Il karma è una legge naturale?
Il karma, nella sua formulazione più comune, è il concetto secondo cui “si riceve ciò che si dà”.
Se osservato con superficialità, il karma può apparire, come a una forma di desiderio consolatorio o di moralismo travestito da scienza; un modo, cioè, per affermare che l’universo sia intrinsecamente giusto, nonostante l’esperienza quotidiana mostri il contrario.
Eppure, un’analisi della dottrina nelle sue prime formulazioni – in particolare nei testi del Buddhismo indiano – rivela un sistema più complesso, che può offrire spunti utili anche alla riflessione etica contemporanea.
Le origini del karma: dai Veda ai filosofi shramana
Il concetto di karma nasce nelle antiche scritture induiste dei Veda, dove appare con il termine karman, indicando gli atti rituali.
Se il rituale veniva eseguito correttamente, il futuro della persona era considerato favorevole. I gesti erano ciò che determinava l’esito; il significato morale era secondario rispetto alla precisione del rito.
A trasformare questa idea furono gli shramana, pensatori della controcultura indiana che cercavano alternative al sistema religioso brahmanico. Tra loro, il Buddha e Mahavira, fondatore del Giainismo, estesero il concetto di karma all’azione umana in generale, e non più limitata, al solo contesto rituale.
Il Buddha e il concetto di karmavipaka: azioni, intenzioni e conseguenze
Per il Buddha, karma significa anzitutto “azione”, ma l’insegnamento comprendeva un elemento essenziale: l’intenzione.
L’azione non era valutata per la sua forma esterna, bensì per la qualità mentale che la originava. Il karma, quindi, era inseparabile dal suo risultato (vipaka): un unico principio di causa ed effetto chiamato karmavipaka.
PER CAPIRE MEGLIO: Secondo il buddismo quindi, non è la semplice offerta di un dono a produrre un esito positivo, ma l’intenzione sincera — e non l’interesse personale — con cui quel gesto viene compiuto.
Secondo il Buddha inoltre, le azioni motivate da tre radici negative – avidità, odio e confusione – generano sofferenza.
Al contrario, le intenzioni basate sulla non-avidità (pazienza, generosità), sul non-odio (compassione, empatia) e sulla non-confusione (conoscenza, chiarezza mentale) producono benessere. In altre parole, la qualità del carattere e degli stati mentali orienta il futuro della persona.
Questa idea richiama al noto detto di Eraclito secondo cui “il carattere è destino” (ethos è telos). Ed è un concetto che, al di là della religione, risuona con un’intuizione pratica comune: nel lungo periodo, atteggiamenti costruttivi tendono a generare risultati costruttivi, mentre aggressività e confusione portano spesso ad esiti problematici e destini nefasti.
Da qui nasce la domanda fondamentale: questa apparente regolarità tra intenzioni e conseguenze è davvero costante, prevedibile e universale al punto da poter essere considerata una legge naturale?
In altre parole, il legame tra stato mentale e risultati è qualcosa che osserviamo stabilmente nella vita umana, come accade per la gravità o per i processi biologici, oppure si tratta solo di una tendenza generale senza il rigore delle leggi della natura?
Il karma come legge naturale nella tradizione buddhista
Nella tradizione buddista, la “legge del karmavipaka” è considerata effettivamente una legge di natura.
Tuttavia, il Buddha, nello Sivaka Sutta, avverte che il karma non spiega tutto ciò che accade agli esseri umani: molti altri fattori contribuiscono all’esperienza individuale.
I testi buddhisti descrivono l’esistenza di cinque grandi leggi di natura, ognuna responsabile di un diverso ambito del mondo:
La legge fisica, che regola i fenomeni materiali, dall’attrazione gravitazionale ai processi termodinamici;
La legge biologica, che governa la nascita, la crescita e il funzionamento degli esseri viventi;
La legge psicologica, legata ai meccanismi della mente, alle emozioni e ai comportamenti;
La legge del dharma-niyama, che riguarda le verità e i principi insegnati dal Buddha, considerati costanti e universali;
La legge karmica, che connette intenzioni e conseguenze morali.
Secondo questa impostazione, le cinque leggi operano in modo autonomo, ciascuna nel proprio ambito, e non richiedono l’intervento di una divinità o di un principio metafisico per funzionare.
Il karma, quindi, non è la chiave unica per interpretare tutto ciò che accade, ma una legge tra le altre: interagisce con le altre forze della natura, senza annullarle e senza sostituirsi a esse. Questa visione suggerisce un sistema più complesso e sfumato, in cui le esperienze umane derivano da molte cause intrecciate e non da un’unica spiegazione totale.
Ma nel concreto, come funziona?
Le prime obiezioni: moralità e natura possono coincidere?
Una prima critica sostiene che l’idea di una natura moralmente organizzata sia poco credibile. Perché l’universo dovrebbe premiare il bene e punire il male?
La replica di alcuni filosofi è alquanto interessante: forse non è la natura ad adattarsi alla moralità umana, ma il contrario. Le nostre intuizioni morali – considerate spesso universali – potrebbero essersi sviluppate osservando con regolarità la vita biologica e sociale.
Proprio come il corpo impara ad evitare il fuoco, la mente apprenderebbe ad evitare stati mentali distruttivi, che nel lungo periodo generano sofferenza.
In questa visione, il karma non è altro che l’osservazione secolare di un principio pragmatico: certe disposizioni mentali danneggiano la vita, mentre altre la favoriscono.
La seconda obiezione: il meccanismo causale
Un’altra critica riguarda l’assenza di un meccanismo esplicito che colleghi l’azione al risultato. Come fa, esattamente, l’intenzione a produrre effetti futuri? Senza una spiegazione, la legge karmica sembrerebbe carente.
Ma anche questa obiezione si indebolisce se si considerano le osservazioni del filosofo David Hume: nessuna relazione causale — neppure nelle scienze fisiche — è spiegata in ultima istanza.
Perché la gravità attrae? Non lo sappiamo davvero: osserviamo semplicemente che accade sempre.
La regolarità, e non il meccanismo, è ciò che definisce una legge naturale.
Le obiezioni più difficili da superare
Tuttavia restano due punti molto problematici da affrontare:
1. Le vite future
Il karma, nelle dottrine tradizionali, agirebbe non solo in questa vita ma anche nelle successive. Se si accetta la reincarnazione, l’argomentazione è coerente, altrimenti, il karma può essere interpretato solo come principio valido nell’arco di una singola vita.
2. Un’assolutezza difficile da sostenere
Il karma sarebbe una legge universale e assoluta. Ma è davvero possibile? L’analogia con la gravità può aiutare: la gravità è una legge assoluta, ma i suoi effetti possono essere mitigati da altre forze. Se lanciamo del pane in aria, lo faremo ricadere a terra… a meno che un corvo non lo afferri al volo.
Il Buddha stesso riconosceva che molte leggi interagiscono nella realtà. In quest’ottica, il karma potrebbe essere una legge assoluta, ma non l’unica, dato che i suoi effetti vengono modulati da altri fattori fisici, psicologici o ambientali. Non fornisce, quindi, una “giustizia cosmica” garantita.
Il valore etico del karma
Dal punto di vista della moralità, il karma offre un modello pragmatico: bene e male non sono concetti metafisici, ma descrizioni degli esiti delle azioni.
Ciò che genera benessere è considerato “buono”, mentre ciò che genera sofferenza è considerato “male”. È un sistema osservativo, e non dogmatico.
Inoltre, pur senza promettere ricompense perfettamente proporzionate, il karma offre una forma di rassicurazione: chi agisce in modo distruttivo, nella maggior parte dei casi, sperimenta esiti negativi. Non sempre, e non sempre in modo equo; ma abbastanza spesso da costituire una regolarità.















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