Debito pubblico: Il piano nascosto per tenerci schiavi a vita

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Il debito pubblico è la leva con cui i governi, le istituzioni sovranazionali e i poteri finanziari riescono a tenere interi popoli sotto controllo. Non parliamo di complotti fumosi privi di fondamento. Parliamo di numeri ufficiali, di decisioni prese a porte chiuse, di meccanismi che si ripetono da decenni, sempre uguali, in ogni angolo del mondo.

Oggi il debito globale ha superato i 200.000 miliardi di dollari, tre volte il PIL dell’intero pianeta. Significa che, seguendo la logica dell’economia classica, la Terra intera sarebbe tecnicamente fallita. Eppure il sistema va avanti, rafforzandosi sempre di più. Com’è possibile? Forse perché il vero obiettivo non è quello di estinguere il debito, ma mantenerlo vivo, alimentarlo, e soprattutto renderlo eterno.

Il debito pubblico come catena invisibile

Immagina di nascere già con un debito sulle spalle. Non hai ancora aperto un conto in banca, non hai mai chiesto un prestito, eppure sei già debitore. È esattamente la condizione che vive ogni cittadino italiano ed europeo – e molti anche dei cittadini extra Ue.

Il debito globale supera di tre volte la capacità produttiva annua del pianeta. In Italia parliamo di cifre che sfiorano e superano i 2.200 miliardi di euro, cifra pari a oltre il 130% del nostro PIL. Nonostante questo, ogni anno il Paese versa tra gli 80 e i 90 miliardi di euro solo in interessi. Non per ripagare il capitale, ma per mantenere in vita la macchina del debito.

Chi ci guadagna da questo meccanismo? Il creditore ovvio! Devi sapere che il creditore teme due cose: la morte del debitore e l’estinzione del debito. In entrambi i casi perde il suo flusso di denaro e, cosa ancora più importante, perde il potere di influenzare le scelte del debitore. Mantenere una nazione in debito significa avere un controllo diretto sulle sue politiche, sulle sue priorità e persino sulla vita quotidiana dei suoi cittadini.

Questa non è una teoria complottista campata in aria. È sufficiente guardare i bilanci dello stato per capirlo: dal 1990 ad oggi, l’Italia ha registrato quasi sempre un avanzo primario, cioè entrate superiori alle uscite al netto degli interessi. Eppure il debito cresce. Perché? Perché gli interessi sono talmente alti da divorare qualsiasi surplus, obbligando così lo stato a indebitarsi ancora di più per pagarli. Un circolo vizioso perfetto per chi presta denaro, disastroso per chi lo riceve.

Il disastro avvenuto nel 1981

Molti individuano un momento storico ben preciso come vera linea di frattura: il “divorzio” — o, meglio, il distacco definitivo — tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia, avvenuto nel 1981.
Questo evento segnò una svolta radicale nei rapporti tra le due istituzioni, ponendo fine a un legame che fino ad allora aveva garantito al Tesoro il sostegno diretto della banca centrale nell’acquisto dei titoli di Stato.

Un cambiamento epocale deciso non da un referendum, né da un dibattito parlamentare, ma da uno scambio di lettere avvenuta tra due uomini: il ministro Beniamino Andreatta e il governatore Carlo Azeglio Ciampi.

Fino ad allora, quando lo Stato emetteva titoli per finanziarsi, la Banca d’Italia agiva come paracadute: comprava i titoli invenduti, garantendo tassi d’interesse bassi e stabili.

Dal giorno del “divorzio” in poi, lo stato fu costretto a collocare i titoli esclusivamente sul mercato, competendo per attrarre investitori. Il risultato? Tassi d’interesse alle stelle, in alcuni casi superiori al 20%.

Da quel momento il debito pubblico italiano esplose. Non perché improvvisamente avessimo “vissuto al di sopra delle nostre possibilità” come amano raccontare, ma perché il costo del denaro era diventato insostenibile. Pagavamo di più per ottenere la stessa somma, e gran parte di quei soldi finiva direttamente nelle tasche di banche, fondi e assicurazioni.

Perché un cambiamento di tale portata è stato fatto senza consultare il parlamento e senza informare l’opinione pubblica? Forse perché, se la gente avesse compreso le conseguenze, avrebbe detto no.

Gli interessi come tassa occulta

Ogni anno, in Italia, tra gli 80 e i 90 miliardi di euro spariscono in una direzione ben precisa. Non finiscono in scuole, ospedali o infrastrutture, e non vengono usati per migliorare i servizi o ridurre le tasse. Vengono versati ai creditori, sotto forma di interessi sul debito.

Questa è la vera tassa che nessuno discute, quella che non appare mai chiaramente sulla busta paga ma che condiziona ogni voce del bilancio statale. È un prelievo costante che serve esclusivamente a mantenere viva la macchina del debito, senza ridurlo di un centesimo.

Molti non sanno che dal 1990 ad oggi i cittadini italiani hanno versato allo Stato circa 700 miliardi di euro in più rispetto a quanto hanno ricevuto in servizi. In teoria, con queste cifre, il debito avrebbe dovuto essere azzerato. In pratica, non solo non è diminuito, ma continua a crescere. Perché? Perché il sistema è progettato per funzionare così. Il debito non è un problema da risolvere, è un’industria da mantenere in vita.

Gli interessi non sono semplicemente un costo. Sono uno strumento di potere. Servono a mantenere il debitore in una condizione di sudditanza psicologica, oltre che economica. Un Paese che sa di dover pagare miliardi in interessi ogni anno sarà molto più docile nell’accettare le condizioni di chi quei soldi li presta.

I veri beneficiari del debito

Chi sono, in concreto, i nostri creditori? Non stiamo parlando di “vecchi risparmiatori” con qualche titolo di Stato in cassaforte. La fetta di debito pubblico realmente in mano a famiglie italiane è minima, circa il 6%. Il resto è nelle mani di fondi di investimento, banche, compagnie di assicurazioni e grandi soggetti finanziari internazionali.

E qui la domanda diventa inevitabile. Sapendo che – secondo diverse voci – questi stessi soggetti hanno avuto un ruolo nelle crisi finanziarie che hanno messo in ginocchio interi paesi — compreso il nostro — è accettabile sentirsi in debito verso chi, secondo tali analisi, avrebbe contribuito a crearne i presupposti?

Il debito diventa così un doppio cappio. Da un lato c’è un flusso costante di interessi che arricchisce chi lo detiene, mentre dall’altro i creditori hanno la possibilità di influenzare le decisioni politiche e sociali di un paese. Perché chi presta denaro a uno stato non lo fa solo per guadagnare. Lo fa anche per ottenere un potere contrattuale in modo da condizionare leggi, trattati e scelte economiche.

In un contesto globale, questo significa che i centri finanziari internazionali non solo traggono profitto dai debiti degli stati, ma possono anche orientare le politiche interne in linea con i propri interessi. E il fatto che tutto ciò avvenga senza un dibattito pubblico aperto è forse il dettaglio più inquietante.

Il debito come arma di austerità

Quando un Paese è gravato da un debito elevato, i creditori non chiedono solo il pagamento degli interessi. Pretendono “garanzie”. E queste garanzie si traducono in politiche di austerità, presentate all’opinione pubblica come misure “necessarie” per mettere in ordine i conti.

In realtà, l’austerità non risana l’economia: la restringe. Tagliare spese pubbliche, ridurre i servizi e aumentare le tasse… sono tutte strategie che deprimono la domanda interna e frenano la crescita. Ma i creditori non sono interessati a una popolazione prospera, sono interessati alla sicurezza del flusso di denaro che gli arriva.

Ecco perché si accetta che un paese riduca gli investimenti strategici pur di “onorare” il pagamento del debito. È il ricatto silenzioso: o rispettate le condizioni o vi facciamo pagare ancora di più in interessi, vi declassiamo sui mercati e vi isoliamo finanziariamente.

L’austerità ha un effetto collaterale perfetto per chi vuole il controllo: genera paura e rassegnazione. Quando la gente sente ripetere per anni che “non ci sono soldi” per scuole, ospedali o pensioni, finisce per credere che sia un fatto inevitabile. In questo clima, qualsiasi sacrificio viene accettato, perché sembra non esserci alternativa.

Il peso sugli enti locali

Pochi sanno che la narrativa del debito viene utilizzata anche a livello locale, per giustificare tagli e restrizioni che colpiscono direttamente i cittadini. Gli enti locali – comuni e regioni – hanno una responsabilità minima nel debito pubblico nazionale, appena l’1,8%. Eppure sono stati tra i primi bersagli delle politiche di “risanamento”.

Dal 2010 al 2016 i comuni italiani hanno aumentato le tasse locali di circa 7,8 miliardi di euro. Non per migliorare i servizi, ma per rispettare i vincoli imposti dallo stato centrale. In quegli stessi anni, lo stato ha sottratto agli enti locali circa 11 miliardi, attraverso tagli e prelievi forzosi, riducendo drasticamente le risorse disponibili per manutenzioni, welfare locale, cultura e infrastrutture.

Il risultato ottenuto è stato duplice:

  • I cittadini hanno pagato di più in tasse comunali.

  • I servizi locali sono peggiorati o sono stati tagliati.

Questo meccanismo non è un effetto collaterale, ma fa parte del modello. Tenere in difficoltà cronica i comuni significa avere un ulteriore strumento di pressione sulla popolazione. Significa poter dire “non ci sono soldi” e quindi giustificare qualsiasi taglio, qualsiasi privatizzazione, nonché qualsiasi rinuncia.

Il debito come strumento geopolitico

Il debito non è solo un affare interno, ma rappresenta i primis un’arma di politica internazionale. Le grandi potenze, attraverso istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale o la Banca Mondiale, hanno spesso concesso prestiti a paesi in difficoltà imponendo in cambio “riforme strutturali”.

Queste riforme raramente si limitano all’economia. Spesso riguardano la politica energetica, la gestione delle risorse naturali, la privatizzazione di settori strategici,  fino ad arrivare a modifiche alla legislazione del lavoro o ai diritti sociali. In altre parole, si usa il bisogno immediato di liquidità come leva per ridisegnare l’intero assetto di un Paese.

Il risultato è che una nazione può perdere, pezzo dopo pezzo, la propria sovranità. La logica è sottile ma implacabile: se vuoi il denaro, devi accettare le nostre regole. E queste regole, guarda caso, favoriscono sempre gli interessi economici e strategici di chi presta denaro, e mai di chi lo riceve.

Il debito come freno alla democrazia

Un debito elevato può essere usato anche per bloccare o deviare decisioni politiche che non piacciono ai grandi investitori. Immagina un governo che voglia introdurre una misura popolare ma costosa, come un aumento significativo della spesa sanitaria o un reddito di base. Basterà un segnale di “sfiducia” dei mercati per mettere quel governo sotto pressione.

Il potere del debito qui diventa evidente. Non serve un colpo di stato, né azioni violente. Basta che i tassi di interesse sui titoli di stato salgano, e improvvisamente le priorità politiche cambiano, come per magia. In questo modo i governi rinunciano alle promesse elettorali per “tranquillizzare i mercati”.

Questo significa che, in pratica, le decisioni di un paese non sono prese interamente dai suoi cittadini o dai loro rappresentanti, ma sono filtrate e condizionate dall’umore di attori finanziari privati. La democrazia rimane nella forma, ma nella sostanza viene svuotata.

Il mito della colpa collettiva

Uno degli strumenti psicologici più efficaci per mantenere il controllo attraverso il debito è far credere ai cittadini che sia tutta colpa loro. La narrativa ufficiale è semplice e viene ripetuta fino  all’infinito: “Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”.

Questo messaggio ha una funzione precisa. Se la popolazione crede di essere responsabile, accetterà sacrifici, tagli e rinunce come una forma di espiazione. Non si chiederà mai se, in realtà, il problema sia stato generato da scelte politiche e finanziarie precise, spesso prese senza alcun coinvolgimento democratico.

In Italia, i dati dimostrano che questa narrativa è ingannevole. Dal 1990, il bilancio primario dello stato è stato in attivo quasi ogni anno. Significa che lo stato ha incassato più di quanto ha speso in servizi e investimenti, al netto degli interessi. Eppure il debito è cresciuto lo stesso, segno che la causa non è stata “vivere sopra le nostre possibilità” ma il meccanismo stesso su cui si sviluppa il debito.

La storia degli annullamenti del debito

C’è un altro aspetto che raramente viene raccontato. La storia è piena di cancellazioni del debito. L’idea che un debito sia sacro e intoccabile è una costruzione moderna e utile a chi lo detiene.

Ecco un esempio eclatante. Nel 1953, la Germania Ovest aveva un rapporto debito/PIL di oltre il 500%. Dopo una conferenza internazionale, i creditori decisero di tagliare il debito del 75% e di dilazionare il resto in 50 anni. La motivazione ufficiale era favorire la ricostruzione post-bellica. Il risultato fu un miracolo economico.

La differenza è che oggi, invece di cancellare i debiti insostenibili, si preferisce mantenerli come leva di potere. L’annullamento del debito non è tecnicamente impossibile. È politicamente indesiderabile per chi detiene le redini del sistema.

Il debito come generatore di crisi permanenti

Un debito elevato è una bomba a orologeria che può essere fatta esplodere in qualsiasi momento. I mercati, le agenzie di rating e le istituzioni finanziarie internazionali hanno il potere di trasformare una situazione gestibile in una crisi conclamata con poche mosse coordinate.

Basta un declassamento del rating sovrano o un aumento improvviso dello spread e l’allarme si diffonde nei media, generando panico nei governi e nei cittadini.

Questo meccanismo crea un ciclo perfetto:

  • Allarme: viene comunicato che “la situazione è grave” e che serve un intervento urgente.

  • Sacrificio: vengono imposti tagli, privatizzazioni e nuove tasse per “tranquillizzare i mercati”.

  • Ritorno alla calma apparente: lo spread scende, ma la struttura del debito rimane invariata.

  • Ripetizione: dopo qualche anno, o qualche mese, il ciclo ricomincia.

Il vero obiettivo non è risolvere la crisi, ma renderla cronica, così da avere un pretesto costante per mantenere il controllo e imporre politiche impopolari.

Il controllo delle risorse attraverso il debito

Il passo finale di questo schema è il più insidioso. Attraverso il debito, si possono mettere le mani sulle risorse strategiche di un Paese. Non parliamo solo di petrolio o gas, ma anche di acqua, infrastrutture, reti energetiche, porti e telecomunicazioni.

Quando uno stato è strozzato dagli interessi, le privatizzazioni diventano la soluzione “obbligata” per fare cassa. Ma privatizzare significa trasferire il controllo di beni pubblici a soggetti privati, spesso stranieri, che possono gestirli secondo logiche di profitto, non di interesse pubblico.

In questo modo il debito diventa il cavallo di Troia per smantellare la sovranità economica di un paese. E una volta cedute le risorse chiave, riprenderle è quasi impossibile senza uno scontro diretto con le stesse forze economiche e politiche che dettano le regole del gioco globale.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei