I dilemmi del consequenzialismo: perché salvare più vite non sempre è la scelta più morale.

salvare persone

Nel dibattito contemporaneo sulla filosofia morale, poche immagini sono incisive come quella proposta da Bernard Williams nel celebre esempio di “Jim e gli indiani”.

La scena è ambientata in una piccola città sudamericana: Jim, un botanico in viaggio, si ritrova casualmente davanti a venti abitanti del posto legati a un muro.

Alcuni tremano dalla paura, mentre altri cercano di mantenere un’aria fiera. Di fronte a loro, un gruppo di uomini armati aspetta gli ordini del capitano, un uomo massiccio dalla camicia cachi macchiata di sudore.

Dopo aver interrogato Jim e compreso che è solo un visitatore, il capitano gli concede la possibilità di ucciderne uno, in cambio della liberazione dei restanti diciannove.

Se rifiuta, Pedro – uno dei soldati – procederà con l’esecuzione di tutti. Gli abitanti del villaggio, ben consapevoli del peso della scelta, implorano Jim di accettare. È qui che nasce la domanda centrale: che cosa dovrebbe fare?

Williams, nel libro Utilitarianism: For and Against (1973), utilizza questo esperimento mentale per evidenziare una tensione profonda all’interno del consequenzialismo, la teoria morale secondo cui la correttezza delle azioni deriva unicamente dalle loro conseguenze.

Che cosa sostiene il consequenzialismo?

Il consequenzialismo invita la persona coinvolta nella decisione a compiere l’azione che produce il miglior risultato complessivo. Cosa significa “miglior risultato”?

L’interpretazione più diffusa è quella utilitaristica: un’azione è moralmente giusta se incrementa la quantità totale di “utilità”, spesso identificata con la felicità.

Secondo un approccio edonistico, infatti, dovremmo cercare di massimizzare il piacere e ridurre al minimo il dolore. La vita, per il consequenzialismo, diventa così un calcolo di costi e benefici.

Da questo punto di vista, scegliere tra due alternative morali equivale a scegliere l’opzione che produce la somma maggiore di benessere per il maggior numero di persone.

ESEMPIO PER CAPIRE MEGLIO: Il dilemma dei due gatti

Immaginiamo uno scenario ipotetico in cui tu sei il proprietario di due gatti, Benjy e Oliver, e durante un incendio domestico hai la possibilità di salvarne soltanto uno.

Un consequenzialista, di fronte a una scelta del genere, si porrebbe una domanda molto diretta: “Quale salvataggio produce la maggiore quantità totale di benessere?”

I legami affettivi con le persone

Il primo elemento che un consequenzialista considererebbe riguarda i legami emotivi che i due gatti hanno con le persone.

  • Quante persone traggono gioia dalla presenza di ciascun gatto?

  • Quanto soffrirebbero i proprietari per la sua perdita?

Per esempio:

  • Oliver è molto socievole, gioca con tutti, ed è affezionato a molte persone.

  • Benjy, invece, è timido e riservato: interagisce quasi solo con un membro della famiglia.

Da una prospettiva consequenzialista, la perdita di Oliver causerebbe più dolore complessivo, perché coinvolgerebbe un numero maggiore di persone.

Questo non significa che Benjy “valga meno”, ma che la sua scomparsa provocherebbe un impatto emotivo più limitato.

Aspettativa di vita e qualità della vita futura

Un altro criterio riguarda il futuro:

  • Un gatto giovane ha più anni di vita davanti, e quindi può contribuire a generare più felicità negli anni futuri.

  • Un gatto molto anziano o malato, invece, potrebbe avere un ruolo minore nel lungo periodo.

Anche questa differenza entra nel calcolo delle conseguenze.

La sofferenza psicologica di chi deve scegliere

Questo è un punto importante. Nell’utilitarismo non conta l’identità morale della persona che agisce, ma contano tutte le conseguenze che l’azione produce, comprese quelle che ricadono su di lei.

In questo caso, il proprietario potrebbe soffrire molto per la scelta. Se salvare Benjy invece di Oliver gli causasse un rimorso profondo o un dolore duraturo, anche questa sofferenza sarebbe una conseguenza reale da considerare.

Per l’utilitarismo, il dolore psicologico del proprietario fa parte del risultato complessivo e deve essere pesato allo stesso modo degli altri fattori.

Può sembrare un ragionamento freddo, e in parte lo è, ma l’utilitarismo funziona esattamnte così.

L’unica cosa che pesa, nel giudizio finale, è quanto benessere o quanto dolore l’azione genera nel mondo, per tutti gli esseri coinvolti — compreso, naturalmente, il proprietario costretto a fare la scelta.

Come scrive Williams in Consequentialism and its Critics (1988), il consequenzialista “avrà sempre qualcosa da dire sulla differenza tra massacrare sette milioni di persone e massacrare sette milioni e uno”.

Anche tra due opzioni moralmente terribili, quella che riduce il danno totale viene considerata la scelta giusta. È una logica inflessibile, che non ammette eccezioni.

Il problema della responsabilità negativa 

Poiché il consequenzialismo si concentra unicamente sulle conseguenze, ammette la cosiddetta responsabilità negativa: siamo moralmente responsabili non solo per ciò che facciamo, ma anche per ciò che non facciamo per impedire un male maggiore. È un punto fondamentale nel dilemma di Jim.

Da un punto di vista consequenzialista, la scelta è semplice: Jim dovrebbe uccidere un indiano per salvarne diciannove. Se si rifiuta, sarà moralmente responsabile della morte di tutti, esattamente quanto lo è il capitano.

Questa conclusione può apparire disturbante: davvero Jim, rifiutando di commettere un omicidio, diventa moralmente equivalente a chi ordina un massacro?

Ciò che manca qui è l’attenzione verso la persona che deve compiere la scelta, dato che uccidere una persona cambierebbe radicalmente la vita di Jim, compromettendo i suoi impegni più profondi e la sua identità morale.

Tuttavia, per il consequenzialista, questi aspetti sono irrilevanti: il dolore psicologico di Jim non pesa quanto la sopravvivenza di diciannove persone.

Il confronto con l’esempio del bambino che annega 

Molti difensori dell’utilitarismo replicano che la responsabilità negativa non è affatto assurda.

Peter Singer – filosofo australiano – propone un esempio famoso: se un bambino cade in uno stagno e sta per annegare, è moralmente obbligatorio intervenire. Se non lo facciamo, diventiamo almeno in parte responsabili della sua morte, anche se non l’abbiamo causata direttamente.

Tuttavia, il caso del bambino differisce da quello di Jim in un punto essenziale: nel primo non viene richiesto di violare i propri principi morali fondamentali, mentre nel secondo, Jim diverrebbe a tutti gli effetti un assassino.

Questo mette in luce un punto importante: il consequenzialismo non lascia spazio all’integrità personale.

L’utilitarismo può considerare il peso psicologico e morale della persona coinvolta?

Un consequenzialista potrebbe ovviare a questo dilemma proponendo questa risposta: l’integrità dell’agente morale – la persona responsabile della scelta – può essere inclusa nel calcolo delle conseguenze.

Se il costo psicologico di un’azione è particolarmente rilevante, allora forse quella non è l’opzione migliore.

Tuttavia, Williams nota, che anche così l’integrità diventa solo “una tra le tante variabili”. Nel caso di Jim, il trauma di un omicidio non pesa quanto la salvaguardia della vita di diciannove persone. Il risultato finale resta lo stesso: Jim dovrebbe uccidere.

Ed è proprio qui che nasce il paradosso di questa linea filosofica: una teoria morale che nasce per massimizzare la felicità sembra ignorare le fonti più profonde della felicità individuale, come i legami personali, i valori morali e l’identità.

L’alienazione come richiesta morale 

A questo, si aggiunge un’ulteriore problematica, dato che il consequenzialismo invita l’agente morale, ad assumere un punto di vista impersonale ed oggettivo: bisogna uscire da sé stessi, dai propri affetti e dai propri valori, e guardare solo al risultato finale.

È qui che nasce l’alienazione, una forma di distacco morale da sé e dagli altri.

Secondo alcuni teorici, questa alienazione può persino rappresentare una virtù. Peter Railton – filosofo americano – sostiene che allontanarsi dai propri schemi culturali o affettivi può favorire il progresso sociale e il pensiero oggettivo.

Tuttavia, come nota lo stesso Railton, dedicarsi totalmente all’obiettivo di massimizzare la felicità può privarci di quegli impegni che rappresentano le nostre principali fonti di felicità.

Si crea così una tensione insanabile: per generare massima felicità collettiva dobbiamo sacrificare la nostra felicità personale. Se tutti agissero così, l’esito complessivo potrebbe essere l’esatto opposto di quello desiderato: una società profondamente infelice.

Il cuore del problema 

L’esempio di Williams mostra con chiarezza che il consequenzialismo rischia di trattare gli individui come semplici strumenti per raggiungere un fine.

L’integrità personale, i valori e le convinzioni dell’agente morale, vengono infatti, posti in secondo piano.

E se il consequenzialismo ha un orientamento edonistico – cioè mira alla massimizzazione della felicità – questa riduzione dell’individuo porta a una contraddizione interna: si rischia di produrre infelicità proprio in nome della felicità.

L’alienazione della persona coinvolta nella scelta, necessaria per seguire la logica consequenzialista, è incompatibile con la visione secondo cui la moralità dovrebbe promuovere il benessere umano.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona.Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei