Dentro la sofferenza: ecco le 10 cause psicologiche che ti fanno soffrire

10 cause psicologiche

Che cos’è davvero la sofferenza?

Non parliamo solo di una giornata storta, di un litigio o di una situazione di stress momentanea. Parliamo di un dolore interno che logora, che si insinua nei pensieri, nei ricordi, e nel modo in cui ci relazioniamo con gli altri e con noi stessi. È una sofferenza spesso invisibile agli occhi, ma reale quanto una ferita fisica.

Eppure, la società moderna tende a minimizzarla. Si suggerisce di “pensare positivo”, o di “darsi una svegliata”, come se la mente potesse cambiare stato d’animo con la stessa facilità con cui si cambiano i canali alla tv.

Ma la psicologia – quella seria, fondata su decenni di studi, osservazioni e ricerche cliniche – ci dice altro. Ci dice che la sofferenza psichica dipende da cause ben precise. Alcune affondano nell’infanzia, altre nelle esperienze traumatiche, altre ancora nei pensieri automatici che giorno dopo giorno ci spingono verso la tristezza, l’ansia e la rabbia.

Questo articolo nasce con un’ambizione ben precisa: analizzare a 360 gradi le cause psicologiche della sofferenza
Ricorda che solo se comprendiamo da dove arriva il nostro dolore, possiamo iniziare a trasformarlo.

Distorsioni cognitive

Immagina di guardare il mondo attraverso una lente rotta. Tutto appare distorto, minaccioso e fallimentare. Questa è la realtà quotidiana di chi vive sotto il peso delle distorsioni cognitive.

Cosa sono?

Le distorsioni cognitive sono schemi mentali rigidi e disfunzionali, che alterano il modo in cui interpretiamo la realtà. Il termine fu coniato negli anni ’70 da Aaron T. Beck, psichiatra e padre della Terapia Cognitiva. Beck osservò che i pazienti depressi tendevano a fare ragionamenti sistematicamente negativi su sé stessi, sul mondo e sul futuro. Questo triplice filtro negativo venne definito “triade cognitiva della depressione”.

I tipi più comuni includono:

  • Catastrofizzazione – Immaginare scenari disastrosi partendo da piccoli segnali.
    Esempio: “Ho mal di testa, sarà sicuramente un tumore al cervello.”

  • Pensiero estremista del tutto-o-nulla – Vedere solo bianco o nero, successo o fallimento.
    Esempio: “Se non sono perfetto, allora sono un fallimento.”

  • Lettura del pensiero – Presumere cosa gli altri pensano di noi, spesso in chiave negativa.
    Esempio: “Mi ha risposto a monosillabi, sicuramente mi odia.”

  • Svalutazione continua anche delle situazioni positive – Minimizzare o ignorare tutto ciò che funziona.
    Esempio: “Ho preso 28 all’esame, ma era facile, non conta.”

  • Incolpare sé stessi anche per problemi  che non dipendono da noi – Dare a sé stessi la colpa per eventi esterni e imprevedibili.
    Esempio: “Se mia madre è triste, è sicuramente colpa mia.”

Beck e successivamente David Burns (con il celebre manuale Feeling Good) dimostrarono che le distorsioni cognitive sono fortemente correlate a disturbi come:

  • Depressione maggiore

  • Disturbo d’ansia generalizzato

  • Disturbo ossessivo-compulsivo

  • Disturbi alimentari

Perché le distorsioni cognitive fanno soffrire?

Perché sono automatiche, rapide e invisibili. Ci sembrano “vere”, ma non lo sono.
E soprattutto alimentano un dialogo interno tossico che rafforza la sofferenza. Cambiarle richiede prima di tutto di riconoscerle.

Per combattere le distorsioni cognitive, il primo passo è quello di riconoscerle: impara a individuare pensieri automatici negativi (es. “non valgo nulla”) e identificarne la natura irrazionale.

Il secondo passo è mettere in discussione questi pensieri, chiedendosi: “Quali prove ho che sia vero?” o “Sto esagerando o sto generalizzando?”. Successivamente, si può sostituire il pensiero distorto con uno più realistico e bilanciato.

Tecniche della Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), come il diario dei pensieri, aiutano molto. Anche la meditazione mindfulness può ridurre l’identificazione con i pensieri negativi. È utile infine allenare l’autocompassione: non bisogna giudicarsi per avere pensieri distorti, ma accoglierli come comuni reazioni umane.

Traumi non elaborati

Non tutto il passato passa. Alcuni eventi lasciano una traccia così profonda che continuano a vivere dentro di noi, sotto forma di sintomi, reazioni e paure.

Cos’è un trauma psicologico?

Il trauma, in psicologia, non è solo la guerra, la violenza o un incidente stradale. Può essere una separazione, un’infanzia trascurata, una relazione abusante o un’umiliazione persistente. È traumatico tutto ciò che supera le risorse emotive e cognitive della persona in quello specifico momento della vita.

Lo psicologo Peter Levine afferma che “il trauma non è nell’evento, ma nel sistema nervoso”.
In altre parole: due persone potrebbero vivere lo stesso evento, e solo una di loro potrebbe sviluppare un trauma. Perché? Perché conta come l’evento viene vissuto, integrato e trasformato.

Sintomi comuni di un trauma non elaborato:

  • Flashback, incubi e pensieri intrusivi

  • Ipervigilanza, allerta costante e insonnia

  • Evitamento emotivo o comportamentale

  • Dissociazione (sentirsi scollegati da sé o dalla realtà)

  • Rabbia immotivata, vergogna profonda e senso di colpa

  • Difficoltà nelle relazioni affettive

Il celebre Adverse Childhood Experiences Study (ACE Study), condotto da Felitti e Anda, ha coinvolto oltre 17.000 adulti americani. I risultati sono stati scioccanti: più eventi traumatici precoci (abusi, negligenze, violenze) erano presenti, maggiore era il rischio di depressione, abuso di sostanze, malattie croniche e suicidio.

Non solo: il trauma infantile altera letteralmente la struttura del cervello (amigdala, ippocampo, corteccia prefrontale), come dimostrato da numerosi studi di neuroimaging.

Perché fa male?

Il corpo e la mente in alcuni casi non dimenticano. Anche se razionalmente ci convinciamo che “è passato”, dentro di noi il sistema nervoso reagisce ancora come se il pericolo fosse ancora presente. Questo stato di iperattivazione cronica può diventare una trappola mentale e fisiologica.

Per combattere i traumi non elaborati è essenziale affrontarli in modo graduale e sicuro. La psicoterapia (come l’EMDR o la terapia somatica) aiuta a rielaborare le memorie traumatiche bloccate.

Parlare del trauma con una persona empatica può ridurre la vergogna e l’isolamento. Anche la scrittura espressiva, come ad esempio raccontare la propria storia su un diario, può migliorare l’integrazione emotiva.

Il lavoro corporeo (es. yoga, respirazione, danza terapia) permette di liberare tensioni bloccate nel corpo.

Quando emergono emozioni dolorose o ricordi traumatici, puoi fermarti e fare 3-5 respiri profondi, concentrandosi solo sull’aria che entra ed esce dal corpo. In questo modo è possibile calmare il sistema nervoso e ridurre l’ansia.

È una tecnica accessibile a tutti, che non richiede parole né analisi, ma insegna a restare ancorati al momento presnete e a non fuggire automaticamente dal disagio.

Col tempo, questa pratica può diventare un’ancora interiore, utile per affrontare momenti emotivamente difficili in modo più stabile.

Conflitto tra desideri e realtà

Viviamo in un costante equilibrio instabile tra ciò che vogliamo e ciò che abbiamo. I desideri di per sé non sono dannosi, anzi… ci spingono a dare il massimo e ci permettono di crescere e cambiare. Il problema sorge quando il desiderio si scontra con una realtà che non risponde alle nostre aspettative, e questo può trasformarsi in fonte di frustrazione e sofferenza profonda.

Perché accade?

La psicologia umanistica – in particolare con Abraham Maslow – ci insegna che l’essere umano possiede bisogni fondamentali: sicurezza, appartenenza, stima e autorealizzazione. Quando questi bisogni restano insoddisfatti, si genera un senso di incompletezza che può degenerare in sofferenza psichica.

Pensiamo a chi desidera ardentemente un figlio e affronta l’infertilità. O a chi sogna una carriera creativa ma si ritrova in un lavoro meccanico e ripetitivo. Oppure a chi cerca l’amore ma trova solo relazioni superficiali e instabili.

Il desiderio non realizzato non è un fallimento in sé. Ma quando diventa cronico può dare vita a sintomi depressivi, ansiosi o compulsivi. La sofferenza nasce dalla discrepanza persistente tra il sé ideale (chi vorremmo essere) e il sé reale (chi siamo in questo momento).

Carl Rogers, parlava di “conflitto incongruo” tra il sé reale e il sé percepito come radice del disagio psichico.
Uno studio pubblicato nel 2006 sul Journal of Personality and Social Psychology ha dimostrato che più è ampia la distanza tra l’“io reale” e l’“io ideale”, maggiore è il rischio di insoddisfazione esistenziale, ansia, rimuginio e tristezza cronica.

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Come si manifesta?

  • Senso costante di inadeguatezza

  • Rabbia verso sé stessi o verso la vita

  • Senso di blocco, stallo o immobilismo

  • Tendenza all’idealizzazione del passato o del futuro

  • Insoddisfazione “di fondo”, anche quando tutto sembra andare bene

Il primo passo per combattere i conflitti incongrui è quello di ascoltarsi in profondità. Chiediti: questo desiderio è davvero mio o nasce dal confronto sociale, dal bisogno di approvazione o da un senso di inadeguatezza? Riconoscere i desideri imposti (status, perfezione, successo a tutti i costi) permette di lasciarli andare.

Poi serve accettare la realtà per quella che è, senza negarla né idealizzarla. Non si tratta di rassegnarsi, ma di vedere chiaramente i limiti attuali e agire entro quei confini. La chiave sta nel trovare un equilibrio tra realismo e speranza: non tutto si può cambiare subito, ma qualcosa si può sempre coltivare, anche lentamente.

Infine, occorre imparare a trasformare il desiderio in intenzione, cioè in un’energia orientata all’azione, e non in un’ossessione sterile. Un desiderio che non tiene conto della realtà diventa una frustrazione; uno che nasce dalla consapevolezza, invece, diventa forza creativa.

ECCO UN ESEMPIO

Marco desidera diventare un musicista famoso. Ma lavora 10 ore al giorno in un ufficio, ha una famiglia e poco tempo. Se resta ancorato al desiderio irrealistico di “lasciare tutto e vivere di musica domani”, rischia solo frustrazione e senso di fallimento.

Invece, se si ferma a chiedersi “Perché desidero questo? Cosa c’è di autentico?”, scopre che ama esprimersi, creare e sentirsi vivo. Allora può trasformare il desiderio in qualcosa di più realistico, come ad esempio suonare la sera, comporre nei weekend ed esibirsi in piccoli eventi locali.

Non ha negato il suo sogno, ma l’ha riconciliato con la realtà, rendendolo nutriente e non doloroso. Così il desiderio diventa una via di crescita e non una condanna.

Attaccamento insicuro

L’amore, o meglio, il modo in cui siamo stati amati, lascia un’impronta profonda nel nostro modo di relazionarci. E quando quell’amore è stato incostante, inaccessibile o spaventoso, può trasformarsi in una fonte inesauribile di sofferenza.

Cos’è l’attaccamento?

Secondo John Bowlby, psichiatra e psicoanalista britannico, l’attaccamento è il legame emotivo che si sviluppa tra un bambino e la sua figura di riferimento. È un meccanismo di sopravvivenza, ma anche la matrice delle relazioni future. Mary Ainsworth, allieva di Bowlby, identificò attraverso lo “Strange Situation Test” tre stili principali di attaccamento:

  • Sicuro – Il bambino esplora l’ambiente sapendo che la persona che dovrebbe proteggerlo è una base sicura.

  • Insicuro-ansioso – Il bambino è iperdipendente, teme l’abbandono e ha difficoltà a calmarsi.

  • Insicuro-evitante – Il bambino minimizza il bisogno dell’altro e tende a non mostrare emozioni.

  • (Più tardi si aggiunse il disorganizzato, con comportamenti contraddittori, tipici di contesti di abuso o trascuratezza gravi.)

E da adulti?

Gli stili di attaccamento si trasformano in modelli operativi interni che influenzano:

  • Le relazioni di coppia

  • L’autostima

  • Il modo in cui gestiamo la solitudine

  • La reazione alla perdita o al rifiuto

Ecco alcuni esempi:

  • Chi presenta un attaccamento ansioso può diventare eccessivamente dipendente, geloso e sempre in cerca di rassicurazioni.

  • Chi presenta un attaccamento evitante tende a fuggire l’intimità, evitando il coinvolgimento emotivo.

  • Chi presenta un attaccamento disorganizzato può vivere relazioni altalenanti, caotiche, e talvolta autodistruttive.

Perché fa soffrire?

Perché peggiora il nostro senso di valore e di sicurezza.
Una parte di noi desidera ardentemente connessione, mentre un’altra teme l’abbandono, o il dolore. Questo crea una danza relazionale fatta di paure, ritiri, rincorse e chiusure.

Per liberarsi da un attaccamento insicuro (ansioso o evitante), serve un lavoro profondo di consapevolezza, cura e rieducazione emotiva. Il primo passo è riconoscere i propri schemi relazionali ricorrenti: bisogno eccessivo di conferme, paura dell’abbandono, oppure rifiuto dell’intimità e fuga dalle emozioni. Questi schemi sono spesso automatici, appresi nell’infanzia.

La psicoterapia (soprattutto quella focalizzata sull’attaccamento, come la terapia focalizzata sulle emozioni o la psicoterapia relazionale) può aiutare a esplorare l’origine di questi modelli e imparare nuove modalità di relazione. Ma anche nelle relazioni quotidiane si può iniziare a guarire, coltivando rapporti sicuri, in cui ci si sente accettati e rispettati.

Esempio pratico:

Anna soffre di attaccamento ansioso. Ogni volta che il suo partner non risponde subito ai messaggi, si agita e si convince che verrà lasciata. In terapia, Anna impara a riconoscere il “copione interiore” che si attiva (“non valgo, sarò abbandonata”) e a respirare prima di reagire. Comincia a parlare dei suoi bisogni in modo diretto, invece di cercare attenzione attraverso il silenzio o i sensi di colpa.

Poco a poco, sperimenta che può essere amata anche senza ansia o controllo, e il legame diventa più sicuro.

Impotenza appresa

C’è un tipo di sofferenza che non nasce dal dolore diretto, ma dall’impossibilità di reagire. È la sensazione di non avere più potere sulle cose, e quindi di sentirsi come degli spettatori passivi della propria vita. Questo stato psicologico prende un nome ben preciso: impotenza appresa.

Nel 1967, Martin Seligman e Steven Maier condussero un esperimento sui cani. Alcuni di essi venivano sottoposti a scosse elettriche da cui non potevano fuggire. Dopo qualche tempo, anche quando veniva offerta una via di fuga, i cani non tentavano più di scappare. Avevano appreso che nulla di ciò che facevano poteva cambiare il risultato.

Questo stesso meccanismo è stato osservato negli esseri umani, soprattutto in contesti di:

  • Abuso cronico (fisico, emotivo ed economico)

  • Fallimenti ripetuti (scolastici, lavorativi e relazionali)

  • Deprivazione sociale (es. marginalità, discriminazione e povertà)

Sintomi tipici:

  • Apatia, stanchezza cronica e mancanza di motivazione

  • Pensieri come “tanto è inutile”, “è colpa mia”, “non cambierà mai nulla”

  • Ritiro sociale e affettivo

  • Comportamenti passivi o autodistruttivi

Ecco le conseguenze

La perdita di controllo è una delle principali variabili predittive della depressione clinica.

Anche a livello neurologico, l’impotenza appresa è associata a una minore attività nella corteccia prefrontale (coinvolta nelle decisioni e nella pianificazione) e a una maggiore attivazione dell’amigdala (centro della paura e della reazione automatica).

Come si esce da questo stato?

Non basta “fare qualcosa”. Serve ripristinare la convinzione profonda di poter influire almeno in parte sul proprio destino. Questo può avvenire attraverso:

  • Esperienze di successo, anche minime

  • Relazioni che validano e sostengono

  • Terapie che potenziano l’autoefficacia

  • Un ambiente che riduce l’imprevedibilità e favorisce la scelta

Bassa autostima: quando il nemico è dentro di noi

“Non sono abbastanza”, “non merito amore”, “sono un errore”. Queste frasi, spesso non dette ma pensate, sono il riflesso di una bassa autostima. Ed è inutile girarci attorno, l’autostima è la radice silenziosa di molti casi di sofferenza.

Cos’è davvero l’autostima?

Secondo la definizione di Morris Rosenberg l’autostima è “la valutazione globale che una persona ha di sé stessa”. Non rappresenta semplicemente la fiducia in sé stesso. È il modo in cui ci percepiamo.

Come si costruisce l’autostima?

L’autostima si costruisce nei primi anni di vita, a partire da:

  • Lo sguardo dell’altro (genitori, insegnanti e amici)

  • Il riconoscimento dei propri bisogni e delle proprie emozioni

  • L’esperienza del successo e del fallimento

  • La presenza o meno di umiliazioni, confronti e abbandoni

Se un bambino viene visto come “fastidioso”, “inadatto” o “esagerato”, è molto probabile che introietti queste etichette e le trasformi in credenze rigide su sé stesso.

Conseguenze psicologiche

Una bassa autostima non significa semplicemente “sentirsi insicuri”. È qualcosa che si insinua in ogni ambito:

  • Relazioni: paura di non meritare amore e accettare relazioni tossiche

  • Carriera: evitare sfide per timore del fallimento

  • Corpo: insoddisfazione cronica e disturbi alimentari

  • Progetto di vita: rinuncia, procrastinazione e autosabotaggio

Non solo: una bassa autostima è fortemente correlata a depressione, ansia sociale e ideazione suicidaria.

Come possiamo migliorare l’autostima?

Non con l’autocompiacimento, ma con esercizi di autocompassione, con relazioni sane e con l’incontro di esperienze correttive che possano dimostrare che valiamo anche quando sbagliamo.

Dipendenza affettiva

Desiderare l’altro è umano. Ma non riuscire a vivere senza l’altro, annullando sé stessi per paura di perderlo, è tutta un’altra storia. La dipendenza affettiva è una condizione psicologica dolorosa e spesso invisibile, in cui il bisogno d’amore diventa un’ossessione.

Ecco i segnali principali:

  • Paura intensa di essere abbandonati

  • Gelosia e controllo eccessivo

  • Difficoltà a stare da soli, anche per brevi periodi

  • Accettazione di umiliazioni e maltrattamenti pur di “non perdere” l’altro

  • Incapacità di porre confini, dire no o difendere i propri spazi

Le origini?

Ancora una volta, tutto parte dai legami primari. I bambini che hanno vissuto abbandoni, rifiuti, trascuratezza emotiva o iperprotezione possono crescere con una ferita profonda: “se non mi prendo cura dell’altro, perderò il suo amore”.
Così, da adulti, diventano “salvatori” e “dipendenti emotivi”.

In termini teorici, ci troviamo davanti a una fame affettiva: un bisogno così primitivo e inappagato che nessuna relazione può davvero colmare.

La dipendenza affettiva è spesso associata ad altri disturbi di personalità (soprattutto borderline ed evitante), disturbi d’ansia e disturbi dell’umore.

Perché fa soffrire?

Perché si vive sempre in uno stato di allerta. L’altro diventa uno specchio, ci dona ossigeno e da un senso alla nostra esistenza. Ma rappresenta anche una minaccia costante. A riprova di ciò, ogni minima rottura, distanza o silenzio è vissuta come una catastrofe.

Guarire dalla dipendenza affettiva non significa imparare a “non amare”, ma amare con radici sane, in cui la presenza dell’altro sia un arricchimento e non un’ancora di salvezza.

Conflitto intrapsichico: quando dentro di noi c’è guerra

Ti è mai capitato di volere fortemente qualcosa… e al tempo stesso sentirti in colpa per volerlo? Di sentirti diviso tra la testa e il cuore? Ecco un esempio chiaro di conflitto intrapsichico: uno dei motori nascosti del dolore emotivo.

In cosa consiste?

Ogni essere umano è composto da molte “parti interiori”: il bambino ferito, il perfezionista, il ribelle, il giudice, l’adattato, il desideroso… Spesso queste parti non sono in armonia, e si contendono il controllo delle nostre decisioni, pensieri e comportamenti.

Questo concetto è ben esplorato da diversi approcci terapeutici:

  • La Psicologia dei Sé (Stone & Stone)

  • La Terapia IFS (Internal Family Systems) di Richard Schwartz

  • La Terapia Gestalt con la tecnica della sedia vuota

  • Gli approcci psicodinamici più moderni

Esempi comuni:

  • Parte di me vuole lasciare il partner. Un’altra teme la solitudine.

  • Una parte desidera cambiare lavoro. Un’altra teme di fallire e un’altra ancora vuole stabilità.

  • Una parte vuole esprimersi liberamente. Un’altra ha paura di essere giudicata.

Quando questi conflitti non vengono riconosciuti e gestiti, si può sviluppare:

  • Ansia cronica

  • Stress da blocco decisionale

  • Somatizzazioni

  • Sentimenti di colpa e vergogna

  • Atti impulsivi seguiti da pentimento

Aspettative irrealistiche: il peso invisibile dell’impossibile

Siamo cresciuti con l’idea che tutto sia possibile. Basta volerlo. Basta crederci. E invece no.
La realtà è molto più complessa, e quando la nostra mente si ancora a ideali di perfezione, successo o felicità costante, la delusione diventa inevitabile.

Cos’è un’aspettativa irrealistica?

È una credenza rigida e idealizzata su come dovrebbero andare le cose. Spesso non nasce da noi, ma viene interiorizzata da modelli familiari, sociali e culturali. Il problema non è quello di avere dei sogni, ma è quello di confonderli con diritti garantiti o con standard elevatissimi.

Ecco alcuni esempi:

  • Devo essere sempre felice, produttivo e brillante

  • L’amore vero non ha conflitti

  • Se non realizzo tutto entro i 30 anni, ho fallito

  • Gli altri devono capirmi senza che io chieda nulla

  • Se sono bravo, nessuno mi rifiuterà

La trappola sociale

I social media amplificano queste illusioni. Vite perfette in foto patinate, successi raccontati senza fatica e sorrisi costanti.

Conseguenze psicologiche

  • Insoddisfazione cronica

  • Autoaccuse e senso di fallimento

  • Perfezionismo paralizzante

  • Relazioni disfunzionali (perché l’altro non è mai “abbastanza”)

  • Rabbia e frustrazione per la mancata corrispondenza con l’ideale

Come si supera?

Per combattere le aspettative irrealistiche, il primo passo è riconoscerle per ciò che sono: idee rigide su come “dovrebbero” andare le cose (es. “dovrei essere sempre felice”, “gli altri devono capirmi senza che io dica nulla”). Queste aspettative creano delusione e sofferenza quando la realtà – inevitabilmente – non le soddisfa.

Il secondo passo è sostituirle con aspettative più flessibili e umane, tenendo conto dei limiti, dell’imprevedibilità e della complessità della vita. La compassione verso sé stessi è essenziale: bisogna accettare che fallire, sbagliare o sentirsi fragili non è un segno di debolezza, ma parte della condizione umana.

Esempio:

Luca inizia un nuovo lavoro e si aspetta di essere perfetto fin da subito. Dopo un errore, si sente un fallito e pensa di non essere adatto. In terapia, impara a riconoscere che l’aspettativa (“non devo mai sbagliare”) è irrealistica. Invece di colpevolizzarsi, riflette: “Sto imparando, è normale sbagliare all’inizio”. Così trasforma un’esperienza frustrante in una tappa di crescita, non in una condanna.

Evitamento emotivo: il dolore che cresce nell’ombra

A nessuno piace soffrire. Ma chi cerca di evitare la sofferenza a tutti i costi, la alimenta.

Cos’è l’evitamento emotivo?

È la tendenza a fuggire dalle emozioni spiacevoli, attraverso strategie cognitive, comportamentali o relazionali. È una reazione comprensibile, ma sul lungo termine diventa una trappola perversa.

Ecco alcuni esempi comuni:

  • Distrarsi compulsivamente (con social, cibo e lavoro)

  • Minimizzare ciò che si prova (“non è nulla”, “esagero sempre”)

  • Reprimere pianto, rabbia e tristezza

  • Evitare luoghi o persone che suscitano emozioni

  • Rifiutare il confronto o il conflitto per “non stare male”

Steven Hayes – fondatore della terapia dell’accettazione e dell’impegno (ACT) – ha dimostrato che l’evitamento esperienziale è una delle principali cause di sofferenza psicologica.

Perché fa soffrire?

Perché le emozioni non ascoltate non scompaiono. Si spostano, si travestono e si accumulano. Una tristezza evitata può diventare apatia. Una rabbia repressa può trasformarsi in somatizzazione. Una paura negata può emergere in modo violento in una forma di panico.

Il dolore emotivo, se accolto, può trasformarsi. Ma se evitato, si cronicizza.

Come si può affrontare?

Per combattere l’evitamento emotivo, bisogna imparare a restare presenti alle emozioni, anche quando sono scomode, invece di fuggirle o anestetizzarle (con lavoro compulsivo, cibo, scroll, ecc.). Questo significa non giudicare ciò che si prova, ma occorre osservarlo con curiosità, come farebbe uno scienziato.

Tecniche come la mindfulness, l’esposizione graduale (nella DBT o ACT) e la mentalizzazione aiutano ad affrontare emozioni difficili senza esserne travolti. Le emozioni non sono nemiche: sono informazioni su bisogni profondi, e possono trasformarsi se gli diamo spazio.

Esempio:

Giulia sente spesso ansia sociale, ma ogni volta che deve uscire trova scuse per restare a casa. Inizia a lavorare con un terapeuta che le propone una pratica: ogni volta che sente l’ansia, invece di evitarla, si siede, chiude gli occhi e nota dov’è nel corpo, che forma ha, quanto è intensa. Respira con essa per 2 minuti.

All’inizio è faticoso, ma col tempo Giulia scopre che l’ansia non la distrugge, e anzi, diminuisce. Così inizia anche a partecipare a piccoli eventi sociali, sentendosi più libera e viva.

La sofferenza ha un linguaggio. E può essere tradotta

In questo articolo abbiamo affrontato le radici più comuni del dolore interiore. Non sono le uniche, ma sono fra le più ordinarie. E sono interconnesse fra loro: un trauma può generare bassa autostima, che può alimentare dipendenza affettiva, che può portare a sua volta a evitamento emotivo, e così via.

La sofferenza psicologica non è un errore, ma un messaggio.

La buona notizia? Tutto questo può cambiare. Non in un giorno, non con uno slogan motivazionale, ma attraverso la consapevolezza, le relazioni, e il lavoro interiore

La mente soffre, ma ricorda che può anche guarire!

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei