosto.

Il gender gap, così com’è raccontato, è una verità truccata.
Si fa credere che esista un sistema che penalizza economicamente le donne per il solo fatto di essere donne.
Ma i dati veri raccontano altro.

Il problema — quello reale — è più ampio, più culturale e più sociale.
E riguarda anche (e soprattutto) la pressione sugli uomini ad accettare qualsiasi tipo di lavoro, anche il più disumano, pur di essere “produttivi” e “utili”.

E allora chiediamoci:

  • Chi sale su un’impalcatura a 20 metri d’altezza?

  • Chi lavora 12 ore in fabbrica con rumori assordanti e rischio di amputazioni?

  • Chi guida un camion per 18 ore attraversando interi paesi?

  • Chi si cala in pozzi, scava, smaltisce rifiuti tossici, pulisce fognature, combatte incendi?

Per la maggior parte sono sempre uomini.
E quando muoiono, quando si infortunano o quando finiscono invalidi, non si fa nessuna campagna di sensibilizzazione.
Perché?
Perché non si può raccontare un uomo come vittima. Non si può dire che paga con la pelle il suo “privilegio”.

Ma è proprio questo il punto.
Il vero privilegio è potersi sottrarre al sacrificio senza essere giudicati.

Adolescenti maschi in crisi: dove sono i modelli positivi?

Un tempo c’erano figure da imitare. Il padre autorevole, il maestro, il fratello maggiore, il mentore… Oggi, sempre più spesso, i ragazzi crescono senza punti di riferimento maschili sani. A scuola predominano le figure femminili. In famiglia, il padre è spesso assente fisicamente o psicologicamente. E fuori… ci sono gli influencer, i gamer, o — peggio — i predicatori tossici del maschilismo reazionario.

Ma questo non è empowerment maschile. È la risposta sbagliata a un vuoto educativo.

I giovani uomini oggi si trovano di fronte a un bivio assurdo:

  • Se seguono il modello “forte e dominante”, vengono bollati come tossici

  • Se cercano di essere “dolci e comprensivi”, vengono ignorati, isolati e sminuiti

  • Se esprimono disagio, vengono derisi. Se si arrabbiano, vengono puniti

E intanto, i dati parlano chiaro:

  • I ragazzi abbandonano la scuola più delle ragazze

  • Hanno voti più bassi

  • Commettono e subiscono più atti di bullismo

  • Si suicidano molto più frequentemente

Eppure non si fanno leggi ad hoc e non si finanziano campagne di sensibilizzazione come avviene periodicamente per le donne.
È come se questo male silenzioso non esistesse e fosse solo frutto di un delirio collettivo.

La narrazione unilaterale e il cortocircuito del femminismo moderno

Siamo entrati in un’epoca in cui basta dire “è un problema femminile” per essere ascoltati. Ma dire “è un problema maschile” suona quasi come un insulto. E qui non si tratta di fare paragoni. Si tratta di pretendere giustizia in entrambe le direzioni.

Il femminismo — quello vero, quello storico, quello che ha ottenuto il diritto al voto e alla dignità — è sacrosanto. Ma ciò che oggi si spaccia per femminismo, spesso, è una narrazione selettiva e ideologica, che:

  • Eleva la donna a simbolo sacro della sofferenza

  • Demonizza l’uomo come colpevole sistemico

  • Costruisce un sistema in cui la parità si applica solo quando conviene

Un esempio lampante?
Nessuno chiede pari rappresentanza di genere nei mestieri più rischiosi, faticosi e sottopagati.

Allora la domanda è: vogliamo davvero la parità? O solo una comoda supremazia selettiva mascherata da giustizia?

Il mito dell’uomo privilegiato: davvero è sempre lui quello in vantaggio?

C’è una narrazione tossica, ma molto in voga, che suona così: “L’uomo è privilegiato, punto.”
Non importa se sei disoccupato, se stai dormendo in macchina, se non vedi i tuoi figli da sei mesi o se combatti ogni giorno con pensieri suicidi. Sei un uomo. Quindi, per nascita, stai meglio. Questa semplificazione brutale è diventata la norma.

Ma analizziamolo con lucidità: in che cosa oggi l’uomo medio è davvero privilegiato?

  • Sul lavoro? Gli uomini rappresentano la maggioranza nei mestieri più pericolosi e faticosi: operai edili, marittimi, camionisti, minatori, muratori. La maggioranza dei morti sul lavoro sono uomini.

  • In salute? Gli uomini vivono in media 5 anni in meno rispetto alle donne. E si curano di meno.

  • Nei tribunali? In caso di separazione, l’85% delle volte i figli vengono affidati alla madre.

  • Come qualità di vita? Ogni anno l’80% dei suicidi sono rappresentati dagli uomini. I senzatetto sono per la maggior parte uomini. Anche i giovani che si ritirano dalla società – hikikomori – sono prevalentemente uomini.
  • Nel sistema educativo? I ragazzi hanno tassi di abbandono scolastico più alti, voti più bassi e diagnosi tardive di disturbi dell’apprendimento.

Non stiamo dicendo che gli uomini soffrano più delle donne. Stiamo dicendo che soffrono anche loro.

Il privilegio non è rappresentato dall’avere maggiori quantità di testosterone. Il privilegio è essere ascoltati quando si sta male.
E su questo fronte, l’uomo oggi è in ritardo di secoli.

Violenza sugli uomini: l’invisibilità di chi non può mai essere vittima

Quando si parla di violenza domestica, l’immagine è sempre la stessa: un uomo aggressore e una donna vittima. È uno schema che funziona, che colpisce e che indigna la collettività.
Perché ci sono anche uomini che subiscono! Uomini che vengono umiliati, colpiti, isolati e manipolati da partner violente. Sì, accade e più spesso di quanto potresti pensare.

Ma la loro voce è soffocata.

  • Perché un uomo che denuncia una donna viene deriso

  • Perché molti operatori sociali non prendono sul serio le sue parole

  • Perché i centri antiviolenza maschili, laddove esistono, non hanno nemmeno il diritto di definirsi tali

Eppure, secondo uno studio ISTAT del 2023, oltre il 18% degli uomini ha subito almeno una forma di violenza psicologica o fisica all’interno di una relazione di coppia.
Quasi uno su cinque.

E cosa succede dopo?

  • Spesso nulla.

  • O peggio: quando l’uomo si difende, viene accusato.

È una trappola perfetta.

Ed è ancora più subdola perché non si vede.
L’uomo non ha il volto tumefatto, non chiama aiuto e non racconta nulla. Ma dentro si sgretola.
E la ferita non è meno profonda solo perché è invisibile.

Ecco alcune idee concrete per uscire da questa trappola

Il cambiamento è possibile solo se si offrono alternative adeguate. Solo se si ha il coraggio di indicare vie nuove, magari impopolari, ma giuste.

Ecco alcune proposte concrete per un sistema che riconosca finalmente anche le fragilità maschili:

1. Istituire sportelli psicologici gratuiti per uomini

  • Nei centri per la famiglia

  • Nelle scuole superiori, dedicati ai ragazzi

  • Nei tribunali, per padri in fase di separazione

2. Rendere la bigenitorialità una prassi reale, non solo teorica

  • Affidamento condiviso vero, e non sbilanciato

  • Mantenimento equo basato sul reddito di entrambi

  • Mediazione familiare obbligatoria in caso di conflitto genitoriale

3. Riconoscere e prevenire la violenza anche contro gli uomini

  • Campagne istituzionali inclusive

  • Centri antiviolenza anche per vittime maschili

  • Formazione degli operatori dei servizi sociali su dinamiche psicologiche maschili

4. Rivedere il racconto mediatico e culturale

  • Promuovere rappresentazioni equilibrate nei media, anche dell’uomo sofferente, onesto ed emotivo

  • Coinvolgere autori, sceneggiatori e giornalisti in una riflessione nuova e condivisa

  • Finanziamenti pubblici per progetti culturali che parlano di entrambi i generi, e non solo di uno

5. Educazione al rispetto reciproco e non alla colpevolizzazione

  • Uscire dalla retorica “gli uomini devono disimparare la violenza”

  • Entrare nella pedagogia dell’empatia, della collaborazione e della vulnerabilità condivisa

  • Valorizzare le differenze di genere come ricchezza e non come minaccia

Conclusione

Ricorda che non potrà mai esistere vera parità se metà dell’umanità è autorizzata a soffrire e l’altra metà no.

Questo non è un attacco al femminismo autentico.
È un appello alla giustizia vera. Alla parità che abbraccia e non esclude.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei