Lasciare tutto per avere tutto: il viaggio di Jay Shetty alla scoperta del senso della vita.

Cosa spinge una persona, giovane e promettente, a rinunciare a una carriera brillante per inseguire una vita di silenzio e meditazione? Non è la trama di un romanzo, ma rappresenta la storia reale di Jay Shetty, uno dei pensatori più seguiti al mondo.
Il suo percorso – iniziato come studente a Londra e proseguito in un ashram indiano – non è solo la storia di una trasformazione spirituale, ma una riflessione vivente su ciò che davvero conta nella vita.
In questo articolo, esploreremo il suo viaggio interiore e le lezioni universali che ha imparato lungo il suo percorso di crescita. Prepariamoci a immergerci in un percorso che sovverte le regole del successo convenzionale, per riscoprire chi siamo davvero.
Non puoi essere ciò che non puoi vedere
Jay Shetty non è sempre stato un monaco, né ha sempre sognato di esserlo. Cresciuto a Londra in una comunità asiatica, come tanti altri ragazzi si trovava schiacciato sotto aspettative che lo indirizzavano verso medicina, legge e finanza.
“Non puoi essere ciò che non puoi vedere”, afferma. E lui, da giovane, non vedeva asiatici in televisione, nello sport o nei media. Vedeva contabili, medici e avvocati. Così, senza grandi passioni per queste strade, si avvicinò all’economia e al business, quasi per esclusione.
Durante l’università, studiò scienze comportamentali, spinto da una curiosità per il comportamento umano. Era affascinato dalle domande che tutti, prima o poi, si pongono: perché mentiamo? Perché fingiamo? Perché tradire o ingannare è un comportamento così umano?
Un giorno, su invito di un amico, assiste a una conferenza universitaria in cui parlava un monaco. Inizialmente scettico (“Cosa può insegnarmi un monaco?”), finì per rimanere folgorato. Le parole del relatore lo catturarono come un incantesimo. Una frase che lo colpì molto fu: “Pianta alberi alla cui ombra non ti siederai mai.”
Ovvero: vivi per servire, senza aspettarti nulla in cambio. In quel momento, un concetto antico ma mai realmente interiorizzato – l’altruismo – gli si radicò dentro. E da lì cominciò a germogliare.
L’allenamento del cuore: l’apprendistato da monaco
Colpito da quell’incontro, Jay decise di passare le sue vacanze universitarie in India, seguendo quel monaco che aveva cambiato la sua percezione del mondo. Così, ogni estate, divideva il tempo tra un prestigioso stage in azienda e un soggiorno in un ashram. “Era come praticare un tirocinio da monaco”, disse. Viveva secondo i principi monastici: meditazione all’alba, cibo semplice, letture dei testi vedici, silenzio e servizio alla comunità.
Viveva in contrasto puro. Da un lato, svolgeva riunioni aziendali, network e party nei club londinesi. Dall’altro, si svegliava alle 4 del mattino, praticava la meditazione collettiva, e consumava pasti frugali su un tappetino in legno.
Eppure, a poco a poco, Jay si accorse che nonostante tutto ciò che aveva nella vita “moderna”, era nella vita “vuota” del monaco che sentiva di avere tutto. Dormiva su un materassino, si svegliava col buio, ma si sentiva più pieno che mai.
Durante quegli anni sperimentò il ritmo della vita monastica: metà giornata era dedicata alla crescita interiore, mentre l’altra metà al servizio. Studiava testi millenari come i Veda e la Bhagavad-gītā. Inoltre, insegnava nelle comunità rurali e partecipava a progetti di sviluppo sostenibile.
Ed è proprio in quel contrasto – tra le luci delle metropoli e l’oscurità illuminante dei monasteri – che Jay capì cosa volesse fare davvero nella vita: aiutare le persone. Non per una forma di gratificazione personale, ma perché sentì che la felicità autentica poteva germogliare solo dalla connessione disinteressato con il prossimo.
Il senso del sacrificio: scegliere il nulla per trovare tutto
Quando si è laureato, Jay ha preso una decisione che pochi giovani avrebbero avuto il coraggio di fare, in quanto non si presentò nemmeno alla cerimonia di laurea.
Invece di indossare la toga, prese un biglietto per l’India e si unì definitivamente alla comunità monastica. A 22 anni, scelse il nulla materiale per dedicarsi interamente alla spiritualità.
In un mondo che celebra il possesso, l’apparenza e l’ascesa sociale, Jay fece totalmente il contrario: lasciò un lavoro sicuro, una rete sociale ben costruita e uno status riconosciuto, per vivere con due soli cambi d’abito e dormire per terra. Un’eresia, agli occhi di molti. Ma per lui, quello fu l’inizio della verità.
La vita monastica che visse non era solo contemplazione, ma anche azione concreta: la giornata era divisa in attività spirituali e attività pratiche, come costruzione di villaggi, distribuzione di cibo e insegnamento. “Metà giornata la viveva in silenzio, metà l’altra al servizio della comunità”. Un equilibrio raro, che permetteva di coltivare sé stessi e allo stesso tempo migliorare la vita degli altri.
In quell’ambiente ha compreso che spiritualità non significa isolamento, ma impatto: “Come aiuti il mondo se ti chiudi in una grotta?” È questo uno dei grandi malintesi sulla vita monastica. Il vero distacco non è abbandonare il mondo, ma liberarsi dal bisogno di riconoscimento e possesso.
L’addestramento interiore: disciplina, meditazione e routine quotidiana
La routine quotidiana di un monaco, spiegò Shetty è costruita per allenare la mente come un atleta allena il corpo. Sveglia alle 4 del mattino. Meditazione collettiva. Studio dei testi antichi. Lavoro manuale. Silenzio. Servizio.
La mattina, scandita da ore di meditazione – individuale e di gruppo – culmina con lo studio dei Veda, i testi vedici scritti oltre cinquemila anni fa. “Sono i testi più antichi conosciuti dall’uomo, eppure contengono risposte più attuali di molti manuali moderni”, osservò Jay.
Dopo la colazione, le attività si dividono tra cura degli spazi, studio individuale e, nel pomeriggio, servizio nella comunità dove si costruiscono case, si insegnano valori e si distribuisce cibo.
Tutto è parte di un unico grande intento: trasformare sé stessi per poter poi trasformare il mondo. “Se la tua mattinata è potente, anche il resto della giornata lo sarà”. E oggi, infatti, molte delle routine che Jay segue – e che insegna – derivano direttamente da quella disciplina monastica: sveglia precoce, silenzio, intenzionalità e gratitudine.
In un’epoca in cui la produttività è spesso confusa con l’efficienza cieca, il modello monastico ribalta tutto il paradigma: ciò che conta non è fare tanto, ma fare bene, con presenza. “È la qualità della tua energia, non la quantità delle tue azioni, che fa la differenza”.
Distacco sano e relazioni consapevoli
Una delle lezioni più profonde apprese da Shetty durante il monachesimo fu quella sul distacco. Ma non il distacco freddo e impersonale. “Ci veniva insegnato che il vero distacco non è ignorare le persone, ma amarle senza possederle.” Un concetto difficile da digerire per chi è cresciuto in una cultura che lega l’amore alla dipendenza.
Jay, pur vivendo da monaco celibe, non si è mai isolato dalla sua famiglia. Parlava con i genitori ogni mese, coltivava il legame, ma senza attaccamento morboso. “Attaccamento e avversione sono due facce della stessa medaglia,” spiegò, citando la Bhagavad-gītā. L’equilibrio, invece, sta nel mezzo: amare, ma non dipendere; donare, ma non pretendere.
Questa lezione si riflette anche nel suo approccio alle relazioni romantiche: “Quando sei in una relazione, stai gestendo due menti. Se non sei stabile nella tua, sarà impossibile sostenere anche l’altra.” Da qui la scelta – durante la vita monastica – di astenersi dalle relazioni, non per fuggire, ma per centrarsi e per diventare un partner migliore nel futuro.
Il vero significato del fallimento
Uno dei momenti più intensi del racconto di Shetty riguarda il tema del fallimento. Troppo spesso, dice, le persone confondono il fallire con l’”essere un fallito”. Ma fallire è un evento, non un’identità. “Non sei un fallimento, hai solo fallito in qualcosa in un determinato momento.”
Jay racconta di come, dopo aver lasciato la vita monastica, abbia faticato a trovare lavoro. Aveva un curriculum atipico: tre anni passati in silenzio, preghiera e meditazione. Chi mai avrebbe assunto un ex monaco? Le aziende non lo richiamavano nemmeno per un colloquio. “Ricevevo solo risposte automatiche: ‘la sua candidatura non proseguirà’.”
Eppure, invece di sentirsi rifiutato come persona, scelse di leggere quei “no” come feedback, non come giudizi. “Il fallimento è un messaggio, non una condanna.” Se non impariamo a separare il nostro valore dal risultato, dice, ci condanniamo a vivere nella paura. Invece, possiamo usare ogni rifiuto come occasione per crescere, per affinare la nostra proposta e per allenarci a un nuovo tentativo.
Un consiglio pratico? Tratta il fallimento come uno sport: non vinci ogni partita, ma continui ad allenarti. Non molli la stagione perché hai perso due gare. “La vita non è una partita secca, è un campionato intero.”
Come affrontare il successo: restare piccoli per diventare grandi
Paradossalmente, Shetty disse che anche il successo può farci deragliare. “Ci viene insegnato a temere il fallimento, ma non ci insegnano mai a gestire il successo.” Eppure, è proprio dopo una vittoria che si rischia di perdere la bussola. L’ego si gonfia e iniziamo a cercare approvazione.
Come possiamo evitarlo? Primo: occorre rimanere umili e circondandosi di persone migliori di noi. “Cerca di essere il meno riuscito nella stanza in cui ti trovi.” Secondo: sfidarsi continuamente, alzare l’asticella e cercare nuove competenze. Terzo: condividere il successo. “Usa la tua piattaforma per dare voce agli altri, non solo a te stesso.”
Shetty invita a vedere il successo non come un traguardo, ma come un nuovo punto di partenza. “Non devi restare in cima alla montagna: torna giù, ricomincia a costruire e riallenati.” Il successo non è una vetta da difendere, ma un’opportunità per espandersi e migliorarsi ulteriormente.
E infine pratica la gratitudine anche con te stesso. Snoop Dogg una volta disse: voglio ringraziare me stesso per essermi svegliato ogni mattina e non aver mollato. È giusto dirlo: ringraziati. Onora il tuo sforzo.”
Le tre domande da porsi ogni giorno
Durante l’intervista, Jay rivela tre domande che considera essenziali per vivere una vita piena e consapevole. Sono semplici ma potenti. E andrebbero poste ogni mattina:
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Come posso essere utile oggi?
Una domanda che sposta il focus da sé stessi al mondo. È la chiave del servizio, dell’altruismo e del senso. “Dare senza aspettarsi nulla: è lì che nasce la vera felicità.” -
Cosa amo di me stesso?
Un invito all’autostima autentica, non narcisistica. Troppo spesso ci focalizziamo su ciò che non va. E dimentichiamo le nostre qualità. “Se non sai cosa ami di te, come puoi fidarti di te?” -
Chi voglio essere oggi?
Non chi devo essere, ma chi scelgo di essere. È una domanda che apre alla crescita. “Non si tratta di arrivare, ma di diventare.”
A queste, Jay aggiunge un mantra personale che ripete nei momenti di incertezza: “Sono esattamente dove devo essere.” Una frase che calma l’ansia da prestazione, la corsa al confronto e la sensazione di inadeguatezza. Ci ricorda che il presente non è un errore, ma un passaggio. E ogni passaggio ha senso.
La saggezza nel dolore
Uno dei momenti più toccanti dell’intervista è quando Jay Shetty parla del dolore e del tempismo. “Il denaro arriva quando sei pronto per riceverlo”, gli disse un mentore. Una frase che sembra quasi crudele per chi si trova in difficoltà, ma che racchiude un principio essenziale: la vita possiede un ritmo tutto suo.
Jay racconta di quando, tornato da un periodo in India, scoprì che la società che avrebbe dovuto produrre il suo podcast si era ritirata due settimane prima del lancio.
Aveva già registrato episodi importanti con ospiti internazionali, aveva investito tempo e speranza. In quel momento, avrebbe potuto sentirsi distrutto. Invece, ha scelto di fare un passo avanti. Ha imparato a produrre da solo, ha creato una struttura indipendente e ha sviluppato una competenza inaspettata. “Se il successo fosse arrivato prima, probabilmente non sarei stato pronto a gestirlo.”
Il dolore, dice, non va evitato. Va affrontato. Spesso è una guida. Ci mostra ciò che non funziona, o ciò che ancora dobbiamo sviluppare. Se impariamo a leggere le sue istruzioni, il dolore smette di essere nemico, e diventa maestro.
Non chiudere nessuna porta: la forza della possibilità
Una delle lezioni più importanti che apprese in giovane età fu “Apri tutte le porte possibili. Lascia che sia il mondo a chiuderle per te. E cammina attraverso quelle che restano aperte.” È un invito alla sperimentazione, al coraggio e alla flessibilità mentale. Non precluderti alcune possibilità solo perché ti sembrano assurde. A volte anche nell’assurdo troviamo il senso della vita.
Spesso ci incaselliamo in alternative binarie: o questo, o quello. Ma la vita non è un bivio: è un incrocio infinito. Ci sono strade che non vediamo finché non iniziamo a camminare. Ed è proprio lì che nasce la scoperta.
Uno dei motivi per cui evitiamo certe strade è anche il timore del giudizio. Temiamo cosa penseranno gli altri: amici, famiglia e colleghi. Ma questa paura nasce da un bisogno di conferma, di sentirci accettati. È naturale. Ma può diventare una gabbia.
La soluzione? Circondati anche da chi la pensa diversamente. Studi del MIT mostrano che le persone più creative sono quelle con una rete sociale più diversificata. Questo espone a idee nuove, contraddittorie e stimolanti.
Destino e scelta: il ballo continuo tra ciò che riceviamo e ciò che costruiamo
Una delle domande più antiche dell’umanità è: quanto della nostra vita è scritto, e quanto lo possiamo cambiare? Jay Shetty risponde con un’immagine potente: è una danza. Una danza tra destino e libero arbitrio.
Non scegliamo dove nasciamo, la famiglia in cui cresciamo e il contesto sociale che ci accoglierà. Ma scegliamo come rispondere.
Due fratelli crescono con un padre alcolizzato: uno segue le sue orme, l’altro sceglie di non toccare mai un bicchiere. Stessa origine, destini opposti. È in questa scelta che si rivela la nostra libertà.
L’ambiente conta… ma fino a un certo punto
Molti pensano che il contesto determini tutto. Eppure esistono persone con tutte le risorse che rimangono immobili, e altre che partono da condizioni disperate e sbocciano. L’ambiente può essere un fertilizzante o un freno. Ma la scelta rimane comunque nostra.
L’ostacolo più grande non è l’ambiente, ma la convinzione di non avere alternative. Come disse Thomas Edison: «Quando credi di aver esaurito tutte le opzioni, ricordati che non è così». A volte, la vera creatività inizia quando hai scartato le prime dieci idee banali. È allora che trovi la strada inaspettata.
Lezione da monaco: l’identità non è un’etichetta
Una delle più profonde realizzazioni di Shetty è che la nostra identità non dovrebbe essere definita da ciò che facciamo, ma da ciò che siamo.
Viviamo spesso dentro una “matrioska di identità”: una per Instagram, una per il lavoro, una per gli amici, una per i genitori e una per il partner. Ma chi siamo davvero sotto tutti questi strati?
Nel monastero, Jay imparò a togliersi ogni maschera. A riconoscersi nel silenzio. A vedere il valore nel semplice “essere”. E ha scoperto che siamo tutti predisposti – a livello profondo – al servizio, alla generosità e alla connessione. “Siamo progettati per dare. È il nostro stato naturale.”
Anche la scienza lo conferma. Uno studio di Michael Norton (Università di Harvard) ha dimostrato che le persone che spendono denaro per gli altri si sentono più felici di chi lo spende per sé. Il cervello umano è cablato per la gentilezza.
Occorre ritrovare sé stessi nel caos del mondo reale
Quando Jay lasciò il monastero, non fu un’uscita trionfale. Al contrario, si sentì come se stesse fallendo: «Sembrava un divorzio», racconta, ricordando il momento in cui il suo insegnante spirituale gli suggerì che avrebbe potuto servire meglio il mondo all’esterno.
Si sentì giudicato, confuso e solo. Aveva tagliato i ponti con la sua vita precedente, rinunciando a relazioni, abitudini e sicurezze per dedicarsi interamente alla via monastica. E ora, quella scelta sembrava crollare.
Ma qualcosa in lui non era morto: la pratica interiore, la disciplina meditativa e il desiderio di comprensione. Così, il giorno dopo aver lasciato il monastero, riprese a leggere, a studiare i Veda e ad approfondire la crescita personale. Iniziò a porsi una domanda semplice ma potente: «Come posso applicare ciò che ho imparato da monaco al mondo che ho lasciato?».
La transizione fu dura. Ci vollero dodici mesi per ritrovare un equilibrio. Per riuscire a interagire senza sentirsi svuotato. Per accettare che ogni esperienza può avere un significato, se glielo diamo. «Nulla è privo di senso», dice, «finché non scegliamo di vederlo come tale».
L’inizio di una nuova missione: portare la saggezza al mondo
Il primo passo per ritornare nel mondo fu paradossalmente un ritorno agli amici di un tempo. Molti di loro lavoravano in grandi aziende come Google o Starbucks, ed erano esausti. Così iniziarono a invitarlo a tenere brevi incontri, chiedendogli di condividere ciò che aveva appreso nel monastero. Meditazione, consapevolezza e gestione dello stress erano concetti che allora erano ancora poco diffusi nel mondo aziendale, ma che iniziavano a risuonare in molte persone.
Fu un inizio senza strategia, ma non senza visione. Jay, che aveva sempre amato parlare in pubblico, si rese conto che l’esperienza spirituale poteva diventare utile anche per chi non avrebbe mai varcato le soglie di un ashram.
Tuttavia c’era un limite: il pubblico che poteva davvero raggiungere in questo modo era alquanto ristretto, e così decise di iscriversi ai social media. Era il 2014: Jay non aveva mai usato Facebook, YouTube, né Twitter. Entrò in quel mondo da principiante, e scelse di imparare. Si iscrisse a corsi, fece domande e sperimentò.
Fu assunto da Accenture, una multinazionale della consulenza, dove entrò come il “nuovo” più anziano del team, a 26 anni. Lì si immerse nel mondo del digitale e dei social media, diventando in breve tempo uno dei principali influencer interni dell’azienda, tra oltre 400.000 dipendenti. Non era solo un esperimento: stava acquisendo gli strumenti per portare il suo messaggio a un pubblico più vasto.
Conclusione
Il percorso di Jay Shetty non è un invito a diventare monaci, ma a diventare più consapevoli. La vera autorealizzazione, ci dice, non arriva dai titoli o dalle ricchezze, ma dalla capacità di conoscere sé stessi e servire il mondo.
Serve intenzionalità. Serve chiedersi ogni giorno: come posso contribuire? Chi voglio essere? Cosa amo davvero di me stesso?
La spiritualità moderna, nel racconto di Jay, non rappresenta una fuga dalla realtà, ma si tratta di un’immersione più profonda nella vita. È trasformare il fallimento in forza, il successo in responsabilità e le ferite in saggezza. Occorre ricordare che, in fondo, non siamo ciò che possediamo. Siamo ciò che doniamo.
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