Che differenza esiste tra ciò che è vero e ciò che chiamiamo verità?

vero e verità

Nel corso della storia, filosofi di tradizioni diverse hanno cercato di rispondere a una domanda fondamentale: esiste una differenza sostanziale tra ciò che è vero, e ciò che chiamiamo verità?

È davvero possibile raggiungere la verità, oppure dobbiamo considerarla un ideale verso cui tendere, sapendo che potremmo avvicinarci sempre di più senza possederla mai del tutto?

Una prima distinzione appare già intuitiva: i fatti sono veri, ma la verità sembra essere qualcosa di più ampio, quasi un orizzonte. Eppure, nel linguaggio comune, i due termini vengono frequentemente sovrapposti, come se un singolo dato bastasse a concepire l’intera realtà. Questa confusione, rischia di ridurre la complessità del mondo ad un’unica prospettiva.

Secondo Mosé Maimonide — grande filosofo medievale — quando ci mancano le prove o quando qualcosa non ci è chiaro, è bene sospendere qualsiasi tipo di giudizio, ed invita a “trattenersi” prima di affermare o negare.

Una lezione di prudenza intellettuale che meriterebbe di essere insegnata già a scuola, soprattutto oggi, in un mondo digitale dominato dalla tendenza opposta: esprimere giudizi e certezze anche quando si conosce solo un frammento della situazione.

Quando il vero diventa una scorciatoia 

Un equivoco molto comune mostra quanto sia facile confondere il vero con la verità.

Immaginiamo di partecipare ad una riunione di lavoro. Al termine, il responsabile del team saluta tutti rapidamente, e se ne va senza soffermarsi con noi come fa di solito.

Il fatto è semplice: il responsabile è uscito di fretta e non ci ha dedicato la solita attenzione che solitamente ci mostra. Da qui, però, potremmo trarre conclusioni affrettate, dato che potremmo pensare che: “ce l’ha con noi”, “non ha apprezzato il mio intervento”, “ho sbagliato qualcosa”.

Quel comportamento è reale: abbiamo notato che, alla fine della riunione, il responsabile si è mostrato più freddo e distaccato del solito, quasi indifferente, ma questo singolo episodio, per quanto evidente, non basta a descrivere l’intera verità della situazione.

Per capire meglio, dovremmo conoscere la risposta ad altre domande, quali: Era in ritardo per un altro appuntamento? Ha ricevuto una telefonata urgente? È preoccupato per qualcosa? Ha fatto lo stesso anche con gli altri?

Ogni interrogativo apre a nuove possibilità, e al nostro “vero”, si aggiungono nuovi “pezzi” di realtà che inizialmente non vedevamo. La nostra prima reazione — trasformare un singolo fatto in una verità definitiva — riduce invece, la complessità di ciò che è accaduto.

Basta riflettere un attimo per renderci conto che quel gesto, se preso da solo, non ci dice quasi nulla sul suo stato d’animo, né sul suo giudizio verso di noi.

Separare il vero dalla verità significa riconoscere che ciò che osserviamo è spesso solo una parte del quadro. Solo interrogando la situazione, ed ampliando i fatti a nostra disposizione, possiamo avvicinarci a una comprensione più completa e meno ingannevole.

L’invito di Cartesio: Bisogna rallentare il giudizio 

Nella Meditazione IV, Cartesio analizza l’origine dell’errore umano ed arriva a una conclusione sorprendente: non sbagliamo perché il nostro intelletto osserva le cose da una prospettiva sbagliata, ma perché decidiamo troppo in fretta.

Un esempio celebre riguarda il Sole. Se si osserva il sole ci appare come un piccolo disco luminoso nel cielo, e questa è una percezione corretta: è davvero così che lo vediamo.

L’errore nasce quando trasformiamo questa semplice apparenza in un giudizio sulla sua natura, concludendo che il sole sia effettivamente un disco di quelle dimensioni.

In realtà, la percezione non coincide con la verità dell’oggetto, che è molto più complessa. Il problema non è ciò che vediamo, ma la rapidità con cui trasformiamo un’impressione in un giudizio definitivo.

Per tale motivo — sottolinea Cartesio — la ricerca della verità richiede lentezza e cautela. Bisogna concedere al pensiero il tempo di accogliere nuovi elementi, di rivedere le prime impressioni, nonché di restare con una mentalità aperta. La fretta, al contrario, congela la realtà al suo primo apparire e ci fa scambiare un angolo per l’intero quadro.

Occorre comprendere davvero, prima di giudicare 

La ricerca della verità potrebbe spostarsi dall’idea di giudizio a quella di comprensione. Comprendere infatti, significa restare aperti alla possibilità che ciò che sappiamo non sia definitivo. È un processo che non si esaurisce mai, perché nuovi fatti — o nuovi “fattori”, termine meno rigido di “fatti” — possono sempre ampliare l’intero quadro.

Questa apertura risulta essenziale anche nei rapporti umani.

Se a volte gli altri ci sembrano meno liberi di noi — bloccati nelle loro abitudini, nelle loro paure o nelle loro decisioni — è spesso perché li osserviamo solo dal nostro punto di vista, e giudichiamo le loro azioni, solo attraverso i nostri personali criteri di giudizio, senza accorgerci che la loro esperienza interna può essere radicalmente diversa alla nostra.

Ogni persona infatti, agisce secondo motivazioni, limiti, valori e necessità che dall’esterno non sono immediatamente visibili.

UN ESEMPIO PER CAPIRE MEGLIO: Immaginiamo un amico che rifiuta di cambiare lavoro nonostante sembri infelice. Da fuori potremmo pensare che manchi di coraggio o iniziativa, ma mettendoci nei suoi panni potremmo scoprire invece, che ha responsabilità familiari, timori economici, un forte senso del dovere o semplicemente tempi emotivi diversi dai nostri.

Il suo comportamento, che da lontano appariva “poco libero”, in realtà obbedisce a una serie di condizioni che noi non avevamo per niente considerato.

Ecco perché immaginare l’altro come ugualmente libero richiede uno sforzo reale, dato che ci impone a sospendere per un momento le nostre interpretazioni e provare a capire quali possibilità, quali pressioni, o quali alternative vede lui.

Questo cambio di prospettiva ci permette di cogliere una verità più ampia, meno centrata su noi stessi e più rispettosa della complessità altrui. Così ciò che inizialmente appariva rigido, incomprensibile o limitato può rivelare una logica interna che prima non vedevamo affatto.

Fatti, interpretazioni e limiti della comprensione

Una questione cruciale riguarda il valore dei fatti: sono tutti equivalenti? E cosa accade se ciò che chiamiamo “fatto” non è altro che un’interpretazione?

La comprensione non deve diventare eccessivamente passiva o indulgente, dato che esistono fatti — o interpretazioni — che richiedono giudizi rapidi e netti. Il comportamento amorevole di una madre, ad esempio, non può essere posto allo stesso livello del gesto crudele di un sadico: il primo invoca comprensione, mentre il secondo esige un giudizio morale immediato.

Non tutte le interpretazioni sono uguali: alcune favoriscono armonia, unità e bontà, mentre altre generano sofferenza e distruzione. La scelta, dunque, non è solo di natura intellettuale, ma anche etica.

I tre tipi di conoscenza nella Bhagavad Gita

Un contributo illuminante a questo tema proviene dalla Bhagavad Gita, testo classico della tradizione indiana. Nel capitolo XVIII, vengono descritti tre tipi di conoscenza, corrispondenti a tre qualità della natura (guna): sattva (bontà), rajas (energia), tamas (inerzia).

1. Conoscenza sattvica

La conoscenza sattvica è quella che riconosce un principio unico e duraturo presente in ogni essere vivente. Significa vedere che, al di là delle differenze di carattere, cultura o comportamento, esiste qualcosa che ci collega tutti: la stessa fragilità, lo stesso bisogno di amore, nonché la stessa capacità di soffrire e di gioire.

È un modo di conoscere che non guarda solo ai singoli individui, ma percepisce anche il filo invisibile che li unisce. Come ad esempio, nel caso in cui un gesto di gentilezza verso qualcuno, può contribuire al benessere di molti.

PER CAPIRE MEGLIO: Immagina di entrare in ufficio e trovare il tuo collega visibilmente stressato. Rivolgergli una parola gentile o offrirgli il tuo aiuto per una piccola incombenza può alleviare immediatamente la sua tensione.

E quando lui si sente meglio, si relaziona in modo più sereno con gli altri, evita conflitti inutili e contribuisce a creare un clima più disteso per tutto il team. In questo modo, la tua gentilezza iniziale si è riflettuta sul benessere di molte persone, e non solo su quella a cui era rivolta.

Questo tipo di visione mette in luce ciò che favorisce armonia, cura e cooperazione, e ci invita a riconoscere negli altri non solo le loro differenze, ma anche la parte comune che condividiamo come individui parte dello stesso disegno.

2. Conoscenza rajasica

La conoscenza rajasica è quella che mette l’accento sulle differenze. Invece di vedere ciò che ci unisce, si concentra su ciò che ci distingue: caratteri diversi, ruoli diversi, identità diverse…

È un modo di conoscere centrato sulla molteplicità, in cui ogni cosa viene analizzata e separata dalle altre. Funziona come quando cataloghiamo, etichettiamo, o definiamo: “questo è diverso da quello”, “questa persona non è come quell’altra”.

È una conoscenza molto utile, dato che aiuta ad orientarci nel mondo, poiché ci permette di riconoscere i dettagli, le categorie e le funzioni.

Pensiamo, ad esempio, a quando distinguiamo un amico espansivo da uno più introverso, oppure un lavoro creativo da uno tecnico: questa distinzione ci aiuta a capire meglio le situazioni, ma proprio perché si concentra sulle differenze, la conoscenza rajasica può farci perdere di vista ciò che ci accomuna con le persone, mettendo l’accento più sulla separazione che sulla connessione.

3. Conoscenza tamasica

La conoscenza tamasica è la forma più limitata di conoscenza, poiché si concentra su un solo dettaglio e lo scambia per l’intera realtà. È come guardare un singolo albero, e credere di aver capito tutta la foresta.

In questa prospettiva, un fatto isolato viene preso come verità assoluta, senza considerare il contesto. Succede, per esempio, quando una persona risponde in modo brusco, e noi pensiamo subito che sia maleducata, senza immaginare che possa essere stanca, preoccupata o in ritardo.

Oppure quando vediamo un collega distratto e concludiamo che non gli importi del lavoro, ignorando tutto ciò che non conosciamo della sua giornata.

È un modo di pensare che restringe lo sguardo, impedisce di vedere le connessioni e porta a giudizi affrettati. La conoscenza tamasica riduce la complessità del mondo ad un singolo elemento e, proprio per questo, ci allontana dalla verità più ampia delle cose.

Non-dualità e stati di coscienza

Oltre ai tre livelli di conoscenza descritti nella Bhagavad Gita, la tradizione indiana introduce un quarto livello, considerato il più profondo: la conoscenza che nasce dalla non-dualità.

In questo stato non esiste più separazione tra osservatore ed osservato, tra soggetto ed oggetto: tutto è percepito come parte di un’unica realtà. Secondo gli Yoga Sutra, la qualità della nostra conoscenza cambia in base al nostro stato di coscienza.

Quando la mente è agitata od offuscata, capiamo poco ed in modo distorto, mentre quando invece è chiara e stabile, la conoscenza diventa più affidabile. L’illuminazione rappresenta il punto più alto di questo processo: una forma di sapere completa e durevole, radicata nell’esperienza diretta del Sé, cioè della nostra natura più profonda.

A questo punto la domanda da porci è: l’illuminazione è uno stato fisso o può crescere nel tempo?

Le diverse tradizioni offrono risposte differenti. Ad esempio, il filosofo Averroè immagina l’onniscienza come una condizione statica: chi sa tutto non ha più nulla da cercare, né può agire per modificare ciò che è già noto. È una visione della perfezione come immobilità, simile ad un punto finale oltre il quale non c’è sviluppo.

Altri pensatori, invece, hanno una prospettiva completamente opposta. Secondo alcune letture filosofiche, la perfezione non elimina l’imperfezione, ma la ingloba dentro di sé. La completezza non è un blocco immobile, ma un processo dinamico, capace di includere anche ciò che è ancora in crescita. Questa idea suggerisce che un essere perfetto possa comunque conoscere e sperimentare nuovi aspetti della realtà, ampliando continuamente la propria profondità.

Una visione ancora più evolutiva è quella di Gregorio di Nissa, un teologo del IV secolo, secondo il quale la conoscenza di Dio non raggiunge mai un punto definitivo. Per lui, l’incontro con il divino è una scoperta perpetua: ogni volta che comprendiamo qualcosa, si apre un nuovo livello da esplorare.

La distanza che ci separa da Dio è infinita e, proprio per questo, possiamo sempre avanzare. Non si tratta di insoddisfazione, ma di una crescita senza limiti, in cui ogni passo è completo e, allo stesso tempo, preludio al successivo.

Una prospettiva simile si ritrova anche nel Buddhismo, dove la figura del Bodhisattva — l’essere spiritualmente evoluto che sceglie di aiutare tutti gli esseri viventi — continua a svilupparsi anche dopo aver raggiunto una profonda illuminazione.

La sua saggezza non è qualcosa di statico, ma un processo in continuo ampliamento. Ogni esperienza, ogni azione compassionevole, ed ogni comprensione nuova contribuisce ad espandere ulteriormente la sua consapevolezza.

In tutte queste tradizioni emerge un’idea comune: anche quando la conoscenza raggiunge livelli altissimi, non significa che il viaggio sia terminato. La non-dualità, l’illuminazione e la saggezza non rappresentano un punto di arrivo finale, ma un movimento continuo verso una comprensione sempre più vasta, capace di abbracciare ciò che è già noto e ciò che ancora deve essere scoperto.

Conclusione

La verità non rappresenta un punto d’arrivo definitivo, ma un percorso che procede passo dopo passo.

Ogni volta che raccogliamo nuovi fatti, li confrontiamo con ciò che già sappiamo, e li inseriamo in un quadro più ampio, compiendo di fatto un avanzamento.

La conoscenza non cresce in modo lineare, ma si amplia, si corregge, e la si raffina. Anche quando una certezza sembra davvero solida, nuove prospettive possono modificarla o arricchirla.

Per tale motivo, la verità non va intesa come un qualcosa di immutabile da possedere, bensì come ad un ideale verso cui tendere con pazienza. Il semplice atto di avvicinarci a questo ideale — ampliando la nostra visione, riconsiderando le prime impressioni, ed integrando ciò che emerge — è già una forma di realizzazione.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona.Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei