Il progresso è libertà o una gabbia invisibile?
Siamo cresciuti con l’idea che il progresso coincida sempre con un miglioramento. Ma è davvero così? Ogni innovazione, mentre ci offre qualcosa in più, ci toglie qualcos’altro. Non ce ne accorgiamo subito, ma ogni semplificazione ci ruba un frammento di autonomia, un gesto spontaneo, a volte persino un tratto della nostra umanità. È il prezzo silenzioso dell’avanzamento. Eppure nessuno ci avverte quando, un po’ alla volta, la libertà si dissolve nel comfort.
La prigione del benessere
Proviamo a fare un esempio. L’invenzione del GPS. Nessuno si perde più. Ottimo, direbbe chiunque. Ma ricordiamo ancora come si fa a orientarsi con una mappa? Abbiamo perso la capacità di leggere il paesaggio. Come se il nostro cervello delegasse tutto al software. Siamo più efficienti, ma anche più dipendenti. Più veloci, ma anche più fragili. È questa la gabbia dorata del progresso: ti fa sentire potente, mentre ti spoglia lentamente delle tue abilità.
Come funziona questa dinamica?
Il meccanismo è subdolo. Ogni strumento che ci toglie uno sforzo ci toglie anche un potere. E così, senza accorgercene:
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Deleghiamo la memoria al telefono, dimenticando numeri, date, e volti
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Affidandoci all’automazione, perdiamo l’intuizione artigiana “del fare”
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Circondandoci di comodità, perdiamo il valore dell’adattamento
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Lasciando che la tecnologia decida, rinunciamo a decidere
Il filosofo Günther Anders parlava già nel secolo scorso di “dislivello prometeico”.
Secondo Anders, viviamo in un’epoca in cui la nostra capacità tecnica ha superato di gran lunga la nostra capacità morale e immaginativa. In altre parole: sappiamo costruire strumenti potentissimi, ma non siamo pronti né interiormente e né culturalmente a gestirli.
La velocità con cui progettiamo, costruiamo, e innoviamo è diventata velocissima, mentre il nostro senso di responsabilità, di etica, e di previsione rimane lento, antico, quasi primitivo.
Ecco perché parla di dislivello: è come se una parte dell’umanità, quella tecnica, corresse in salita con il motore di un razzo, e l’altra, quella interiore, arrancasse ancora con le scarpe di cuoio.
Ecco un esempio concreto
Pensiamo all’energia nucleare. Con essa possiamo produrre energia sufficiente a illuminare città intere, oppure possiamo annientare in pochi minuti milioni di persone. Il problema non è la tecnologia in sé, ma il fatto che non siamo moralmente capaci di prevedere o limitare le conseguenze di ciò che creiamo. E quindi rischiamo di essere travolti da ciò che noi stessi abbiamo fatto nascere.
Oppure pensa anche alla stessa intelligenza artificiale. La costruiamo, la programmiamo, e la rendiamo autonoma. Ma chi è oggi davvero in grado di comprendere tutte le implicazioni sociali, cognitive, ed esistenziali di un algoritmo che decide chi assumere, chi curare, e chi sorvegliare?
Perché è una forma di schiavitù
Perché ci mette in una posizione di inferiorità rispetto ai nostri stessi strumenti. Siamo come apprendisti stregoni: abbiamo evocato forze più grandi di noi, e ora non sappiamo più come fermarle. E quando una cosa ti supera, ti domina.
La vera schiavitù non è solo subire un potere esterno. È anche essere dominati da qualcosa che non capisci più, che continui ad alimentare perché ti sembra utile o inevitabile, ma che ti ha già tolto il controllo. In questo senso, le tecnologie che ci sfuggono di mano sono come nuovi dèi, che veneriamo e temiamo allo stesso tempo.
L’essere umano moderno possiede una potenza disumana, ma anche un’anima ancora infantile. E questo squilibrio rischia di renderci schiavi non di qualcun altro, ma di noi stessi, della nostra parte tecnica che non abbiamo più il coraggio o la forza di fermare.
La libertà che non vediamo più
Il filosofo Byung-Chul Han ha definito la nostra epoca “la società della trasparenza”. Una società in cui tutto è visibile, misurabile, e monitorato. Dove tutto è “fluido”, ma allo stesso tempo tutto è tracciato. E la cosa più inquietante è che siamo noi a scegliere questa esposizione, in nome dell’efficienza, della connessione e del progresso. Pensiamo di essere liberi perché possiamo scegliere fra mille cose. Ma non ci accorgiamo che stiamo solo scegliendo fra opzioni impacchettate da altri.
È qui che si nasconde la prigione. Non nei divieti, ma nell’eccesso di possibilità. Non nella repressione, ma nella seduzione. Come scriveva Foucault, il potere moderno non vieta, ma induce. Ti fa desiderare quello che vuole che tu desideri.
Alcuni indizi di questa nuova prigionia
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Le notifiche sembrano offrirti connessione, ma ti rendono schiavo dell’attenzione
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Gli assistenti vocali sembrano aiutarti, ma ti privano della pazienza di cercare
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I social network sembrano darti una voce, ma la incanalano in formati predefiniti, dove diventi un utente al cospetto di algoritmi
Il mito dell’irreversibilità
Viviamo in un’epoca in cui il progresso non è più una scelta, ma un destino. È come una valanga che rotola giù dal pendio: nessuno pensa di fermarla, al massimo si cerca di cavalcarla. La narrazione dominante ci dice che andare avanti è sempre meglio. Che ciò che è nuovo è, per definizione, superiore. Ma chi ha deciso questo? E soprattutto: è davvero così?
Ogni giorno vediamo emergere innovazioni tecnologiche, mediche, ed educative. Eppure quasi nessuno si ferma a chiedere se queste innovazioni siano davvero necessarie, desiderabili, o sostenibili. Chi lo fa viene spesso etichettato con disprezzo: “sei contro il progresso”, “vuoi tornare indietro”, “sei un nostalgico”.
Ma riflettere non significa rifiutare. Significa esaminare, scegliere, e dare una forma. Invece oggi il pensiero critico verso il progresso è diventato una forma di eresia. E questo è pericoloso, perché impedisce una valutazione etica e politica del futuro che stiamo costruendo.
Il filosofo austriaco Ivan Illich fu uno dei primi a dire a voce alta ciò che molti non osavano nemmeno pensare. Negli anni ‘70, in testi come Descolarizzare la società o Nemesi medica, denunciò l’effetto paradossale del progresso moderno. Cosa sosteneva?
Che ogni istituzione, e ogni strumento creato per aiutare l’essere umano, oltre una certa soglia, si trasforma nel suo contrario.
Ecco alcuni esempi illuminanti
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La medicina: dovrebbe curare, ma quando spinge a tenere in vita artificialmente un corpo sofferente e privo di dignità, diventa un meccanismo disumano.
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Il trasporto: dovrebbe farci muovere più facilmente, ma quando ci priva della possibilità di camminare, respirare, ed esplorare, diventa paralizzante.
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La scuola: dovrebbe educare, ma quando standardizza, soffoca la creatività e trasforma l’apprendimento in competizione, uccidendo la curiosità.
Questi strumenti, dice Illich, diventano controproducenti: non puoi più farne a meno, e allo stesso tempo ti impoveriscono proprio nelle capacità che volevano potenziare. È come se la civiltà, nel tentativo di proteggerci, ci infantilizzasse. E se ci pensi questo è profondamente pericoloso.
Occorre porre dei limiti
Siamo così abituati a pensare che “di più è meglio”, che l’idea di mettere un freno al progresso ci sembra primitiva. E invece, è forse il gesto più maturo e razionale che possiamo compiere.
Mettere dei limiti non significa tornare indietro. Significa scegliere consapevolmente fin dove vogliamo arrivare. Significa difendere la nostra autonomia, il nostro tempo, e la nostra capacità di dire “questo no, grazie”. Perché non tutto ciò che è possibile è anche desiderabile. E non tutto ciò che è efficiente è anche giusto.
E allora cosa possiamo fare?
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Reintrodurre il pensiero critico nel discorso pubblico sul progresso
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Dare valore al limite come forma di saggezza, non come freno ottuso
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Riscoprire la qualità del vivere, non solo la quantità del produrre
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Coltivare una tecnologia a misura d’uomo, che non ci sostituisca, ma ci accompagni
In definitiva, Illich ci invita a riconoscere che il vero progresso non è correre sempre di più, ma sapere quando fermarsi. Quando qualcosa che ci doveva liberare comincia a imprigionarci, occorre avere la forza di rifiutarla.
Il bisogno di un nuovo vocabolario
Ecco il nodo centrale. Continuiamo a chiamare progresso ciò che forse andrebbe rinominato. Non tutto ciò che è nuovo è buono. Non tutto ciò che è comodo è giusto. Non tutto ciò che è veloce è migliore.
Servirebbe un linguaggio che distingua il progresso che espande l’essere umano da quello che lo riduce. Un linguaggio che sappia vedere non solo gli strumenti, ma le trasformazioni interiori che provocano. Un linguaggio che smascheri la falsa neutralità della tecnologia.
È possibile convivere con il progresso senza diventarne schiavi?
Non si tratta di tornare alle candele o rinnegare Internet. Si tratta di consapevolezza. Di rallentare. Di usare le tecnologie senza farsi usare.
Ecco cosa potresti fare:
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Praticare il “digital fasting”, il digiuno tecnologico, almeno per qualche ora al giorno
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Allenare l’attenzione e la memoria, anche senza strumenti digitali
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Coltivare il fare manuale, l’errore, l’artigianato, o l’inatteso
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Scegliere consapevolmente, anche controcorrente, anche se “non è comodo”
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Chiedersi sempre “questa cosa mi espande o mi riduce?”
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