La consapevolezza della morte può renderci liberi

consapevolezza della morte ci rende liberi

C’è un pensiero che inquieta e insieme libera. Un’idea semplice, ma capace di ribaltare ogni certezza: la vita non è che un intervallo tra due infiniti. Prima della nostra nascita, l’assoluto silenzio dell’inesistenza. Dopo la nostra morte, un altro silenzio, altrettanto insondabile. In mezzo, un istante brevissimo, fragile e incandescente: la nostra esistenza.

Siamo come una scintilla nel buio, come l’intermittenza di un respiro nell’universo. Non ricordiamo da dove veniamo, né possiamo sapere con certezza dove andremo. Eppure, eccoci qui, a chiederci chi siamo, perché siamo, e che cosa dovremmo fare con il tempo che ci è stato misteriosamente concesso.

Ma proprio in questo frammento si gioca tutto. In questa sospensione incerta si concentra la totalità del nostro possibile. E allora, che senso ha vivere come se fossimo immortali? Perché molte persone rimandano, aspettano, o continuano a procrastinare invece di godersi appieno il momento presente?

Viviamo come se fossimo padroni del tempo, ma siamo soltanto ospiti temporanei di un presente che scorre. Ed è in questa consapevolezza, a tratti dolorosa, che può nascere una nuova urgenza: quella di vivere con verità, con coraggio, e con intensità.

Il tempo che ci appartiene

Tendiamo a pensare alla vita come a qualcosa di “dato”, quasi fosse un possesso garantito. Ma la verità è che la vita non ci appartiene: ci attraversa, e sta a noi darle forma, orientamento, e un senso.

Essere vivi non significa soltanto respirare, ma scegliere come vivere ogni istante. La nostra esistenza è come un’opera incompleta: ogni azione, ogni parola, e ogni decisione rappresentano un colpo di pennello su una tela che non possiamo rifare da capo.

“Non abbiamo bisogno di più tempo, ma di usare meglio quello che abbiamo.”

Viviamo spesso come se il tempo fosse infinito, come se ci fosse sempre un “dopo” in cui amare, dire la verità, perdonare, e osare. Ma il tempo non è un capitale sicuro. È una sabbia che scivola via anche mentre pensiamo ad altro. Ogni giorno trascurato è un pezzo di eternità perso per sempre.

Non è che forse la vera sfida dell’essere umano rimane quella di cercare di vivere, come se ogni giorno fosse il primo… e anche l’ultimo.

Vivere con urgenza, non con ansia

In un’epoca dominata dalla velocità e dall’efficienza, parlare di “urgenza” può sembrare pericoloso. Ma non si tratta di ansia da prestazione. L’urgenza di cui parliamo è quella esistenziale: la consapevolezza che ogni momento è irripetibile.

Non c’è niente di più tragico di una vita passata a correre senza sapere dove si stia andando.

Vivere con urgenza non significa accumulare esperienze, ma selezionare ciò che conta davvero. Significa rinunciare al superfluo per abitare l’essenziale. Bisogna capire che ogni “sì” a qualcosa rappresenta anche un “no” a qualcos’altro.

Questa urgenza è sorella della libertà. Solo chi ha compreso la fragilità della vita può scegliere con lucidità cosa vale la pena vivere. Non tutto deve essere fatto, detto, o realizzato. Ma tutto ciò che facciamo dovrebbe illuminare la nostra esistenza.

Tra nascita e morte: una zona sacra

Il filosofo Blaise Pascal parlava del “silenzio eterno di questi spazi infiniti” come qualcosa che lo riempiva di terrore. E forse è vero: pensare al nulla che ci precede e ci seguirà ci sgretola. Ma se osserviamo bene, proprio quel nulla rende sacro il breve intervallo della nostra esistenza.

Il solo fatto che qualcosa come la coscienza, l’amore, il dolore, o la bellezza possano esistere anche solo per un momento in mezzo al nulla, è un miracolo. Un miracolo fragile, eppure reale.

Questa zona sacra tra due abissi è tutto ciò che abbiamo. E dentro di essa, siamo chiamati a non tradirci, a non vivere vite che non ci appartengono, e a non seguire cammini tracciati da altri se non risuonano con la nostra verità.

“L’uomo nasce senza motivo, prosegue per abitudine e muore per caso.”

Ma proprio per questo, può scegliere di nascere due volte: la prima per caso, la seconda per scelta. La seconda nascita è quella dell’autenticità.

L’autenticità come scelta

Essere autentici non è una dote naturale. È una decisione continua. Significa non mentire a sé stessi, anche quando la verità fa male. Significa essere disposti a pagare il prezzo della coerenza, anche se comporta rinunce.

L’autenticità non è comoda. È scomoda, solitaria, e particolarmente esigente. Ma è l’unica via che ci rende davvero vivi e che al momento del trapasso ci farà sentire orgogliosi della vita appena trascorsa. Non so se vale lo stesso per te, ma la mia peggior paura è quella di aver vissuto la vita di un altro.

Di non essere stato  me stesso davvero. Di aver indossato maschere su maschere, fino a dimenticare il volto che c’era sotto. Di essermi adattato tanto bene alle aspettative altrui da non riuscire più a distinguere cosa desideravo io, profondamente, e visceralmente.

È una paura sottile, ma tenace. Non esplode, ma ti consuma. Ti svegli un giorno, magari con una bella casa, un lavoro rispettabile, una vita “come si deve”, e ti accorgi che dentro senti solo un’eco vuoto. Come se qualcuno avesse scritto la tua storia al posto tuo. Come se fossi stato il protagonista di un copione scritto da altri.

“Meglio essere odiati per ciò che si è, che amati per ciò che non si è.”

E allora la vera domanda non è chi sono, ma chi ho avuto il coraggio di essere. Ho detto “no” quando era più facile dire “sì”? Ho scelto la mia strada, anche se inciampavo? Ho rischiato di essere incompreso pur di essere vero?

L’autenticità non ha nulla a che fare con la perfezione. Anzi, spesso essere autentici significa entrare in conflitto con ciò che ci è più vicino: un genitore, un partner, o una cultura che ci ha cresciuti ma non ci rispecchia.

A volte, per essere fedeli a sé stessi, bisogna deludere chi ci ama, disobbedire a chi ci ha dato la vita, e rompere equilibri costruiti su bugie gentili. È doloroso, ma necessario. Perché non c’è amore più profondo di quello che ci permette di essere liberi, anche a costo di perdere approvazione.

L’autenticità è puro allineamento. Si tratta solo di questo. È poter guardarsi allo specchio, anche nei giorni difficili, e dire: “Questa vita è mia. L’ho vissuta con le mie mani, con la mia voce, e con la mia verità.”

E se alla fine, quando tutto tace, avrò il coraggio di dire questo, allora sì: avrò davvero vissuto una vita che meritava di essere vissuta.

Essere autentici vuol dire non camuffare il proprio desiderio, non reprimere la propria voce, e soprattutto non fingere per piacere agli altri.

Come posso coltivare una vita autentica

  • Ascoltare il silenzio
    Solo nel silenzio possiamo udire la nostra voce interiore, distinguere ciò che viene da noi da ciò che ci è stato imposto.

  • Fare spazio
    Via il rumore, via le relazioni tossiche, e via ciò che occupa spazio ma non nutre. Occorre fare spazio per ciò che conta davvero.

  • Agire con verità
    Anche nei gesti più semplici: il modo in cui parliamo a un cameriere, il tono che usiamo con chi ci ama.

  • Accettare il limite
    Non siamo onnipotenti. Ma nell’imperfezione c’è poesia. Il limite ci rende umani, e ci apre alla compassione.

  • Celebrare l’imperfezione
    Le cicatrici sono segni di battaglie vinte. Le vite patinate sono spesso vuote. Meglio essere crepe luminose che statue fredde.

Essere autentici è “per pochi”

In un mondo che celebra l’efficienza, la performance, e l’immagine, essere autentici è diventata una qualità davvero rara. Non è per tutti, perché richiede coraggio. Richiede di restare nudi davanti alla vita, senza travestimenti, senza filtri, e senza frasi fatte. Richiede di smettere di essere funzionali, e iniziare ad essere reali.

Viviamo in una società che premia chi si adatta, chi compiace, e chi non disturba. Ci vogliono perfetti, utili, e produttivi – mai fragili, mai lenti, e mai indecisi. Ma la verità è che la nostra umanità vive proprio lì, nelle imperfezioni, nei momenti di dubbio, e nei giorni in cui ci sentiamo smarriti.

Essere autentici, oggi, significa resistere alla tentazione di diventare una copia conforme, un numero, una bio curata su un social, o una carriera da esibire. Significa scendere dal palco e tornare nella carne, nei desideri veri, nelle paure vere, e nella libertà di sbagliare senza doverlo giustificare a tutti.

“Essere se stessi in un mondo che cerca costantemente di cambiarti è il più grande dei successi.”

Esistere davvero non è adattarsi, ma incarnarsi. È decidere ogni giorno di non essere un semplice ingranaggio, ma una presenza viva, pulsante, e libera. È scegliere di non vivere per “essere all’altezza” delle aspettative altrui, ma per onorare quel fuoco che brucia dentro, anche se nessuno lo vede.

Viviamo per esplorare, per amare, per cadere e rialzarci, per trasformarci, non per conservare una forma accettabile agli occhi del mondo. E se tutto, un giorno, sarà polvere… allora tanto vale bruciare intensamente, danzare nel fuoco, invece che passare la vita a osservarlo da lontano.

Meglio una vita storta ma autentica, che una vita perfetta ma spenta.

Conclusione

Ci sono momenti della giornata in cui mi fermo. Niente rumori, niente parole. E rimango solo con il pensiero che potrei non esserci più domani. Non è paura: è chiarezza.
È come se la possibilità della fine mi facesse scorgere delle verità nascoste.

In quei momenti non mi interessa ciò che ho accumulato, ma ciò che ho sentito, amato, o creato. Mi chiedo: ho vissuto secondo ciò che credevo? Ho detto ciò che sentivo? Ho guardato le persone negli occhi, o solo attraverso uno schermo? Se oggi fosse il giorno della mia dipartita sarei orgoglioso del cammino che ho intrapreso, o mi sentirei di aver sprecato questo dono che l’esistenza mi ha donato?

Ogni volta che ricordo che questa vita è una traversata breve in un mare infinito, sento che non posso permettermi di vivere a metà.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei