Perché il capitalismo è imperfetto, ma imbattibile?

Da oltre due secoli il capitalismo è al centro di un confronto acceso, spesso ideologico, in cui si scontrano visioni opposte: da una parte le accuse di ingiustizia sociale, avidità e sfruttamento, mentre dall’altra la convinzione che il libero mercato rappresenti uno dei motori fondamentali del progresso umano.
L’immagine che ne emerge è alquanto paradossale dato, che da una parte c’è un sistema economico visto dai critici come la causa di molti squilibri globali e, allo stesso tempo, ritenuto dai suoi sostenitori un generatore di prosperità, innovazione e libertà.
In questo dibattito, Frank S. Robinson, scrittore e giudice amministrativo statunitense, propone una difesa articolata del capitalismo, sostenendo che – pur con tutti i suoi limiti – il libero mercato rimanga la forma di organizzazione economica più efficace mai concepita.
L’autore non nega le imperfezioni del sistema, ma invita a osservarne il funzionamento reale, separando le distorsioni che emergono in alcune istituzioni finanziarie dal cuore produttivo dell’economia moderna.
Per farlo, Robinson recupera alcune intuizioni classiche – come quelle di Adam Smith – e le integra con argomenti contemporanei sulle dinamiche di mercato, la psicologia economica, il ruolo del consumatore e i processi di crescita.
Il risultato è un quadro complesso, che tenta di spiegare come il capitalismo sia in grado di coniugare razionalità, merito, competizione e benessere materiale, generando un sistema che, seppur imperfetto, risponde a bisogni umani profondi.
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ToggleIl punto di partenza: perché il libero mercato è sotto accusa
Secondo Robinson, la critica contemporanea al capitalismo si basa spesso su una visione caricaturale. Molti lo definiscono un “sistema marcio”, dominato dall’avidità, in cui pochi si arricchiscono sfruttando i molti.
Altri sostengono che il fallimento delle banche e delle istituzioni finanziarie dimostri l’inefficacia dell’intero modello economico. Parole come “corporate” e “capitalismo” vengono usate come accuse morali, quasi fossero sinonimi di ingiustizia.
L’autore invita però a distinguere tra:
L’economia reale, fondata sulla produzione di beni e servizi;
La finanza, che ha il compito di facilitare i flussi di denaro ma non coincide con il nucleo del capitalismo.
Questa distinzione è importante, dato che crisi finanziarie, speculazioni e cattiva gestione bancaria possono compromettere la stabilità economica, ma non rappresentano tutto il sistema.
Il vero motore, sostiene Robinson, rimane la capacità produttiva delle imprese, che operano in un contesto di libertà economica e competizione per soddisfare la domanda dei consumatori.
Adam Smith e l’eredità della “mano invisibile”
Robinson richiama inoltre, all’opera fondamentale di Adam Smith, La ricchezza delle nazioni (1776). Smith non idealizzava gli imprenditori – anzi, era ben consapevole della loro venalità – ma sosteneva tuttavia, che in un contesto di libero scambio, l’interesse personale potesse supportare pienamente il loro bisogno di fornire beni e servizi in modo efficiente.
Questa dinamica spontanea, spesso riassunta nella metafora della “mano invisibile”, permette alla società di prosperare senza un controllo centralizzato.
Oggi questa idea viene talvolta ritenuta ingenua, soprattutto alla luce delle scoperte della psicologia comportamentale, secondo cui le decisioni umane non sono sempre razionali.
Eppure, la teoria del libero mercato non richiede una razionalità perfetta: richiede soltanto che la libera scelta sia, nella maggior parte dei casi, più vantaggiosa dell’assenza di scelta. Il mercato funziona come un potente sistema informativo, capace di mettere in relazione milioni di decisioni individuali, coordinando produzione, prezzi e consumi.
Mercati imperfetti, ma superiori alle alternative
Robinson non nega che si verifichino talvolta, anche errori clamorosi. Le banche possono sopravvalutare prodotti finanziari rischiosi, i trader possono spingere al rialzo titoli destinati a crollare, e i governi possono accumulare debiti insostenibili, ma questi fenomeni non invalidano il principio generale: in un’economia di libero mercato, la ricerca del profitto induce un comportamento orientato all’efficienza.
Gli esempi non mancano. La Grecia, ricorda l’autore, nel corso della crisi del debito pubblico puntò il dito contro gli “speculatori”, ma molti trader anticiparono correttamente l’insolvenza del paese: lungi dall’essere irrazionali o malintenzionati, svolsero una funzione informativa cruciale, segnalando una fragilità reale.
Il punto, sottolinea Robinson, è che l’economia reale non si basa sulla speculazione, ma sulla produzione. Anche in presenza di fallimenti la maggior parte delle imprese opera razionalmente per soddisfare la domanda dei clienti nel modo più efficiente possibile. Questa dinamica non è stata smentita né dalla storia recente, e né dalle ricerche sulla psicologia economica.
Più libertà economica non significa assenza di regole
La critica secondo cui “i mercati non sono mai liberi” viene spesso utilizzata per screditare l’idea stessa di libero mercato. Ma, come osserva l’autore, non esiste alcuna attività umana completamente priva di regole: anche gli aspetti più banali della vita quotidiana sono disciplinati da norme – dal codice stradale alle leggi contro i reati.
Allo stesso modo, l’attività economica richiede una cornice regolatoria per funzionare correttamente. Il punto non è abolire le regole, ma creare un sistema che:
Assicuri la concorrenza, evitando una qualsiasi formazione di monopolio;
Tuteli la libertà d’impresa, impedendo che alcuni attori impongano condizioni distorsive;
Mantenga aperte le opportunità per nuovi entranti e innovatori;
Protegga i consumatori, garantendo qualità, trasparenza e sicurezza.
In quest’ottica, paradossalmente, le regolazioni più efficaci non limitano la libertà del mercato, ma la preservano. È quando il governo si sostituisce ai meccanismi competitivi, proteggendo specifici settori o aziende, che il mercato perde la sua forza propulsiva.
L’esempio della Francia e la paura della concorrenza
Robinson cita un caso emblematico: in Francia, numerose leggi limitano la concorrenza, persino con norme che impediscono riduzioni dei prezzi oltre una certa soglia. L’idea alla base di queste misure è che la competizione sia “dura” e che l’alternativa sia una forma di solidarietà sociale.
Il risultato, però, è paradossale: i prodotti francesi finiscono per costare meno in Germania che in patria. Una regolazione pensata per proteggere le imprese nazionali finisce per danneggiare i consumatori, riducendo qualità e accessibilità.
Questo esempio mostra chiaramente come un intervento pubblico mal calibrato possa distorcere il mercato e ridurre il benessere collettivo.
Consumismo o espressione della nostra identità?
Uno dei bersagli principali della critica anticapitalista è il cosiddetto “consumismo materialista”, spesso accusato di manipolare i desideri delle persone e di alimentare una cultura superficiale, orientata solo al possesso.
Robinson, invece, sostiene che l’acquisto di beni e servizi non rappresenti un semplice accumulo di oggetti inutili, ma risponda a bisogni profondi.
Questa idea viene sviluppata anche da Howard Bloom nel libro The Genius of the Beast (2009), dove l’autore analizza la psicologia dei consumi come una forma di comunicazione sociale. Secondo Bloom:
I nostri acquisti non sono casuali,
Rispecchiano bisogni emotivi e identitari,
Rispondono al nostro desiderio di appartenenza, riconoscimento e distinzione.
In questa prospettiva, il consumo non è un semplice impulso irrazionale, ma parte integrante della vita sociale umana.
I consumi come risposta ai bisogni reali
Robinson sottolinea che, se pensiamo alle nostre spese, la maggior parte non riguarda “cose inutili”, ma beni e servizi essenziali, quali alimentazione, salute, istruzione, trasporti, comunicazione, cura della casa, e tecnologie che ci semplificano la vita.
La critica al consumismo, aggiunge, spesso convive con un’altra denuncia: la povertà impedirebbe ai più svantaggiati di accedere proprio a quel livello di benessere che si critica quando è posseduto da altri.
Inoltre, l’economia dei consumi genera posti di lavoro. Ogni bene prodotto – un telefono, un vestito, un’automobile – richiede competenze, infrastrutture e servizi. Senza un mercato dinamico, molte delle professioni su cui si basa la società moderna non esisterebbero.
La ricchezza moderna e il confronto storico
È facile dare per scontato il benessere contemporaneo: case riscaldate, servizi sanitari avanzati, alimentazione abbondante, mobilità internazionale, nonché intrattenimento praticamente illimitato.
Eppure, ricorda Robinson, per gran parte della storia umana la vita era, come scrisse Thomas Hobbes nel Leviatano (1651), “povera, sgradevole, brutale e breve”.
Il balzo storico che ci ha portato dal mondo agricolo a quello industriale, e poi a quello digitale, è stato alimentato dal libero mercato. Nel corso del novecento, il reddito reale medio globale è aumentato di cinque volte, e la qualità della vita si è trasformata radicalmente.
Non sono state le economie pianificate a generare questo progresso, ma le dinamiche competitive e imprenditoriali proprie del capitalismo.
La crescita economica come via d’uscita dalla povertà
Un’altra critica diffusa riguarda la crescita economica: secondo alcuni, sarebbe il frutto di un desiderio eccessivo di accumulo, un impulso di cui potremmo fare a meno in nome di uno stile di vita più “semplice” e sostenibile.
Robinson ribalta completamente questa prospettiva: per chi vive in condizioni di disagio, la crescita non è un capriccio, ma la principale via d’uscita dalla povertà.
Secondo l’autore:
Ogni punto percentuale di crescita riduce la povertà del 2%;
Negli ultimi vent’anni, un miliardo di persone è uscito dalla povertà estrema;
Non esistono alternative realistiche alla crescita economica per migliorare le condizioni dei più deboli.
La crescita, dunque, non è soltanto un indicatore economico, ma rappresenta un valore umano profondo, capace di restituire dignità, autonomia ed opportunità.
La crescita e il benessere collettivo
Robinson invita a non confondere la critica legittima agli eccessi del capitalismo con una condanna della crescita in sé. Una società più prospera infatti, possiede più risorse da investire in:
Welfare,
Istruzione,
Sanità,
Infrastrutture,
Ricerca scientifica,
Politiche di inclusione sociale.
Il paradosso, sottolinea l’autore, è che alcune forme di anticapitalismo auspicano una società più egualitaria ma, allo stesso tempo, svalutano il meccanismo che storicamente ha generato i progressi più evidenti nella riduzione della povertà.
La competizione come motore di libertà
Nell’immaginario comune, la competizione economica viene spesso associata a rivalità spietata, precarietà del lavoro e tensioni sociali. Robinson propone una lettura diversa: la concorrenza è una condizione indispensabile affinché il capitalismo funzioni come un sistema aperto e dinamico.
In un ambiente competitivo, nessuna impresa può sedersi su posizioni di rendita. Nuovi prodotti, idee e servizi entrano continuamente nel mercato, offrendo alternative ai consumatori e stimolando innovazione.
Questa visione è legata al concetto di “distruzione creativa”, formulato dall’economista Joseph Schumpeter. Secondo Schumpeter, ogni innovazione rimescola l’ecosistema economico, favorendo alcune imprese e mettendone in crisi altre.
Non si tratta di una violenza gratuita, ma di un processo naturale, simile a quello biologico: come in un ecosistema, l’arrivo di un nuovo predatore modifica gli equilibri, creando nuove opportunità e selezionando le soluzioni più efficaci.
È questo continuo ricambio che evita la stagnazione, garantendo ai consumatori prodotti migliori, e all’economia di adattarsi a bisogni che cambiano nel tempo.
La concorrenza limita il potere delle imprese
Uno degli argomenti più usati contro il capitalismo riguarda il potere delle multinazionali e la loro presunta capacità di controllare i mercati. Tuttavia, Robinson non è affatto d’accordo con questa analisi, dato che secondo lui in un mercato realmente libero, sono le imprese stesse a limitarsi a vicenda.
L’unico contesto in cui un’azienda acquisisce un potere dominante e duraturo è quello in cui le regole pubbliche impediscono l’ingresso di concorrenti, attraverso protezioni legali, privilegi fiscali o barriere amministrative.
Al contrario, quando il mercato è aperto a tutti:
Nessuna impresa può mantenere a lungo un monopolio;
I consumatori hanno voce diretta attraverso le loro scelte;
Le aziende devono innovare per sopravvivere.
È l’intervento distorsivo dello Stato – protezionismo, sussidi di privilegio, limitazioni di accesso – a generare concentrazioni di potere economico. È proprio la concorrenza che preserva lo spirito democratico dell’economia.
Il valore del profitto: un concetto frainteso
Un altro bersaglio ricorrente delle critiche al capitalismo è il profitto, spesso presentato come sinonimo di avidità.
Robinson invita a distinguere tra desiderio legittimo di migliorare la propria condizione e sfruttamento degli altri. Il profitto, di per sé, non è immorale, dato che è lo strumento che consente alle imprese di sopravvivere, crescere e innovare.
Un sistema economico senza profitto sarebbe impossibile da sostenere, perché priverebbe gli individui e le aziende di un incentivo fondamentale.
In tutte le attività umane, dal piccolo commercio fino ad arrivare alla grande industria, il profitto rappresenta il riconoscimento che il tempo, lo sforzo e il rischio investiti producono valore.
Come ricordava Adam Smith, non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che otteniamo il nostro pranzo, ma dalla loro attenzione al proprio interesse. Se produrre pane o birra non permettesse di sostenere un guadagno, quei servizi semplicemente non esisterebbero.
Il profitto come forma di servizio
Robinson sottolinea inoltre, che la confusione tra profitto ed avidità deriva dalla percezione che il guadagno di qualcuno implichi inevitabilmente il danno di qualcun altro, ma nella logica dello scambio volontario, entrambi i soggetti traggono un vantaggio: il consumatore ottiene un bene o un servizio che considera utile, mentre il venditore riceve un compenso che gli consente di continuare a produrre.
In questo senso, il profitto è:
Un meccanismo che segnala quali prodotti sono richiesti;
Un incentivo a innovare e migliorare l’offerta;
Una società che demonizza il profitto finisce per minare le basi della prosperità collettiva. Senza la possibilità di generare un ritorno, nessuna impresa rischierebbe capitale per lanciare nuovi prodotti o servizi.
Le critiche morali e il confronto con altri sistemi
Molti critici affermano che il capitalismo alimenti comportamenti immorali – inganni, manipolazioni, e corruzione. Robinson non nega che tali episodi possano verificarsi, ma sottolinea che nessun sistema economico è in grado di eliminarli completamente.
Al contrario, sistemi alternativi come il fascismo, il socialismo e il comunismo hanno spesso prodotto forme di corruzione molto più pervasive, senza generare i benefici economici tipici del mercato.
Inoltre, anche la politica democratica, pur essendo uno dei pilastri della società moderna, può spingere gli individui a scendere a compromessi morali.
Il problema, dunque, non è il capitalismo, ma la natura umana. E se gli esseri umani non sono perfetti, un sistema economico che si basa sulla libertà e sulla concorrenza è quello che, storicamente, ha funzionato meglio nel contenere gli abusi e promuovere il benessere collettivo.
L’economia come scambio e diffusione delle idee
Nel cuore del capitalismo c’è un concetto semplice e potente: lo scambio. Quando due persone commerciano volontariamente, entrambe guadagnano qualcosa che considerano più utile.
Questo processo, moltiplicato per milioni di individui, produce un effetto straordinario: la società diventa più ricca e diversificata.
Il commercio:
Favorisce la specializzazione,
Aumenta la produttività,
Accelera la diffusione delle idee.
Robinson cita il libro di Matt Ridley, The Rational Optimist (2010), che paragona il commercio economico alla riproduzione sessuale nel mondo biologico: la combinazione di idee diverse genera innovazioni più efficienti e soluzioni più adattive. Il risultato è un ciclo continuo di progresso.
Il mercato come scuola di virtù
Secondo l’autore, una società di libero mercato non promuove solo efficienza economica, ma anche valori morali, come:
Fiducia reciproca,
Senso di responsabilità,
Cooperazione,
Creatività,
Capacità di lungo termine.
In un sistema basato sullo scambio volontario, trattare correttamente gli altri è vantaggioso, dato che la reputazione diventa un capitale prezioso.
Le imprese che ingannano i consumatori o che non mantengono le promesse vengono penalizzate dal mercato, mentre chi offre valore reale prospera.
In questo senso, il capitalismo non premia la semplice avidità, ma la capacità di generare beneficio per gli altri, ed è proprio servendo gli altri – offrendo loro qualcosa che desiderano o di cui hanno bisogno – che individui e aziende ottengono la propria ricompensa.
Il mercato come spazio di libertà e dignità
Uno degli aspetti più sottovalutati del capitalismo è il suo legame profondo con la libertà individuale. Nel libero mercato, afferma Robinson, gli individui hanno la possibilità di cercare la propria prosperità secondo percorsi personali, scegliendo professioni, imprese, consumi e stili di vita in modo autonomo.
Le alternative storiche a questo sistema hanno spesso richiesto forme di coercizione, come pianificazione centrale, limitazioni delle scelte, nonché restrizioni alla proprietà privata.
La libertà economica non riguarda solo l’interesse materiale. Come sostenne il filosofo Hegel, l’essere umano cerca nella propria vita anche il riconoscimento, la dignità e l’autostima.
Il lavoro, la creatività e l’imprenditorialità rappresentano uno spazio in cui le persone possono esprimere sé stesse, acquisire competenze, costruire relazioni e ottenere una posizione nella società. Il capitalismo non inventa questi desideri, ma li canalizza.
Mercato e democrazia: un rapporto molto profondo
Secondo Robinson, esiste una correlazione robusta tra libero mercato e sistemi democratici. Come ricordava The Economist in un articolo del 2010, la democrazia non ha mai attecchito in paesi con economie non di mercato.
Il motivo è semplice: dove esiste un’unica fonte di potere – politico ed economico insieme – non c’è spazio per un pluralismo reale. I centri di potere alternativi, che in una democrazia si distribuiscono tra istituzioni, imprese, media, società civile e individui, vengono soffocati.
Un’economia di mercato, al contrario, crea un mosaico di attori indipendenti, che comprende imprese, professionisti, lavoratori autonomi, organizzazioni sociali, e innovatori.
Questa pluralità rende più difficile la concentrazione del potere e costituisce una forma di “controllo reciproco”, spesso invisibile ma essenziale per l’equilibrio democratico.
Il timore del potere delle multinazionali
Uno dei timori più diffusi è che le grandi aziende possano esercitare un potere eccessivo, influenzando governi e opinione pubblica. Robinson invita a una riflessione: chi teme l’influenza delle grandi imprese dovrebbe temere ancor di più la concentrazione di potere politico.
Il rischio reale non è la presenza di molte entità economiche forti, ma la fusione tra potere politico ed economico in un’unica struttura, come in molte economie autoritarie del passato.
In un mercato competitivo, anche i giganti possono essere sfidati. La storia recente lo dimostra: aziende dominanti nel loro settore sono state sorpassate da nuove realtà innovative nate in garage o piccoli uffici. Il capitalismo moderno è pieno di queste storie, che mostrano come il potere economico sia meno stabile di quanto sembri.
La disuguaglianza: il nodo più controverso
La critica più frequente al capitalismo riguarda la disuguaglianza economica. Molti ritengono che un sistema basato sulla competizione produca inevitabilmente squilibri insostenibili, dove alcuni accumulano ricchezze enormi mentre altri faticano a soddisfare anche i bisogni più essenziali.
Robinson affronta il tema chiarendo una distinzione fondamentale: povertà e disuguaglianza non sono la stessa cosa.
La povertà è un problema concreto, che limita la vita delle persone, mentre la disuguaglianza, invece, è una differenza di condizioni. Eliminare la disuguaglianza non significa necessariamente eliminare la povertà. Esistono società in cui tutti sono poveri in maniera più equa; non per questo sono preferibili a società dove la ricchezza complessiva è maggiore, anche se distribuita in modo non uniforme.
La ricchezza non è un bene a somma zero
Una convinzione diffusa è che la ricchezza di alcuni si formi a spese di altri, come se nel mondo esistesse una quantità fissa di risorse. In questa visione, ogni dollaro posseduto da un ricco sarebbe un dollaro sottratto a un povero, ma il capitalismo, sottolinea Robinson, ha dimostrato che la ricchezza è espandibile: nasce dalla produttività, dall’innovazione, e dalla creazione di valore.
Nella dinamica moderna:
La maggior parte dei guadagni deriva dalla produzione di beni e servizi;
La ricchezza tende ad aumentare per l’intera società;
Le economie capitaliste hanno ridotto la povertà più di qualsiasi altra alternativa conosciuta.
La crescita del benessere materiale degli ultimi due secoli è stata possibile proprio perché il capitalismo ha trasformato il lavoro umano in valore crescente, ampliando la “torta economica” da cui tutti possono trarre beneficio.
Il mito della ricchezza come sfruttamento
Robinson critica anche l’idea, sostenuta da alcuni autori come Rob Buitenweg, secondo cui la ricchezza deriverebbe sempre da abuso, manipolazione o forza.
È un’interpretazione che ignora la realtà concreta di come la maggior parte delle persone – incluse quelle relativamente benestanti – guadagna il proprio reddito: attraverso lavoro, servizi, competenze e creazione di valore.
È vero che il potere economico può portare a comportamenti scorretti, ma il capitalismo offre un antidoto naturale: la concorrenza. Se un’azienda approfitta dei clienti, un concorrente può intervenire offrendo un servizio migliore o più economico.
Questo meccanismo rende il potere economico più fluido e controllabile rispetto al potere politico, che spesso non può essere sfidato così facilmente.
Giustizia sociale: tra ideali e limiti pratici
Il linguaggio della “giustizia sociale” è oggi molto diffuso, ma Robinson invita a usarlo con cautela.
Una parte della povertà è causata da ingiustizie, ma un’altra deriva da sfortuna, scelte sbagliate o circostanze fuori dal controllo individuale. Aiutare i poveri è un imperativo umano, indipendente dalla colpa.
Il problema nasce quando la giustizia sociale viene intesa come redistribuzione radicale della ricchezza, senza considerare gli effetti sul sistema produttivo.
Robin Hood funziona nelle fiabe, ma non nei sistemi economici complessi. Se si penalizzano eccessivamente i più produttivi, si riduce la capacità della società di generare ricchezza e benessere.
Redistribuire cosa? Ricchezza o opportunità?
Secondo Robinson, la sfida non è distribuire ciò che è già stato prodotto, ma distribuire la capacità di produrre: opportunità, educazione, strumenti, nonché libertà di iniziativa.
Le società capitaliste avanzate, infatti, offrono alla maggior parte della popolazione un tenore di vita dignitoso, impensabile in quasi tutte le epoche storiche.
L’obiettivo non dovrebbe essere livellare i risultati, ma garantire a tutti la possibilità di competere. Eliminare le disuguaglianze naturali significa frenare i talenti più capaci, riducendo l’innovazione e rallentando lo sviluppo.
Una società più giusta, sostiene Robinson, è quella in cui chi contribuisce di più ottiene di più, e in cui la prosperità nasce dalla libertà di iniziativa anziché dalla pianificazione collettiva.
Il “velo dell’ignoranza” e la teoria della giustizia di Rawls
Il filosofo John Rawls propose uno degli argomenti più influenti a favore dell’uguaglianza: se dovessimo scegliere le regole della società senza sapere quale posizione occuperemo, opteremmo per un sistema molto egualitario, per evitare il rischio di nascere tra i più svantaggiati.
Robinson contesta questa interpretazione. Secondo lui, molti sceglierebbero una società dinamica, con alte probabilità di prosperità complessiva, anche a costo di correre un rischio individuale più elevato. La libertà di migliorare la propria condizione può essere considerata un valore più grande dell’assenza totale di rischio.
Il punto non è eliminare le differenze, ma garantire regole equivalenti per tutti. Un campo da gioco equo significa che le regole siano le stesse, e non che i risultati debbano esserlo.
La qualità della vita, oltre la pura uguaglianza
Robinson invita a spostare il focus, dalla disuguaglianza alla qualità assoluta della vita.
Il capitalismo permette di “allargare la torta”, consentendo ai poveri di ottenere di più senza dover sottrarre risorse ai più ricchi. Una società con una torta più grande – maggiore ricchezza generata – può investire di più in welfare, istruzione ed inclusione.
Secondo questa prospettiva, esiste più giustizia in un sistema che premia il merito e la produttività che in uno che livella artificialmente i risultati. La vera domanda morale è: una società che redistribuisce ciò che altri hanno guadagnato è davvero più giusta di una che premia il contributo personale?
Il capitalismo tra limiti, imperfezioni ed aspettative
Dopo aver difeso il libero mercato dalle critiche più frequenti, Robinson affronta un punto essenziale: il capitalismo non è un sistema perfetto.
Non lo è mai stato e non potrà mai esserlo. Ogni modello economico deve fare i conti con la natura umana, che include errori, egoismi, irrazionalità ed imperfezioni. Pensare di costruire un sistema che elimini completamente questi limiti è, secondo l’autore, un’illusione pericolosa.
Le grandi utopie del novecento – il comunismo sovietico, il maoismo, i regimi fascisti – hanno cercato di sostituire il mercato con una pianificazione totale, nella convinzione di poter creare una società giusta attraverso il controllo centralizzato.
Il risultato è stato fallimentare: stagnazione economica, perdita di libertà, inefficienza diffusa e, in molti casi, una gravissima oppressione politica.
Il capitalismo, pur con i suoi difetti, ha un vantaggio decisivo: accetta la realtà dell’imperfezione umana e cerca di incanalarla verso risultati produttivi.
Contraddizioni reali e contraddizioni immaginate
Una critica ricorrente sostiene che il capitalismo sia pieno di “contraddizioni interne” che ne provocheranno il collasso: disuguaglianze crescenti, tensioni sociali, nonché conflitti tra capitale e lavoro.
Robinson ribatte che l’unica vera contraddizione è, paradossalmente, la sua forza: la ricerca dell’interesse personale produce benefici collettivi.
È un paradosso che Adam Smith aveva già individuato: quando gli individui cercano di migliorare la propria condizione, finiscono per creare valore anche per gli altri.
Gli imprenditori non producono innovazione per altruismo, ma per profitto; tuttavia, questa loro ricerca offre ai consumatori prodotti migliori e prezzi più bassi. La competizione, pur essendo un confronto tra imprese, premia sempre la società nel suo insieme.
La vera contraddizione, per Robinson, sta invece nei modelli alternativi: voler creare giustizia sociale sottraendo alle persone ciò che hanno guadagnato con il proprio lavoro non solo è discutibile moralmente, ma si traduce in un impoverimento generale.
Perché non esiste un sistema economico perfetto
Robinson invita a una riflessione di realismo politico: tutti i sistemi economici comportano perdite e compromessi. Non è possibile costruire un ordine sociale in cui ad ogni individuo venga garantito la possibilità di non rischiare.
Ogni tentativo di eliminare le imperfezioni del mercato attraverso il controllo totale ha generato, nella storia, conseguenze molto peggiori.
Nel capitalismo:
Alcuni falliscono,
Altri prosperano,
Le imprese nascono e muoiono,
Le crisi fanno parte del ciclo economico.
Ma, nonostante queste oscillazioni, la tendenza storica è chiara, dato che abbiamo assistito grazie a questo modello economico al progresso tecnologico, all’aumento dell’aspettativa di vita, alla riduzione della povertà estrema, nonché alla moltiplicazione delle opportunità.
Sono risultati difficili da spiegare senza riconoscere il ruolo centrale della libertà economica.
Il costo dell’utopia
Le utopie politiche hanno sempre promesso un mondo perfetto, libero da disuguaglianze, ingiustizie e conflitti, ma ogni tentativo concreto di realizzarle ha comportato costi immensi.
L’idea di poter plasmare l’intera società attraverso un progetto razionale e centralizzato ignora la complessità dei comportamenti umani e la diversità dei desideri.
La ricerca dell’utopia, scrive Robinson, ha prodotto “fiumi di sangue e lacrime”. Al contrario, accettare una società imperfetta ma migliorabile, guidata dalla libertà economica e dalla competizione, consente un progresso più concreto e sostenibile.
Il capitalismo come “il massimo che si possa ottenere”
L’autore conclude la sua analisi con una posizione netta: il capitalismo non è perfetto, ma rappresenta il miglior sistema economico compatibile con la natura umana e con la complessità delle società contemporanee.
Per Robinson:
Accettare l’imperfezione è un atto di maturità politica;
Il libero mercato è un sistema aperto, in cui individui diversi possono prosperare;
La concorrenza limita gli abusi e stimola l’innovazione;
Le alternative hanno sempre portato a risultati inferiori, sia in termini economici, e sia in termini di libertà.
La ricerca di un sistema senza difetti è destinata al fallimento. L’unica strada realistica consiste nel migliorare il funzionamento del capitalismo attraverso riforme mirate, evitando sia l’eccesso di regolazione sia la sua totale assenza.
Conclusione
Robinson non invita all’immobilismo. Anzi, riconosce che il capitalismo può essere reso più equo, più efficiente e più sostenibile. Tra le possibili riforme cita:
Regolamentazioni intelligenti che evitino sia eccessi speculativi sia barriere anticoncorrenziali;
Politiche fiscali che sostengano i più vulnerabili senza penalizzare l’iniziativa;
Investimenti in istruzione, innovazione e infrastrutture per ampliare la produttività;
Strumenti di mercato che incentivino comportamenti socialmente responsabili.
Il punto cruciale, però, è che questi interventi devono rispettare la logica di base del mercato. L’obiettivo non è sostituire il capitalismo, ma migliorarne i meccanismi, rendendo la concorrenza più sana e le opportunità più accessibili.














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