Come prepararsi a morire secondo il buddhismo tibetano (e perché serve anche ai vivi)

buddhismo tibetano

In una cultura che rimuove la morte, evitarla sembra diventata un’ossessione. Eppure, c’è un luogo dove da secoli non si cerca di sfuggirla, ma di comprenderla. I monasteri tibetani custodiscono un sapere millenario che non insegna solo a vivere, ma anche — e forse soprattutto — a morire.

Sì, hai letto bene: morire bene. Ma che significa esattamente?

Morire bene non è morire senza dolore. Non è nemmeno morire giovani, o in pace con tutti. L’“arte del morire”, nel buddhismo tibetano, è una competenza dell’anima, una conoscenza interiore che si coltiva per tutta la vita e che si affina come un’arte marziale dello spirito.

Perché, come afferma Socrate nel Fedone di Platone, la vera filosofia è un “esercizio di morte” — e per i monaci tibetani questa è una verità letterale!

L’antico sapere dei monasteri: il “Bardo Thodol”

Il libro sacro che racchiude questa sapienza si chiama Bardo Thodol, ed è conosciuto in Occidente come Il libro tibetano dei morti. Ma è un titolo fuorviante. Il Bardo Thodol non parla solo della morte: è una guida per i vivi che vogliono prepararsi a morire, e quindi a vivere con più consapevolezza.

Nel Bardo Thodol, l’esistenza è vista come una serie di stati di transizione, chiamati bardi. Ogni bardo rappresenta un momento particolare dell’esperienza della coscienza — non solo nella morte, ma anche nella vita.

1. Bardo della vita ordinaria (Kyenay bardo)

È il periodo che va dal concepimento fino al momento della morte. Qui la coscienza è legata a un corpo, vive nel mondo materiale, ed è immersa in sensazioni, pensieri, ed emozioni. È il “nostro” stato attuale. In questo bardo si semina il karma, si creano abitudini mentali, e si può iniziare il percorso spirituale. È il bardo più lungo, ma anche quello più illusorio.

2. Bardo del sogno (Milam bardo)

Si sperimenta durante il sonno, quando la mente è libera dal corpo fisico ma ancora attiva. I tibetani considerano questo bardo importantissimo: il modo in cui sogniamo anticipa la nostra esperienza nel dopo-morte. Per questo esiste una pratica chiamata “yoga del sogno”, in cui si cerca di diventare lucidi e consapevoli anche nei sogni.

Se non riesci a restare cosciente nei sogni, dicono i maestri, come farai a restarlo dopo la morte?

3. Bardo della meditazione (Samten bardo)

È lo stato che si raggiunge durante le meditazioni profonde, in cui il praticante si distacca dai sensi e percepisce la natura della mente. Alcuni dicono che questo bardo è come un’anteprima della realtà ultima in cui predominano silenzio, chiarezza, e vastità. Riconoscerlo in vita facilita immensamente il passaggio post-mortem.

4. Bardo del momento della morte (Chikhai bardo)

È l’istante della morte fisica, quando gli elementi del corpo si dissolvono uno a uno: terra, acqua, fuoco, aria, e spazio. Ogni dissoluzione produce esperienze interiori (visive, auditive, emotive). Alla fine, appare la “Chiara Luce”: la natura pura della mente, l’occasione suprema per la liberazione.

Ma per riconoscerla, bisogna esserci preparati: se la mente è confusa, la luce ci acceca; se è limpida, ci libera.

5. Bardo della realtà ultima (Chonyi bardo)

Subito dopo la morte, la coscienza entra in uno stato visionario. Si manifestano divinità pacifiche e irate, simboli delle energie interiori. Se il morente ha ricevuto insegnamenti, può riconoscere questi fenomeni come proiezioni della mente e “risvegliarsi”. Se invece è spaventato, resta intrappolato nel ciclo del desiderio e della rinascita.

6. Bardo del divenire (Sidpai bardo)

È lo stato intermedio tra la morte e la nuova nascita. Qui la coscienza cerca inconsciamente un nuovo corpo. Le tendenze karmiche decidono dove e come ci si reincarnerà. Se si mantiene lucidità anche in questo bardo, si può scegliere consapevolmente una rinascita favorevole — o addirittura evitare la rinascita.

In sintesi, i sei bardi non sono mondi a sé stanti,  ma stati della coscienza. Esistono in questa vita, nel sogno, nella meditazione e nella morte. Conoscerli significa imparare a muoversi con consapevolezza nella mente stessa, in ogni fase dell’esistenza.

La scienza dello spirito

Per i maestri tibetani, la mente al momento della morte si comporta in modo molto simile a come accade durante il sonno profondo o la meditazione avanzata. Ecco perché meditare è una preparazione alla morte. Allenarsi a osservare la mente senza identificarsi, restare presenti senza aggrapparsi, o lasciar andare sono tutte competenze fondamentali per affrontare quel passaggio misterioso e potentissimo che è la morte.

Il morente, secondo il Bardo Thödol, attraversa fasi progressive in cui:

  • perde i sensi fisici uno dopo l’altro,

  • sperimenta visioni interiori intense (divinità pacifiche o terrifiche),

  • incontra la “chiara luce della mente originaria”, che è il momento più importante per ottenere la liberazione.

Ma se non è preparato, viene travolto dalla paura, dall’attaccamento, e si reincarna in un nuovo ciclo di samsara.

In altre parole: la morte è un’occasione unica per la liberazione. Un’opportunità preziosa che però richiede presenza, lucidità, e allenamento.

I rituali nei monasteri

Il ruolo del monaco accompagnatore

Nei monasteri tibetani, la morte non è mai un fatto privato. Quando un monaco sta per morire, un altro monaco esperto lo accompagna, leggendo ad alta voce i passaggi del Bardo Thodol. Questo serve a guidare la coscienza del morente attraverso i passaggi interiori che si susseguono dopo l’ultimo respiro. È un po’ come un coach spirituale che ti guida in un territorio sconosciuto.

L’atteggiamento del monaco non è mai pietistico. Non c’è dramma e non c’è disperazione. È una presenza silenziosa, compassionevole, attiva, e ricca di lucidità assoluta. Il morente, in quel momento, non è un corpo che si spegne, ma una coscienza che viaggia. E come ogni viaggiatore, ha bisogno di indicazioni chiare.

Pratiche quotidiane per prepararsi alla morte

La preparazione alla morte nei monasteri comincia molto prima che si avvicini l’ultimo respiro. I monaci si allenano ogni giorno attraverso:

  • Meditazioni sulla morte: si riflette sulla transitorietà di tutto ciò che esiste. Il corpo, le emozioni, i pensieri — nulla è permanente.

  • Visualizzazioni dei bardi: si immaginano le fasi della morte, come un simulatore mentale. Questo riduce la paura e abitua la mente alla transizione.

  • Riti di purificazione: per sciogliere i nodi karmici e alleggerire il carico emotivo che potrebbe appesantire la coscienza.

  • Yoga del sogno e del sonno: tecniche avanzate per restare consapevoli anche mentre si dorme, anticipando le fasi post-mortem.

Queste pratiche hanno un solo scopo: trasformare la morte da nemica a maestra. Perché se impari a morire, impari anche a vivere — senza paura, senza attaccamento, e senza illusioni.

Perché in occidente ci fa così paura la morte?

Nel mondo moderno, soprattutto in Occidente, abbiamo costruito una cultura che fa di tutto per rimuovere la morte dal discorso pubblico.

Ma perché tutto questo terrore? Forse perché non sappiamo più chi siamo, né cosa ci sia dopo la fine del corpo. La scienza ci ha dato risposte potenti sulla biologia, ma ha lasciato un vuoto enorme sul senso della vita. E quando il senso manca, subentra la paura.

Le neuroscienze dicono qualcosa a riguardo?

Sì, qualcosa dicono. Studi recenti sull’attività cerebrale dei morenti hanno osservato picchi di coscienza e intensi stati percettivi anche dopo l’arresto cardiaco. Alcuni ricercatori ipotizzano che la mente — o meglio, la coscienza — possa esistere in una forma non ancora spiegabile dalla scienza.

E le esperienze di premorte (NDE)? Alcuni raccontano visioni simili a quelle descritte nel Bardo Thodol: tunnel di luce, incontri con esseri di pace, sensazione di espansione, e revisione della propria vita. Coincidenze? Suggestioni? Oppure frammenti di una realtà più ampia, che i maestri tibetani hanno esplorato da secoli?

Conclusioni

Allora forse dovremmo imparare dai tibetani. Dovremmo capire che morire bene è un’abilità, come nascere bene. E che coltivarla non significa essere ossessionati dalla fine, ma essere pienamente presenti nella vita.

Mi chiedo spesso: e se la vera libertà non fosse fare tutto ciò che vogliamo, ma essere pronti anche a lasciar andare tutto? Senza rimpianti, senza attaccamenti, e soprattutto con gratitudine?

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei