Upward e Downward Comparison: due modi diversi di motivarsi. Quale funziona meglio per te?
Ti è mai capitato di sentirti motivato osservando qualcuno che, pur avendo una vita molto più difficile della tua, riesce comunque ad andare avanti?
Magari ti sei detto “se ce l’ha fatta lui con tutti i suoi problemi, allora posso farcela anch’io”. Non è cattiveria, né insensibilità, ma un meccanismo psicologico molto più comune di quanto puoi immaginare.
La maggior parte dei guru insiste sul motivarti esclusivamente usando frasi da “maschio alfa”, video di persone che ce l’hanno fatta, nonché usare testimonianze di quelli che hanno avuto grandi risultati.
La verità è che la forza non nasce sempre dall’ammirazione per chi ce l’ha fatta. A volte nasce guardando chi, pur immerso nel fango, continua a resistere. È proprio in quella resistenza silenziosa che troviamo il coraggio di non arrenderci.
Le due strade della motivazione
Gli psicologi parlano di due percorsi principali:
Confronto verso l’alto ( Upward Comparison ): Osservo chi ha raggiunto grandi traguardi. Da qui nasce ispirazione, spinta e voglia di migliorare, ma seguire unicamente questa tipologia di motivazione può aumentare il rischio di diventare frustrati e inadeguati.
Confronto verso il basso ( Downward Comparison ): Osservo chi ha più difficoltà di me. Questo non significa ridere delle disgrazie altrui. Significa sentire che, se qualcuno affronta una condizione peggiore e non si arrende, allora io posso continuare la mia battaglia. È un meccanismo di resilienza che, se vissuto con empatia, può diventare una risorsa preziosa, soprattutto nei momenti difficili.
Perché la Downward Comparison funziona davvero?
Il primo a studiare in profondità questi meccanismi fu lo psicologo Leon Festinger, che negli anni ’50 formulò la celebre teoria del confronto sociale. Secondo lui gli esseri umani hanno un impulso quasi istintivo a confrontarsi con gli altri per valutare se stessi.
È un po’ come se lo specchio non ci bastasse e avessimo bisogno di “specchi viventi” intorno a noi per capire chi siamo, quanto valiamo e come stiamo.
In questo contesto, il confronto verso il basso assume una funzione protettiva, in quanto svolge la delicatissima funzione di salvaguardare la nostra autostima nei momenti più duri.
È come se dicessimo a noi stessi: “non sono solo, e non sono nemmeno nella situazione peggiore possibile”. Non è un pensiero di superiorità, ma un modo per riportare equilibrio dentro di sé quando la realtà sembra troppo pesante.
ECCO UN ESEMPIO: Immagina una persona che ha appena perso il lavoro. In quel momento può sentirsi crollare il mondo addosso, ma se si confronta con chi, oltre ad aver perso l’occupazione, deve anche affrontare una grave malattia, può scattare un pensiero di sollievo: “la mia condizione è difficile, ma non disperata. Posso ancora rialzarmi, non tutto è perduto”.
Questo confronto non cancella il dolore, ma lo rende più gestibile, restituendo un margine di speranza. In questo caso, il downward comparison funziona come una valvola di sicurezza psicologica, in quanto ci permette di ricalibrare la percezione dei nostri problemi e di recuperare un po’ di forza quando rischiamo di soccombere.
Quale tipo di motivazione sembra funzionare meglio?
Upward comparison
Uno studio del 1997 ha mostrato che guardare modelli vincenti può essere estremamente motivante, ma solo se la persona percepisce il traguardo come raggiungibile.
Esempio: una studentessa di medicina può sentirsi motivata vedendo una grande dottoressa affermata, ma se la distanza tra di loro sembra troppo grande, scatta l’effetto opposto e la stessa studentessa di medicina che prima era ben motivata, adesso potrebbe sviluppare segnali di frustrazione e inadeguatezza.
Effetto ispirazionale: Quando c’è affinità tra chi osserva e chi viene osservato, il confronto verso l’alto stimola impegno, crescita e desiderio di migliorare.
Downward comparison
Uno studio di Wills (1981) introdusse l’idea del downward comparison come meccanismo di difesa: chi si sente minacciato nella propria autostima tende a confrontarsi con chi sta peggio per sentirsi meglio.
Esempio: Un paziente oncologico che si confronta con altri pazienti in condizioni più gravi può trovare speranza e forza nel pensare “io ho ancora margini di miglioramento”.
Funzione protettiva: Qui lo scopo finale non è tanto migliorare, ma resistere. È un carburante che serve soprattutto nei momenti di crisi.
Secondo uno studio del 2015 pubblicato su Personality and Social Psychology Bulletin, il confronto verso l’alto è più efficace quando l’obiettivo è crescere e migliorare, mentre il confronto verso il basso è più efficace quando occorre ridurre l’ansia e proteggere la propria autostima.
In pratica, se vuoi “fare di più” ti serve un modello vincente. Se invece vuoi solo “non crollare”, ti serve qualcuno che ti faccia pensare che la tua situazione è gestibile.
Il segreto è saper cambiare tipo di motivazione al momento giusto
Facciamo un esempio concreto. Immagina di voler aprire un sito di e-commerce e di voler aumentare clienti e visitatori. All’inizio sei carico di entusiasmo, studi ogni strategia, metti in pratica tutto quello che impari e ti senti pronto a conquistare il mondo.
In questa fase la motivazione verso l’alto è tua alleata: guardi chi ce l’ha fatta prima di te, osservi i grandi imprenditori digitali e pensi “se loro ci sono riusciti, perché non dovrei riuscirci anch’io?”. Questo tipo di confronto ti dona energia extra e ti spinge ad alzare l’asticella.
Tuttavia il percorso non è mai lineare. Arriveranno momenti in cui incontrerai ostacoli, errori, giornate senza vendite, e ti sembrerà di lavorare a vuoto. In questi momenti il rischio di mollare tutto o di cadere nella procrastinazione è altissimo.
È qui che entra in gioco la motivazione verso il basso. Guardare chi è in situazioni più difficili della tua, o chi non ha nemmeno iniziato, rimodella la tua paura.
Prima pensavi, che nulla avrebbe potuto migliorare la tua situazione, poi ti accorgi che c’è chi affronta sfide più grandi, magari con meno strumenti, eppure decide di non rinunciare.
Allora scatta una nuova consapevolezza: “se loro continuano nonostante tutto, io non ho davvero motivo di arrendermi!”.
In pratica, l’upward comparison ti serve per partire e crescere, mentre il downward comparison ti sostiene quando vacilli. Sono due facce della stessa medaglia che, se usate al momento giusto, possono fare la differenza tra abbandonare un progetto o portarlo fino al successo.
Confronto verso l’alto
Più forte per stimolare ambizione, crescita e performance.
Rischio: frustrazione e confronto tossico se il traguardo sembra irraggiungibile.
Confronto verso il basso
Più forte per proteggere autostima e resistere nei momenti difficili.
Rischio: compiacenza o apparente cinismo se usato senza empatia.
Il confine morale da non sorpassare nel downard Comparison
Tuttavia, a questo punto, sorge spontanea una domanda che non possiamo ignorare. Dove finisce la motivazione e dove inizia il cinismo?
Il confine è sottile e spesso invisibile a occhio nudo. Da un lato, c’è chi trae forza dall’esempio di resilienza. È la persona che osserva chi soffre e pensa: “se riesce a non mollare, allora posso resistere anch’io”. In questo caso il dolore altrui non viene minimizzato né strumentalizzato, ma riconosciuto con rispetto. È come se l’altro diventasse un testimone silenzioso della nostra possibilità di farcela.
Dall’altro lato, però, esiste un atteggiamento molto diverso. Alcuni non si limitano a sentirsi rafforzati, ma provano addirittura piacere per le disgrazie altrui. Non a caso, i tedeschi hanno coniato una parola precisa per definirlo: schadenfreude, che letteralmente significa “gioia del danno”. Qui non c’è gratitudine, ma solo puro compiacimento. Non c’è empatia, ma un senso di superiorità che si nutre delle cadute altrui.
La differenza è sottile ma fondamentale. Non è il semplice guardare chi sta peggio a definire la moralità del confronto. È il sentimento con cui lo si fa.
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Empatia e gratitudine trasformano l’osservazione in un sostegno. Guardare la resilienza degli altri diventa allora un atto di riconoscimento e persino di umiltà. È come dire: “ti vedo, vedo la tua forza nonostante il dolore, e questo mi aiuta a credere che anche io posso resistere”.
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Disprezzo o senso di superiorità, invece, avvelenano lo stesso meccanismo. In quel caso non si cerca forza, ma conferma del proprio “essere migliori”. È un confronto che non guarisce, ma logora, poiché alimenta la separazione invece della solidarietà.
Ecco un esempio che aiuta a chiarire. Pensiamo a due persone che vedono un senzatetto per strada. La prima prova compassione e riflette: “se lui riesce a sopravvivere con così poco, allora io posso gestire le mie difficoltà economiche”. In questo caso nasce una motivazione accompagnata da rispetto.
La seconda, invece, pensa: “per fortuna non sono ridotto così male” e prova un piacere nascosto nel sentirsi superiore. Stesso stimolo, ma due conseguenze emotive opposte.
Ecco perché il confronto verso il basso non è di per sé né buono né cattivo. Diventa positivo o negativo a seconda dell’uso che ne facciamo. È come una medicina: a dosi giuste e con le giuste intenzioni può curare, ma se assunta nel modo sbagliato può trasformarsi in veleno.
Quale tipo di motivazione funziona meglio per non mollare?
Non tutti reagiamo allo stesso modo. Alcuni traggono forza dai “vincitori”, modelli luminosi che sembrano irraggiungibili ma che accendono l’ispirazione. Altri invece guardano ai “sopravvissuti”, persone che, pur senza medaglie, dimostrano che resistere è possibile.
Possiamo seguire entrambe le strade, dato che ci raccontano verità diverse.
Io stesso mi sono accorto che, nei momenti più bui, non è stato il campione a motivarmi, ma chi seppur ferito, ha continuato a lottare per i suoi sogni.
Conclusione
Alla fine, non conta da dove prendi la forza, ma conta che tu la trovi. Conta che tu riesca a non fermarti.
Perché la resilienza non ha un solo volto. Può essere l’eroe che conquista il podio, ma anche l’anonimo che, nonostante tutto, non smette di camminare.



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