La crisi climatica come crisi morale: ecco ciò che Attfield ci insegna
Robin Attfield – professore emerito di filosofia all’università di Cardiff e figura chiave nell’etica ambientale – nel suo libro “L’etica della crisi climatica (2024)” ci mette davanti a un fatto tanto evidente quanto scomodo.
Il tempo sta scadendo e non si tratta solo di allarmismo effimero, ma si tratta di un dato scientifico non contestabile. Come ricorda l’IPCC, abbiamo soltanto fino al 2025 per avere una concreta possibilità di mantenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5°C.
Una cifra piccola certo, solo in apparenza, ma determinante per la stabilità dei sistemi climatici, delle coltivazioni, della disponibilità d’acqua e, in ultima analisi, della vita umana così come la conosciamo.
Attfield non si limita a dirci che il mondo è in pericolo, ma il concetto centrale del suo libro riguarda la responsabilità. Chi è che deve agire? Secondo quali principi etici? Con quali priorità? A beneficio di chi?
Il libro esplora nei minimi dettagli la relazione tra esseri umani presenti e futuri, tra umanità e altre specie, tra bisogni essenziali e preferenze superflue… e lo fa mettendo a confronto visioni diverse dell’etica ambientale.
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Quando parliamo di riscaldamento globale, biodiversità in declino e inquinamento, non stiamo descrivendo solo fenomeni fisici, ma stiamo decidendo a cosa attribuire del valore, in quanto la crisi climatica è, prima di tutto, una crisi morale, poiché nasce dall’incapacità di riconoscere i limiti e le relazioni fondamentali esistenti tra tutti i sistemi viventi.
Attfield sottolinea inoltre, che i cambiamenti climatici non possono essere affrontati solo ed esclusivamente, come un semplice problema tecnico, da risolvere con l’invenzione della “macchina perfetta” o tramite un colpo di genio ingegneristico.
La questione secondo Attfield è molto più profonda e complessa, dato che alla base non c’è solo una mancanza di soluzioni, ma in primis, anche la mancanza di volontà di cambiare ciò che riteniamo giusto e importante.
La crisi climatica è infatti, anche una questione etica. È una questione di equità tra le generazioni, dato che sebbene gli esseri umani del futuro non esistano ancora in forma tangibile, le loro condizioni di vita dipendono direttamente da quello che facciamo noi oggi.
La nostra responsabilità non scompare solo perché chi ne subirà gli effetti, oggi non può ancora dire la sua. Dobbiamo saperci proiettare in avanti, oltre il presente, che consuma tutto come una fiamma viva.
Per capire davvero la gravità della situazione, basta guardare a ciò che sta accadendo: il clima si sta riscaldando e produce eventi meteorologici sempre più estremi; la biodiversità si sta riducendo, con specie e habitat che scompaiono; l’inquinamento si diffonde ovunque, dall’aria che respiriamo ai mari, fino ai nostri stessi corpi.
Trattarli come problemi separati, come spesso accade nel dibattito pubblico, è fuorviante. Sono tutte manifestazioni dello stesso processo di indebolimento dell’equilibrio del pianeta.
I diritti delle generazioni future
Una delle parti più complesse e affascinanti della riflessione di Attfield riguarda il valore morale degli esseri umani che devono ancora nascere. Come possiamo tutelare i diritti di chi ancora non è nato, quando prendiamo oggi decisioni politiche ed economiche?
È un tema alquanto scivoloso, poiché riguarda qualcosa che non possiamo vedere, toccare o intervistare, eppure, ciò non significa che non sia reale.
Attfield sostiene inoltre, che la qualità della vita futura dipenderà direttamente dalle scelte attuali, individuali e sociali. Questa affermazione ci obbliga a ripensare all’idea stessa di responsabilità. Non è sufficiente occuparsi solo dei problemi più immediati.
Lomborg, politologo ed economista danese, ad esempio, minimizza e ridicolizza il valore degli investimenti climatici, affermando che dovremmo concentrarci su emergenze più vicine, ma Attfield nel suo libro ribatte dicendo che il futuro non è un lusso distante, ma il luogo in cui vivranno i nostri figli, e ignorarlo oggi, significa tradire le generazioni future.
Bisogni, preferenze e la considerabilità morale verso le altre specie
Una parte molto rilevante dell’argomentazione di Attfield riguarda la distinzione tra bisogni e preferenze. Questo è un nodo morale spesso ignorato nella politica e nell’economia contemporanea.
Per bisogni intendiamo ciò che è essenziale per la sopravvivenza e il benessere di base. Per preferenze intendiamo invece desideri più o meno sostituibili, modellati dalla cultura, dal consumo e dall’ego individuale.
Oggi gran parte delle attività che danneggiano il clima e devastano la biodiversità risponde non a bisogni, ma a preferenze. Non abbiamo bisogno di un SUV per spostarci in città, non abbiamo bisogno di consumare carne ogni giorno, e non abbiamo nemmeno bisogno di costruire condomini di vetro nei deserti.
Eppure, molte decisioni globali continuano a favorire la soddisfazione delle preferenze individuali dei più ricchi a scapito dei bisogni vitali di miliardi di persone e di interi ecosistemi.
Attfield introduce qui un principio fondamentale: il danno causato alla vita, umana e non umana, non può essere giustificato solo dal desiderio di chi trae vantaggio dal danno stesso.
La questione si amplia poi al tema della considerabilità morale verso le altre specie. Non possiamo più parlare della natura come di uno sfondo inerte, o come di un deposito di risorse da utilizzare a piacere.
Molte specie animali sono senzienti, provano dolore, e instaurano forme complesse di cooperazione. Riconoscere diritti soltanto agli esseri umani significa ignorare l’evidenza scientifica che mostra come la vita sulla terra sia una rete di relazioni e interdipendenze.
Considerare il valore degli altri esseri viventi non è solo un atto etico, ma un passo necessario per comprendere e rispettare il sistema di cui facciamo parte.
Un albero non prova dolore come noi, ma senza l’albero noi non respiriamo. Una barriera corallina non scrive certo poesie, ma senza di essa gli oceani collassano. Una rondine non costruisce i grattacieli, ma è parte integrante del ritmo stagionale che regola clima e fertilità dei suoli.
In poche parole Attfield afferma questo:
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La sofferenza animale è reale e misurabile
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Gli ecosistemi funzionano come sistemi integrati di relazioni
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Il danno a una parte del sistema compromette l’intero equilibrio
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Proteggere le altre specie significa proteggere noi stessi
In questo senso, la distinzione tra umano e non umano inizia a mostrare le sue crepe.
Il principio di precauzione e il rischio del “non agire”
Attfield, nel suo libro, discute poi il principio di precauzione, secondo cui, quando esiste il rischio concreto di danni gravi o irreversibili, è necessario intervenire subito per prevenirli, anche in assenza di una piena certezza scientifica.
L’assenza di certezza non è un buon motivo per non agire. Meglio agire prima, piuttosto che affrontare conseguenze potenzialmente irreversibili dopo.
Questo principio lo applichiamo continuamente nella vita quotidiana, se ci pensi bene… Se vediamo del fumo provenire dalla cucina, non aspettiamo la certezza matematica che la casa prenda fuoco prima di fare qualcosa, eppure, su scala planetaria, facciamo esattamente l’opposto.
Rimandiamo, rinviamo, e cerchiamo prove assolute, mentre la temperatura sale, le foreste bruciano, le calotte si sciolgono, e le comunità costiere vengono inghiottite dall’oceano. Questo succede perché il costo dell’azione è considerato troppo alto, tuttavia, Attfield ci dice che il costo del “non agire oggi” sarà immensamente più alto domani.
Per capire bene il concetto di Attfield voglio fare un esempio. Immagina di aver contratto un debito: è meglio iniziare a ripagarlo oggi, anche a costo di adottare uno stile di vita più modesto, piuttosto che rimandare di dieci anni, quando l’ammontare sarà diventato insostenibile e il debito praticamente impossibile da saldare.
Il principio di precauzione ci dice che:
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Non serve attendere un consenso unanime per ridurre le emissioni
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Non serve comprendere ogni dettaglio degli ecosistemi per proteggerli
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Non serve prevedere il futuro con precisione assoluta per evitare un disastro
La cosa paradossale è che, mentre il dubbio viene usato come freno per non agire, gli effetti della crisi climatica sono già dolorosamente sotto gli occhi di tutti, e possiamo vederlo, tramite le alluvioni in Pakistan, negli incendi in California, nelle ondate di calore estremo in Europa, fino ad arrivare ai cicloni nel sudest asiatico.
Rifugiati climatici e giustizia globale
Un punto centrale del libro riguarda coloro che saranno costretti a fuggire dalle loro terre a causa del cambiamento climatico. Il termine rifugiati climatici non è ancora riconosciuto legalmente, eppure parliamo di decine, forse centinaia di milioni di persone entro il 2050 secondo le stime dell’organizzazione internazionale per le migrazioni.
Per affrontare queste sfide, Attfield propone soluzioni concrete, come l’istituzione di passaporti internazionali per i rifugiati climatici o la creazione di nuovi territori destinati alle comunità costrette a migrare.
Si tratta di misure complesse da realizzare, senza dubbio, ma ignorare il problema significherebbe lasciare che la sofferenza si trasformi in tensioni, conflitti e violenza.
Avere già un piano d’azione, prima che l’emergenza si manifesti – e se continuiamo così, è quasi certo che accadrà – significa ridurre il danno e prevenire conseguenze molto più gravi.
È impossibile parlare di etica climatica senza parlare di giustizia. La crisi che affrontiamo oggi non è solo di natura ambientale, ma rappresenta il risultato di colonizzazioni, sfruttamenti, nonché disuguaglianze costruite nel corso dei secoli. Le popolazioni che pagano il prezzo più alto oggi, sono spesso quelle che hanno contribuito meno al problema.
Il clima non è neutrale, e la storia nemmeno.
Antropocentrismo, senzientismo e biocentrismo
Per comprendere bene, come distribuire le responsabilità e i diritti tra esseri umani, animali ed ecosistemi, Attfield esplora diverse prospettive etiche.
Si parte dall’antropocentrismo, secondo cui solo l’essere umano possiede un valore morale intrinseco. Questo approccio sostiene che la natura abbia valore principalmente in quanto utile a noi. È la visione dominante nelle politiche industriali, nel diritto internazionale, nelle logiche estrattive e nell’economia globale.
Attfield però mostra come questa prospettiva non sia solo alquanto limitata, ma anche soprattutto autolesionista. Proteggere la natura solo perché utile è come proteggere un polmone solo quando ci manca l’aria. In questo modo arriviamo sempre tardi.
Da qui si passa al senzientismo, che attribuisce valore morale agli esseri che possono sentire dolore e piacere. In questa cornice non solo gli esseri umani, ma anche molti animali diventano portatori di diritti. Tuttavia, ecosistemi complessi, come piante, suoli, e oceani restano ancora fuori da questo orizzonte.
Il biocentrismo allarga ulteriormente la prospettiva. Tutti gli esseri viventi hanno valore, indipendentemente dalla loro capacità di provare dolore o dalla loro utilità.
È una posizione più inclusiva, ma che richiede un cambiamento radicale nel nostro modo di concepire il mondo. Paul Taylor, con il suo famoso Rispetto per la Natura (1981), è stato uno dei pionieri in questo campo, ma Attfield lo menziona meno di quanto alcuni critici avrebbero desiderato. Tuttavia, il messaggio centrale rimane chiaro: nessuna specie è un pianeta a sé. Ogni organismo è parte di una rete vivente che collega tutti.
E poi c’è un’altra prospettiva da prendere assolutamente in considerazione: quella sistemica. Qui non si guarda più al valore morale del singolo essere, ma al benessere dei sistemi viventi nel loro insieme. Questa è la direzione verso cui si muovono figure come Tim Morton e le teorie ecologiche contemporanee. La vita non è un insieme di individui separati, ma un intreccio continuo di legami che si influenzano a vicenda.
Scegliere tra questi approcci non è facile, e Attfield lo sa bene. Tuttavia, mostra come posizioni diverse possano generare, nella pratica, le stesse politiche. Proteggere gli oceani non è necessario perché provano dolore, proteggerli è necessario perché senza oceani non c’è clima stabile, non c’è ossigeno, e non c’è futuro per nessuno.
Soluzioni tecniche, geoingegneria e il rischio delle conseguenze indesiderate
Di fronte alla crisi climatica, molte proposte cercano di risolvere il problema alla radice, attraverso l’utilizzo della tecnologia. La cattura dell’anidride carbonica, il ripristino delle torbiere, il rimboschimento delle aree degradate, le piantagioni di fanerogame marine… sono tutte delle strategie promettenti, dato che mirano a lavorare insieme alla natura, e la natura è ancora oggi, la più grande ingegnera che abbiamo.
Detto questo, esiste anche una volontà nell’utilizzare soluzioni più estreme, quali geoingegneria atmosferica, riflessori solari nello spazio, alterazioni chimiche degli oceani… interventi titanici che promettono risultati rapidi, ma che portano con sé rischi enormi. Sebbene Attfield non la citi direttamente nel libro, è chiaro che la legge delle conseguenze inattese, aleggia come un’ombra inquietante su queste proposte.
Ecco un esempio facile per chiarire questo punto. Un intervento per riflettere parte della luce solare potrebbe ridurre temporaneamente le temperature, ma alterare le piogge monsoniche, provocando carestie devastanti in asia e in africa.
Salvare una zona potrebbe portare alla distruzione di altre. Non possiamo trattare il clima come un rubinetto che possiamo aprire e chiudere a piacimento.
Le soluzioni migliori sono quelle che:
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Ripristinano ecosistemi danneggiati
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Ridanno spazio ai normali cicli naturali
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Ridistribuiscono risorse e responsabilità
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Limitano il consumo legato a preferenze anziché ai bisogni
Sebbene Attfield non lo esprima con questo esempio, la situazione può essere paragonata alla scelta tra un percorso di cura naturale, che richiede tempo – magari 1 o 2 mesi – per ridurre l’infiammazione, ma senza effetti collaterali, e l’uso di antidolorifici che alleviano il problema in pochi giorni, ma a costo di conseguenze negative nel lungo periodo.
In altre parole, è preferibile un cambiamento graduale e sostenibile, piuttosto che a una soluzione immediata, ma dannosa.
Il ruolo delle istituzioni, delle comunità e degli individui
Attfield riconosce che il peso più grande ricade sulle istituzioni politiche e sui grandi attori economici. Le scelte individuali sono importanti, ma non possono sostituire regolamentazioni globali e investimenti strutturali. È come chiedere a qualcuno di usare meno acqua mentre i tubi della città perdono migliaia di litri al minuto, eppure, non tutto dipende dall’alto.
Le comunità locali, e i movimenti sociali sono spesso i primi ad agire, anzi, a sopravvivere, adattarsi, e a inventare soluzioni. Il cambiamento nasce anche dal basso, dove la sofferenza è più vicina e più reale.
Siamo dunque chiamati a un duplice impegno che riguarda sia il livello politico che quello quotidiano: da un lato, è necessario esercitare pressione affinché le istituzioni si trasformino; dall’altro, dobbiamo assumerci una responsabilità personale e collettiva nelle scelte che facciamo ogni giorno.
Nessuno può considerarsi estraneo a questo processo: vivere su questo pianeta significa esserne inevitabilmente coinvolti.



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