Quando sentire troppo fa male: il lato oscuro dell’empatia nell’era dei social

Esiste una parola che tutti amano pronunciare, ma che pochi comprendono davvero: l’empatia.
L’empatia è la capacità di percepire e comprendere in profondità le emozioni altrui, un po’ come se potessimo entrare direttamente nello stato emotivo della persona con cui conversiamo o con cui abbiamo un qualsiasi scambio di pensieri.
Sembra strano, ma anche vedere un post che incita all’odio sui social media può causarci un’impennata di odio. Volente o non volente, assorbiamo in parte l’emozione con cui entriamo in contatto.
È spesso considerata una delle qualità più nobili e che rappresentano meglio l’essere umano, poiché ci avvicina agli altri e ci permette di creare legami autentici. Non è un caso che molte volte tu abbia sentito frasi del tipo ” Cerca di metterti nei panni degli altri “, oppure ” Cerca di essere più empatico”.
Sono tutte frasi che servono per cercare di capire meglio l’altro. Per intenderci: Il contrario della persona empatica, è la persona psicopatica, dato che non riesce a entrare in contatto con le emozioni altrui.
Chi possiede un cuore empatico sa cosa significa assorbire la tristezza di un amico come fosse la propria, o sentire un nodo in gola dopo aver visto il telegiornale.
Viviamo in un mondo che ci bombarda di emozioni altrui, amplificate da schermi che non dormono mai. Scrolliamo, clicchiamo, leggiamo, e senza accorgercene, ogni notizia, ogni commento e ogni post lascia una piccola impronta dentro di noi.
In una società che premia la reattività più dell’ascolto, e la competizione più della comprensione, l’empatia non è sempre una risorsa,
anzi, mi duole ammetterlo, ma può diventare la causa del nostro malessere.
Come può sopravvivere un cuore sensibile in un’epoca in cui l’odio fa tendenza e la paura genera clic?
L’era del contagio emotivo – Quando le emozioni si trasmettono come i virus
Siamo nell’era del contagio emotivo.
Nel 2014 un esperimento condotto da Facebook insieme all’Università di Cornell dimostrò un fatto sorprendente e inquietante: bastava modificare leggermente il tono emotivo dei post nel feed di alcune persone per influenzare il tipo di contenuti che avrebbero poi pubblicato inseguito.
Chi vedeva post tristi, tendeva a scrivere a sua volta messaggi più cupi, mentre chi invece leggeva parole positive, diffondeva più gioia.
Un semplice test di algoritmo svelò così una verità potente: le emozioni sono contagiose, anche dietro uno schermo.
Non c’è bisogno di un abbraccio, di uno sguardo o di un tono di voce, basta uno scroll per cambiare il proprio stato emotivo in base al post letto o commentato.
Abbiamo creato una rete per collegarci, ma spesso finiamo per essere travolti dal peso emotivo collettivo. Ogni post arrabbiato diventa una scintilla che accende la nostra irritazione. Ogni notizia drammatica si insinua nel cervello, attivando il nostro sistema di allerta, come se fossimo effettivamente davanti a un pericolo imminente.
Devi sapere che nel nostro cervello esistono cellule chiamate neuroni specchio: si attivano quando osserviamo qualcuno provare un’emozione, come se la provassimo anche noi.
Questo meccanismo è la base biologica dell’empatia, ma anche la ragione per cui possiamo sentirci svuotati dopo una giornata passata tra telegiornali e social network.
È come se il nostro cervello non sapesse distinguere davvero tra la sofferenza che vede e quella che vive.
Ecco perché, dopo ore di notizie sul mondo che brucia, ci sentiamo esausti. Il nostro sistema nervoso ha reagito come se fossimo davvero lì, a vivere ogni tragedia.
Gli psicologi chiamano questo fenomeno overload empatico o compassion fatigue, letteralmente “stanchezza da compassione”.
È lo stesso stato che colpisce infermieri, operatori sociali, volontari e chiunque sia esposto continuamente al dolore altrui.
Solo che oggi questa esposizione non avviene più solo nella vita reale, ma si insinua anche nella vita online.
E mentre gli algoritmi premiano i contenuti che generano emozioni forti – rabbia, paura, indignazione – noi, inconsapevolmente, diventiamo vittime di una gigantesca catena emotiva che ci porta dritti dritti nel baratro.
Effetti reali del contagio emotivo
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Stress cronico dovuto all’attivazione costante del sistema nervoso simpatico.
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Calo percettivo dell’energia vitale: tutto appare più pesante, anche ciò che prima dava piacere.
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Difficoltà di concentrazione e tendenza a rimuginare.
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Calo dell’umore, irritabilità e forte senso di impotenza.
E tutto questo, avviene molto spesso senza accorgercene. Non perché ci succeda davvero qualcosa di grave, ma perché assorbiamo la realtà emotiva del mondo virtuale come una spugna immersa in un mare tossico.
Empatia in un mondo ostile – La sensibilità come vulnerabilità sociale
In una società ricca d’amore e compassione, l’empatia sarebbe un dono, dato che avremmo la capacità di combattere le emozioni negative semplicemente vivendo.
Ma la realtà odierna è un’altra.
Viviamo in un contesto che esalta la competizione più della collaborazione, la performance più della sensibilità, e il giudizio più della comprensione.
E in un clima del genere, essere empatici può diventare una lama che penetra in prodondità.
Le emozioni dominanti della società contemporanea non sono la gioia o la pace, ma la paura, la rabbia, l’invidia e il sospetto.
Le proviamo quotidianamente nei luoghi di lavoro, nei commenti online, nelle conversazioni con chi, più che ascoltare, aspetta di rispondere.
Le respiriamo nei notiziari che aprono con tragedie e chiudono con polemiche.
Così, chi è empatico finisce per vivere come un radar emotivo sempre acceso. Ogni vibrazione negativa lo attraversa e ogni conflitto gli lascia una traccia ben visibile nella psiche.
A lungo andare, questa ipersensibilità si trasforma in logoramento interiore.
La mente cerca di difendersi, ma a volte lo fa chiudendosi, diventando apatica.
È il paradosso dell’empatia: sentire troppo può portare a non sentire più.
Eppure la soluzione non è “sentire meno”, ma imparare a distaccarsi emotivamente dalle emozioni con cui entriamo quotidianamente in contatto.
E allora sorge una domanda perfetta per questi tempi bui: come si può essere empatici senza farsi distruggere dall’empatia stessa?
Il cervello empatico – Cosa dice la scienza?
Il nostro cervello è programmato per “rispecchiare” le emozioni degli altri.
Tutto nasce dai neuroni specchio, scoperti negli anni novanta dal neuroscienziato italiano Giacomo Rizzolatti e dal suo team all’Università di Parma.
Queste minuscole cellule si attivano sia quando compiamo un’azione e sia quando vediamo qualcun altro compierla.
Se osserviamo una persona sorridere, nel nostro cervello si accendono le stesse aree che si attiverebbero se fossimo noi a sorridere.
Se vediamo qualcuno piangere, il nostro sistema limbico – la sede delle emozioni – risponde come se il dolore fosse nostro.
Il cervello empatico non “immagina” l’emozione altrui, ma la rivive, e la forza con cui la rivive dipende largamente dalla nostra capacità di entrare in contatto con la sfera emotiva altrui. Più siamo empatici e più le emozioni rischiano di travolgerci, sia nel bene, che nel male.
E questa è una meraviglia dell’evoluzione, perché ha permesso agli esseri umani di cooperare tra loro.
Ma qui arriva anche il rovescio della medaglia.
Nel mondo iperconnesso di oggi, queste stesse strutture cerebrali vengono stimolate in continuazione.
Ogni volta che assistiamo a un dramma in TV, leggiamo un post di rabbia o scorriamo le immagini di una tragedia, i nostri neuroni specchio si accendono.
E, senza rendercene conto, il corpo rilascia cortisolo, adrenalina e serotonina: un cocktail chimico che regola le emozioni, ma che, se attivato troppo spesso, ci porta all’esaurimento nervoso.
Gli studi sul cosiddetto contagio emotivo digitale lo dimostrano.
La ricerca di Kramer, Guillory e Hancock del 2014, condotta su 689.000 utenti di Facebook, rivelò che la semplice esposizione a contenuti negativi riduceva il tono emotivo generale per giorni. Non siamo solo consumatori di emozioni, ma siamo prima di tutto dei recettori viventi.
Effetti neuropsicologici più comuni
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Sovraccarico cognitivo: il cervello empatico processa costantemente informazioni emotive, consumando energia mentale.
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Alterazioni del sonno: la mente iperattiva fatica a “spegnersi” dopo giornate dense di input emozionali.
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Ipersensibilità sensoriale: rumori, parole e immagini assumono un peso maggiore, come se ogni stimolo fosse amplificato.
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Depressione reattiva: l’assorbimento continuo di emozioni tristi può predisporre a un abbassamento del tono dell’umore.
Paradossalmente il cervello empatico, progettato per connetterci, può finire per isolarci.
E così, ciò che nasce come legame si trasforma in distanza.
Empatia e società – Quando la sensibilità è controproducente
Se ci pensi, viviamo in una società che parla tanto di empatia, ma in concreto la pratica poco.
Ci riempiamo la bocca di parole come “ascolto”, “inclusione”, “gentilezza”, ma poi l’ambiente che costruiamo è spesso competitivo, rumoroso e iper aggressivo.
Le aziende premiano la produttività, non la sensibilità.
I social incoraggiano la reazione immediata, non la riflessione.
Le scuole valorizzano il rendimento, non l’intelligenza emotiva.
In un contesto del genere, chi è empatico finisce per sentirsi fuori posto.
Troppo sensibile per un mondo che corre e troppo vulnerabile per un sistema che misura tutto in risultati.
Eppure, l’empatia è ciò che più manca oggi.
È ciò che potrebbe salvare le relazioni, migliorare la politica e guarire le fratture sociali.
Solo che, per farlo, ha bisogno di un terreno fertile.
E quel terreno, oggi, è arido.
Viviamo in una società che trasforma la compassione in debolezza e l’indifferenza in forma di difesa.
Chi prova empatia viene spesso accusato di essere troppo sensibile, fragile e “drammatico”.
“L’empatia è la capacità di rimanere presenti davanti al dolore, senza fuggire e senza giudicare.”
Quando le emozioni collettive vengono alimentate da algoritmi che privilegiano la rabbia poiché genera più interazioni, è dannatamente difficile rimanere ben saldi emotivamente.
Ecco un tutorial pratico per sopravvivere a un mondo poco empatico
L’unico modo per sopravvivere emotivamente in una società tossica è imparare a regolare l’empatia.
Questo significa:
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Scegliere con consapevolezza cosa consumare: ogni notizia, ogni video e ogni post ha un impatto emotivo sulla nostra mente. Scegli di seguire contenuti che ti nutrono, e che non ti prosciugano.
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Praticare il distacco compassionevole: bisogna imparare ad ascoltare l’altro senza perdersi nelle sue emozioni. Un’emozione non è tua solo perché la senti. Chiediti sempre: questa tristezza è mia o l’ho raccolta da qualcun altro?
- Coltiva relazioni sane: Le persone empatiche hanno bisogno di rapporti equilibrati, e non tossici. Circondati di chi sa ascoltare, ma anche di chi ti restituisce serenità.
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Riconoscere i propri limiti: non possiamo salvare il mondo! Se dovessimo ascoltare ogni notizia di guerra, ingiustizia o oppressione credo che dureremmo davvero poco.
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Coltivare il silenzio: la mente empatica ha bisogno di spazi vuoti per rigenerarsi. Puoi praticare la meditazione mindfulness, camminare nel bosco, o praticare la gratitudine.
Essere empatici non è una maledizione, ma un dono che va maneggiato con estrema cura.
È come avere un cuore troppo grande per un mondo troppo piccolo, tuttavia con il giusto equilibrio, quel cuore può illuminare anche le stanze più buie.
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