Soffrire è umano: le 10 cause filosofiche del dolore interiore

sofferenza

Perché soffriamo?

Se la psicologia ricerca nel cervello, nei meccanismi mentali o nell’infanzia le cause del dolore, la filosofia si muove su un altro piano: quello dell’essere, del senso e della condizione umana nel suo insieme.
Qui la sofferenza non è un malfunzionamento da curare, ma una verità da comprendere. È parte della nostra esistenza, come l’ombra è parte della luce. Non ci si chiede come evitarla, ma cosa essa riveli su chi siamo, su come viviamo e su cosa crediamo.

Soffrire, allora, non è un incidente. È un elemento costitutivo della nostra esistenza, una conseguenza naturale del fatto che siamo esseri autocoscienti e liberi.

Il desiderio – Arthur Schopenhauer

Schopenhauer non ci gira attorno: desiderare è soffrire.

L’essere umano, per sua natura, è un “essere di desiderio”. Desidera il piacere, il successo, l’amore, la felicità e l’approvazione. Ma ogni desiderio porta con sé una mancanza. Finché non lo otteniamo, viviamo nell’attesa e nella frustrazione.
E se lo otteniamo? Peggio. Perché subito dopo arriva la noia, l’insoddisfazione e il vuoto. Come una bestia affamata, la volontà non si placa mai.

Secondo Schopenhauer, la sofferenza nasce da tre fattori principali:

  • Il desiderio insoddisfatto, che genera angoscia

  • Il desiderio soddisfatto, che genera noia

  • Il ciclo infinito tra i due, che rende la vita un pendolo tra dolore e vuoto

Nel suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer descrive l’uomo come una creatura dominata da una volontà cieca, incontenibile e irrazionale, che lo spinge avanti senza tregua. La vita, per lui, non è un dono, ma un errore cosmico.

Ecco perché ammirava tanto l’ascetismo buddhista: solo spegnendo il desiderio si spegne il dolore.
Ma attenzione, Schopenhauer non era un nichilista nel senso moderno del termine. Credeva nell’arte, nella compassione e nella contemplazione come strumenti per sospendere temporaneamente il tormento del volere.

Come possiamo leggere oggi queste riflessioni?

Ogni volta che inseguiamo la felicità come un obiettivo da raggiungere, stiamo nutrendo “l’illusione schopenhaueriana”

Per Schopenhauer, il problema non è solo ciò che desideriamo, ma il modo in cui il desiderio struttura la nostra esperienza del mondo. Desiderare non è semplicemente volere qualcosa, ma definire sé stessi attraverso ciò che manca. E qui sta il nodo da sciogliere. L’essere umano, in questa prospettiva, non si riconosce per ciò che è, ma per ciò che insegue.

In un’epoca come la nostra, dominata dal consumo, dalla performance e dall’apparenza, il desiderio ha smesso di essere uno slancio vitale per diventare una macchina identitaria. Non desideriamo più solo oggetti o esperienze, ma status, immagini e ruoli.
Siamo ciò che vogliamo – o meglio, ciò che mostriamo di volere.

Ecco perché Schopenhauer parla non tanto di un cambiamento esteriore, quanto di una trasformazione del rapporto interiore col volere stesso. Non si tratta di reprimere il desiderio, ma di riconoscere quanto ci possiede, quanto ci allontana dalla quiete e quanto ci condanna a una corsa infinita.
Solo in questa consapevolezza, suggerisce, può emergere una forma di libertà più sottile: quella che nasce dal non dover continuamente rincorrere sé stessi attraverso ciò che si desidera.

L’assurdo – Albert Camus

Camus ci spiazza. Per lui, la sofferenza nasce non da ciò che ci accade, ma da ciò che il mondo non è.
Il mondo non ha senso. L’universo non risponde. L’esistenza è muta e vuota di significati. Ma l’uomo… l’uomo invece cerca il senso in modo incessante.

Ecco il cuore dell’assurdo: una coscienza che grida dentro un universo che tace.

Nel suo celebre saggio Il mito di Sisifo, Camus descrive l’assurdità come lo scarto tra l’uomo che vuole capire e un mondo che non si lascia comprendere. Sisifo, condannato dagli dei a spingere in eterno un masso su per una montagna, simboleggia questa condizione. Eppure – scrive Camus – “bisogna immaginare Sisifo felice”.

Ma come? Felice in un compito inutile?

Camus non è un pessimista. È un ribelle. Il suo pensiero non dice “la vita è senza senso, quindi è inutile viverla”, ma al contrario: “proprio perché la vita è assurda, vale la pena viverla”.
Bisogna abbracciare l’assurdo e vivere con dignità nonostante tutto: questo è il compito dell’uomo.

Per Camus, la sofferenza nasce da:

  • Il bisogno di senso in un universo che ne è privo

  • L’incompatibilità tra la razionalità umana e l’irrazionalità del mondo

  • Il rifiuto di accettare una vita limitata e la casualità dell’esistenza

Ma se accettiamo l’assurdo, non come condanna ma come condizione, allora la sofferenza può diventare libertà.
Smettiamo di aspettare risposte dall’esterno. Iniziamo a creare senso da dentro.

In un mondo che ci insegna a trovare scopo in ruoli, religioni e traguardi, Camus ci invita a un’altra possibilità: vivere per il gusto di esistere, senza appigli, ma con occhi aperti.

La libertà – Jean-Paul Sartre

Può sembrare strano, ma per Sartre la libertà è una condanna.
Già, perché se la libertà fosse solo possibilità, scelta e autonomia, allora dovrebbe essere una benedizione. Invece, per l’esistenzialismo sartriano, l’uomo è condannato a essere libero.
Condannato, sì, perché non può non scegliere. Anche non scegliere è una scelta. Non esiste rifugio dalla responsabilità.

Nell’opera L’essere e il nulla, Sartre afferma che l’uomo non ha una “natura” predefinita. Non c’è un dio che lo ha progettato e non c’è una fine già scritta. L’uomo è ciò che sceglie di essere.
E qui nasce il vero peso della sofferenza secondo la visione sartriana. Se siamo completamente liberi, allora siamo completamente responsabili della nostra esistenza. Non possiamo dare la colpa a dio, alla società, ai genitori o al destino.
E questo… causa sofferenza.

Le cause della sofferenza, secondo Sartre sono:

  • L’angoscia della scelta: sapere che ogni decisione costruisce chi siamo

  • Il peso della responsabilità: ogni errore e ogni fallimento, ricade su di noi

  • Il senso di colpa: non più morale, ma ontologico. Un senso di colpa per esistere senza giustificazione

Il celebre concetto di mala fede”, esprime il tentativo dell’uomo di fuggire da questa libertà. Come? Fingendo di non aver scelta. Scegliendo di essere “cameriere”, “madre” e “impiegato” come se fosse un ruolo fisso, e non una costruzione continua.

Sartre ci mette davanti a uno specchio crudele ma onesto. Siamo liberi, e proprio per questo la nostra esistenza ci pesa. Ma è anche l’unico modo per darle valore. La libertà, come la sofferenza, è un qualcosa di inseparabile dall’essere umano.

La finitezza umana – Martin Heidegger

Se Sartre ci parla di libertà, Heidegger ci parla di tempo.
E più precisamente: di morte.

In “Essere e Tempo”, Heidegger afferma che l’uomo è un “essere-per-la-morte”. Non nel senso che deve morire un giorno, ma che la sua intera esistenza è costituita dalla consapevolezza della fine.
Viviamo sapendo di non essere eterni. E questa consapevolezza, che spesso rimuoviamo, è fonte profonda di angoscia.

Per Heidegger, soffriamo perché:

  • Siamo consapevoli che la nostra vita ha una data di scadenza

  • Viviamo nell’autenticità solo quando ci confrontiamo con la nostra morte

  • Temiamo il “nulla”, il vuoto che ci attende

Heidegger dice che uno dei motivi per cui soffriamo è che sappiamo di dover morire. Non è solo la paura della morte in sé, ma il fatto che viviamo con questa consapevolezza dentro di noi, anche se spesso cerchiamo di ignorarla.

Per non pensarci, seguiamo quello che “si fa”: si lavora, si fa carriera, si fanno figli e si vive come vivono tutti. Heidegger chiama questo modo di vivere il “si impersonale”, cioè quella condizione in cui ci lasciamo trascinare da quello che fanno gli altri senza scegliere davvero per noi stessi. È una vita comoda, ma non autentica. È un modo per non sentire l’angoscia che deriva dal fatto che la nostra vita un giorno finirà.

Ma secondo lui, solo quando accettiamo davvero che siamo esseri mortali, e ci rendiamo conto che abbiamo un tempo limitato, iniziamo a vivere in modo pieno, con profondità e con presenza.
La sofferenza che nasce da questa consapevolezza non è inutile. È come una porta: se la attraversiamo, possiamo iniziare a scegliere davvero come vivere.

In conclusione, secondo Heidegger abbiamo due vie possibili:
La prima è vivere in modo non autentico, e quindi fare finta di essere immortali, lasciandoci trasportare dalla routine, dalle convenzioni, e da ciò che “si fa”, senza mai fermarci a riflettere sul fatto che la nostra vita finirà. In questa modalità, nascondiamo la verità della morte dietro una quotidianità automatica e rassicurante.

La seconda via è quella di vivere in modo autentico, cioè con la consapevolezza profonda che siamo esseri finiti, destinati a morire. Ma proprio questa consapevolezza non ci paralizza, anzi: ci spinge a vivere con più intensità, più presenza e più verità.
Sapere che il tempo è limitato dà valore a ogni scelta, a ogni parola e a ogni gesto.

L’ignoranza – Platone e il Buddha

Per due pensatori lontanissimi nel tempo e nello spazio, come Platone e il Buddha, la radice della sofferenza non sta tanto nel dolore fisico o negli eventi esterni, ma in qualcosa di molto più sottile: l’illusione.
Soffriamo perché viviamo lontani dalla verità.

Platone: le ombre della caverna

Nel celebre mito della caverna, Platone immagina gli uomini incatenati fin dalla nascita, costretti a guardare un muro dove si proiettano solo ombre. Quelle ombre sono tutto ciò che conoscono. Le scambiano per la realtà.
Ma non sono la realtà. Sono solo riflessi, apparenze, nonché versioni distorte di ciò che è vero.

Quando uno di loro riesce a liberarsi e a uscire dalla caverna, incontra la luce – abbagliante, spiazzante, perfino dolorosa – ma pian piano capisce che quello che vede è il mondo reale.
Il percorso verso la verità non è confortevole. È difficile. Ma è l’unico modo per essere veramente liberi.

Il Buddha: vedere le cose come sono

Anche il Buddha, nel cuore della sua dottrina, individua nell’ignoranza una delle cause principali del dolore umano. Non parliamo solo di non sapere, ma del vedere in modo sbagliato, dell’essere attaccati a ciò che è impermanente, credendo che duri per sempre.
Ignoriamo tre verità fondamentali:

  • Tutto cambia

  • Nulla ci appartiene davvero

  • L’io separato è un’illusione

Soffriamo quando ci leghiamo a cose, persone o ruoli credendoli stabili e permanenti, come se potessero darci sicurezza per sempre. Ma quando, inevitabilmente, cambiano o ci vengono sottratti, il dolore ci travolge. Non perché la realtà sia crudele, ma perché l’abbiamo interpretata male: abbiamo scambiato ciò che è transitorio per qualcosa di eterno. In questo caso l’ignoranza è stata la causa della nostra sofferenza, dato che se avessimo saputo prima che erano cose che potevano cambiare non avremmo sofferto così tanto.

Una protezione che diventa una trappola

A prima vista, l’ignoranza può sembrare rassicurante.
Ignorare un tradimento, una verità scomoda, o un conflitto interiore può darci una tregua. È come chiudere gli occhi per non vedere una ferita.
Ma quella tregua è fragile. Non risolve nulla. Anzi, spesso peggiora tutto.
La verità non smette di esistere solo perché non la vogliamo vedere.

Ignorare non è innocuo. È come vivere in una casa che lentamente si sgretola mentre fingi che tutto sia normale.
Prima o poi, crolla.

Conoscere fa soffrire… ma libera

Sia Platone che il Buddha ci mostrano che vedere la verità può essere doloroso all’inizio, ma è anche l’unico modo per uscire dalla schiavitù dell’illusione.

Il dolore che nasce dall’ignoranza è più profondo perché silenzioso. Non lo riconosciamo subito, ma ci accompagna in ogni delusione, in ogni aspettativa infranta, e in ogni attaccamento che ci viene strappato via.

In sintesi

  • L’ignoranza può proteggerci per un po’, ma poi ci tradisce.

  • La verità può ferire, ma è l’unica che guarisce.

  • Platone e il Buddha non ci chiedono di sapere tutto, ma di smettere di vivere nel sonno dell’illusione.

Solo aprendo gli occhi, anche se ci bruciano, possiamo iniziare a vivere davvero.

Il nichilismo – Friedrich Nietzsche

Cosa accade quando dio muore?
Nietzsche, in una delle sue frasi più celebri, ci dice: “Dio è morto. E noi lo abbiamo ucciso.”

Nietzsche non sta dicendo semplicemente che le persone non credono più in dio, come figura religiosa. Sta dicendo qualcosa di molto più grande e profondo: che l’intero sistema di valori su cui si è basata per secoli la civiltà occidentale non regge più.

Per secoli, la religione ha dato agli esseri umani delle certezze:

  • Cos’è giusto e cos’è sbagliato

  • Perché vale la pena vivere

  • Cosa succede dopo la morte

  • Cosa significa essere buoni

Con la modernità, con la scienza e con la crisi delle autorità religiose, queste certezze sono crollate. E Nietzsche dice: siamo stati noi a farle crollare. “Noi lo abbiamo ucciso” significa: siamo stati noi a togliere valore a quei valori. Ora Dio non ci guida più. E quindi?

E quindi… non sappiamo più per cosa vivere.

Questo è il nichilismo: vivere in un mondo dove i vecchi valori non funzionano più, e i nuovi non esistono ancora. È come camminare in una città distrutta, senza una mappa e senza sapere dove andare.
È un vuoto che fa male. Perché l’essere umano ha bisogno di un senso. Senza senso, arriva la sofferenza più profonda: la sensazione che niente abbia davvero valore.

Nietzche dice che ci sono due modi per reagire a questo vuoto:

  • Nichilismo passivo: chi si arrende. Vive senza entusiasmo e senza scopo. Cade nella rassegnazione, nella depressione e nell’apatia.
  • Nichilismo attivo: chi distrugge i vecchi valori per crearne di nuovi. Non si arrende, si reinventa.

E qui arriva l’Oltreuomo: un essere umano capace di creare da sé il proprio valore e di decidere cosa è giusto, bello e importante senza bisogno di regole imposte da altri.

Ma per diventare così forti e liberi, bisogna prima attraversare il vuoto.
Bisogna affrontare il dolore del non sapere, del non avere certezze e del non appartenere più a un ordine già fatto. È lì che si soffre. Ma è anche lì che si cresce.

In parole semplici?

Nietzsche ci dice:

“Il mondo non ti darà più un senso già pronto. Se vuoi che la tua vita abbia valore… sei tu che lo devi creare.”

Ammetto che non sia una frase molto rassicurante, tuttavia può liberare. Perché invece di aspettare che la verità venga da fuori, ci spinge a trovarla dentro di noi, nella nostra forza, nella nostra esperienza e nella nostra volontà.

Il tempo: un mistero che ci fa soffrire

Il tempo è qualcosa che tutti viviamo, ma che nessuno riesce a definire davvero. È una delle cose più comuni e allo stesso tempo più misteriose. E spesso, senza rendercene conto, è anche una delle cause più sottili della nostra sofferenza.

Sant’Agostino: il tempo come inquietudine dell’anima

Nelle Confessioni, Sant’Agostino si fa una domanda sorprendente: “Che cos’è il tempo?”
E risponde in modo ancora più sorprendente: “Se nessuno me lo chiede, lo so. Ma se devo spiegarlo, non lo so più.”

Agostino non parla del tempo come lo misurano gli orologi. Parla del tempo interiore, quello che viviamo dentro di noi.
Secondo lui, non viviamo mai nel vero presente. Siamo sempre con la mente nel passato – a rivivere ciò che è stato, a rimpiangere, a rielaborare – oppure nel futuro, pieni di attese, speranze o paure.

Il presente? È solo un attimo che scivola via subito. Non riusciamo ad afferrarlo mai del tutto.

Ecco allora da dove nasce la nostra inquietudine: viviamo come se fossimo “fuori tempo”, sempre altrove, e questo ci rende ansiosi, insoddisfatti e persi.

Henri Bergson: il tempo vero non si misura in secondi

Henri Bergson, filosofo francese, ha ripreso e approfondito l’idea del tempo interiore.
Per lui, il tempo che viviamo non è come quello dei calendari o degli orologi.
Il tempo vero – quello che sentiamo dentro – è fluido, personale e pieno di emozioni.
Un’ora di attesa in ospedale non è l’equivalente di un’ora passata con chi amiamo. Anche se sulla carta sono 60 minuti, la nostra esperienza le rende completamente diverse.

Bergson chiama questo tipo di tempo “durata reale”. È il tempo della coscienza, del cambiamento interiore e della memoria.
Ma c’è un problema: per vivere nel mondo moderno, siamo costretti a trattare il tempo come se fosse uno spazio: lo dividiamo in pezzi (giorni, settimane, scadenze), lo programmiamo e lo calcoliamo.

E così finiamo per perdere il legame con il nostro tempo autentico. Viviamo in base a orari e impegni, ma ci sentiamo sfasati, disconnessi e vuoti.

In parole semplici?

  • Agostino ci dice che soffriamo perché viviamo sempre nel passato o nel futuro, mai davvero nel presente.

  • Bergson ci mostra che il tempo “vero”, quello che sentiamo dentro, è molto diverso da quello che ci impone la società.

L’alienazione come sofferenza secondo Karl Marx

L’uomo moderno, pur vivendo in città affollate, pur lavorando otto ore al giorno e pur interagendo con centinaia di persone… si sente solo, estraneo a sé stesso e vuoto.
Per Marx ed Hegel, questa condizione prende il nome di alienazione.

Marx: l’alienazione nel lavoro

Karl Marx individua la radice della sofferenza moderna nel rapporto dell’uomo con il lavoro.
Nel sistema capitalistico, il lavoratore non possiede il prodotto del suo lavoro. Lavora per vivere, ma il frutto del suo sforzo va a qualcun altro.
In questo modo, l’uomo si separa da sé stesso: dal proprio corpo, dalla propria creatività e dalla propria natura sociale. Secondo Marx il lavoro dovrebbe essere la realizzazione dell’essere umano, e invece diventa la sua negazione. 

Il conflitto etico – Søren Kierkegaard

Scegliere fa male. Sempre.

Non perché sia difficile scegliere, ma perché ogni scelta comporta una rinuncia. Kierkegaard, il grande filosofo danese, considera la sofferenza come intrinsecamente legata all’esistenza umana, e in particolare alla scelta etica autentica.
In opere come Aut-Aut e Timore e tremore, Kierkegaard descrive l’individuo come costantemente sospeso tra possibilità contrapposte. Ogni possibilità è un’esistenza potenziale. Sceglierne una significa uccidere tutte le altre.

La vita estetica e la vita etica

Kierkegaard distingue due modalità di esistenza:

  • La vita estetica: ricerca del piacere, dell’esperienza e della novità. È una vita che cerca di evitare la sofferenza attraverso la distrazione.

  • La vita etica: assunzione di responsabilità, profondità e verità. È la vita della scelta autentica, che porta però con sé angoscia, solitudine e sacrificio.

Chi vive solo esteticamente finisce inevitabilmente nella disperazione: la consapevolezza che, dietro ogni festa, ogni maschera e ogni leggerezza, si nasconde il vuoto.
Chi sceglie la via etica, invece, si espone al dolore della responsabilità.
“L’uomo è la sintesi di possibilità e necessità”. E proprio in questo scontro avviene la sofferenza.

Perché soffriamo, secondo Kierkegaard?

  • Perché non possiamo vivere tutte le vite che vorremmo

  • Perché scegliere significa escludere

  • Perché l’autenticità ha un prezzo, e spesso questo prezzo è la felicità immediata

Ma Kierkegaard non ci invita al fatalismo. Al contrario, esorta ad abbracciare la vertigine della scelta, e a vivere nella tensione tra fede e dubbio, possibilità e limite. Per lui, la sofferenza è il segno che stiamo prendendo sul serio la nostra esistenza.

La solitudine ontologica

Esiste una solitudine che nessuna relazione può colmare, nessuna parola può sciogliere e nessun abbraccio può dissolvere. È la solitudine ontologica, la condizione profonda dell’essere umano, in quanto essere cosciente della propria unicità e della propria morte.

Anche in mezzo alla folla, si è soli

Possiamo essere circondati da amici, connessioni digitali, eppure restare soli nella nostra esperienza più intima.
Perché nessuno può entrare nei nostri pensieri, soffrire al posto nostro e morire per noi.

La solitudine ontologica non è un difetto da correggere, ma una condizione strutturale. È ciò che rende l’uomo libero ma anche vulnerabile, responsabile ma anche fragile.

Heidegger, nuovamente, ci parla di questa solitudine

Nel suo pensiero, l’“essere-per-la-morte” è qualcosa che nessuno può delegare. Ogni essere umano muore da solo, anche se circondato dagli altri.
E allora la vita stessa è un percorso che si compie nella compagnia del silenzio dell’essere, un cammino che non può essere condiviso del tutto.

Soffriamo, dunque, perché:

  • Nessuno può vivere per noi

  • L’esistenza, per quanto condivisa, è sempre radicalmente personale

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei