Greenwashing: il grande inganno verde che ci fa sentire ecologici senza esserlo veramente

greenwashing

Hai presente quella pubblicità dove una multinazionale del petrolio si definisce “amica dell’ambiente”? Oppure quella bottiglietta d’acqua “biodegradabile” che poi scopri essere fatta di plastica come tutte le altre? Benvenuto nel mondo del greenwashing, ovvero l’arte di sembrare sostenibili… senza esserlo davvero.

Il termine nasce dalla fusione di “green” (verde, ecologico) e “whitewashing” (imbiancare, camuffare). In pratica, è una strategia di marketing che fa sembrare ecologico ciò che non lo è affatto, e serve solo a migliorare l’immagine pubblica di un’azienda.

 Il greenwashing è una truffa emotiva, perché sfrutta il nostro desiderio di fare la cosa giusta per il pianeta. E lo fa usando parole rassicuranti, immagini di foglie e fiori, e frasi come “100% naturale”, “amico degli animali” o “a impatto zero”. Ma spesso, dietro a queste parole si nasconde il nulla cosmico.

Un po’ di storia

Il termine greenwashing fu coniato nel 1986 da Jay Westerveld, un giovane ecologista americano. La sua scoperta avvenne quasi per caso, durante un viaggio nelle isole Fiji. A quel tempo alloggiava in un resort che esponeva un cartello nel bagno:

“Per proteggere l’ambiente, ti invitiamo a riutilizzare gli asciugamani.”

Un messaggio all’apparenza nobile, tuttavia Westerveld si accorse presto che, mentre invitavano gli ospiti al risparmio idrico, gli stessi gestori stavano espandendo a dismisura il resort, radendo al suolo porzioni di natura incontaminata per costruire nuove strutture. In altre parole: chiedevano piccoli gesti agli ospiti, mentre loro contribuivano attivamente alla distruzione dell’ambiente locale.

Fu in quel momento che nacque la parola “greenwashing”.
Da allora, la tecnica si è affinata, globalizzata e… moltiplicata. Oggi è diventata quasi una disciplina a sé, al punto che alcune agenzie pubblicitarie specializzano intere campagne per dipingere di verde anche il carbone.

Perché funziona? Perché le persone vogliono sentirsi parte della soluzione. Vogliono credere che il detersivo che usano non stia uccidendo la barriera corallina e che la maglietta da 5 euro non provenga da una fabbrica con scarichi tossici. Così, le aziende si limitano a fornire l’illusione al consumatore. 

Come possiamo riconoscere il greenwashing?

Smontare la maschera del greenwashing richiede occhio critico e un pizzico di pazienza. Spesso ci lasciamo abbagliare da colori, simboli e parole che suonano bene.

Attenzione se:

🌿 Packaging “verde”

Un barattolo verde con sopra una foglia non è una garanzia. Se non trovi indicazioni chiare sulla composizione, sull’origine dei materiali o sul processo di produzione, è possibile che sia solo una scelta estetica per illudere il consumatore.

🌀 Parole vuote

Termini come “eco-friendly”, “green”, “clean”, “naturale”, “amico degli animali” vengono usati con estrema leggerezza. Ma senza dati e senza certificazioni ufficiali, non valgono nulla. È un po’ come dire che un biscotto è “sano” perché contiene l’avena… e poi scoprire che è ricoperto di zucchero e olio di palma.

❌ Nessuna trasparenza

Un’azienda che ha davvero a cuore la sostenibilità lo dimostra con report, indicatori verificabili e certificazioni riconosciute (come ISO 14001, Ecolabel, GOTS, ecc.). Se tutto ciò manca, occorre dubitare.

💨 Linee “verdi” create per distrarre

Quando un colosso inquinante lancia una linea “verde”, spesso si tratta di una mossa strategica per spostare l’attenzione. È un  tentativo di compensare simbolicamente un danno ambientale senza modificarne le cause strutturali.

“Sì, inquiniamo gli oceani, ma abbiamo una linea di saponi al tè verde!”

Esempi concreti di greenwashing

Il modo migliore per difendersi è imparare dai casi reali. Ecco tre tra i più emblematici in assoluto.

🧵 Fast fashion

Negli ultimi anni, diversi brand di moda low-cost hanno lanciato capsule collection “green”. Le chiamano Conscious Collection, Join Life, Eco-aware e così via. In teoria, dovrebbero essere prodotte con tessuti sostenibili e meno chimici.
In pratica?

  • Rappresentano meno del 5% dell’intera produzione.

  • Spesso i materiali usati non sono interamente naturali, ma blend di cotone organico e poliestere, difficili da riciclare.

  • Non c’è trasparenza sui fornitori né sulle condizioni di lavoro.

La verità è che la moda veloce non può essere sostenibile per definizione, perché si basa su:

  • sovrapproduzione

  • spreco sistemico

Non basta mettere un’etichetta verde su una maglietta per cambiare un sistema intero.

✈️ Le compagnie aeree “verdi”

Alcune compagnie di volo promuovono programmi per “compensare le emissioni” piantando alberi. È una bella iniziativa? Sì, ma funziona davvero?

  • Un albero giovane impiega decenni per assorbire la CO₂ di un singolo volo intercontinentale.

  • Le foreste piantate spesso sono monocolture non integrate negli ecosistemi locali, e in certi casi nemmeno sopravvivono.

  • Alcuni progetti si rivelano più marketing che reale impatto ambientale.

Volare è ancora oggi una delle attività più impattanti sul clima. Parlare di “volo sostenibile” è come parlare di “carne vegana” fatta con bistecche vere: una contraddizione in tutti i sensi.

🧴 Bottiglie “eco” che non lo sono

Le bottiglie d’acqua in plastica “eco” sono un altro classico esempio di greenwashing.
Spesso riportano diciture come:

  • “Fatta con plastica riciclata”

  • “Bottiglia più leggera per ridurre le emissioni”

  • “100% riciclabile”

Ma:

  • La plastica riciclata è spesso solo il 30%.

  • L’intero ciclo di vita del prodotto resta lineare e non circolare.

  • Il vero problema è l’eccessivo consumo di plastica monouso, non il peso del tappo.

Anche se la bottiglia è “più green”, il contenuto è lo stesso: un sistema di produzione che genera tonnellate di rifiuti ogni secondo.

Perché il greenwashing è pericoloso?

A prima vista potrebbe sembrare innocuo. In fondo, “meglio poco che niente”, giusto? Non proprio. Il greenwashing è pericoloso per almeno tre motivi:

  • Inganna il consumatore e gli fa credere di fare una scelta etica quando non lo è.

  • Rallenta il cambiamento vero, perché premia le aziende furbe invece di quelle davvero impegnate nel green.

  • Distrugge la fiducia: se tutto è “green”, niente lo è davvero. E alla lunga, ci si rassegna.

Come possiamo difenderci da questa trappola?

Il greenwashing ci prende in giro, ma non siamo completamente indifesi. Possiamo diventare consumatori consapevoli, quelli che fanno domande, leggono le etichette e scavano un po’ più a fondo.

Ecco alcune strategie pratiche per non cadere nella trappola:

  • Cerca certificazioni reali, come FSC, Fair Trade, Ecolabel, GOTS, ecc.

  • Leggi il sito dell’azienda e verifica cosa fanno davvero per l’ambiente.

  • Diffida da termini vaghi come “Green”. Da solo, non vuol dire niente.

  • Se qualcosa sembra troppo bello per essere vero, probabilmente… non lo è.

Serve una svolta collettiva

Non possiamo più permetterci di lasciare che il marketing decida cosa è sostenibile e cosa no. Serve una maggiore regolamentazione. Servono sanzioni per chi mente e serve un giornalismo d’inchiesta che smascheri i bluff.

Serve anche una presa di coscienza culturale. Smettiamola di pensare che basti comprare “green” per salvare il pianeta. Una società basata su consumismo non potrà MAI E DICO MAI essere una società ecosostenibile.

La sostenibilità non è una moda

Essere sostenibili non significa comprare cose “bio” o “green”, ma riprogrammare il nostro modo di vivere, consumare e produrre.

Sostenibilità è:

  • Ridurre, non solo riciclare

  • Rallentare, non solo compensare

  • Riparare, non solo sostituire

E soprattutto: fare meno, ma meglio.
La vera ecologia non è una scorciatoia, ma una scelta consapevole, a volte faticosa, ma necessaria.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei