Gerontocrazia climatica: Chi decide sul clima non vivrà le conseguenze sulla sua pelle

Immagina di essere su un autobus che corre verso un precipizio. I freni ci sono, ma chi guida non li usa. Non perché sia malvagio, ma perché sa che scenderà prima dell’impatto.
Questo è, in sostanza, il dramma nascosto dietro l’inazione climatica. Un conflitto silenzioso ma potentissimo tra chi decide e chi subirà.
L’età media dei leader globali è oggi tra le più alte di sempre. Donald Trump ne ha 79. Xi Jinping, 72. Christine Lagarde, 69. Ursula von der Leyen, 66. Vladimir Putin, 72.
È come se il consiglio d’amministrazione del pianeta fosse diventato una riunione dell’INPS globale.
Naturalmente, non si tratta di fare ageismo. Non è l’età in sé il problema, ma il fatto che, in media, più si invecchia, meno si ha un incentivo biologico, emotivo e psicologico a preoccuparsi del lungo termine. E il cambiamento climatico, purtroppo, è tutto fuorché un’emergenza a breve scadenza. È una bomba a orologeria lenta, i cui effetti più devastanti li subiremo nei prossimi 20, 30 e 40 anni.
Chi ha oggi 65 anni sarà, con ogni probabilità, assente al momento dell’esplosione. Chi ne ha 20, invece, sarà in prima linea, eppure, chi guida l’autobus non sono i ventenni!
Questo scollamento intergenerazionale tra potere e conseguenze è una delle radici più profonde e meno analizzate della paralisi climatica. Semplicemente, stiamo lasciando decidere il futuro a chi molto probabilmente quel futuro non lo vedrà mai!
La mente umana è fatta per pensare al presente
Proviamo a capire perché succede questo. Non è solo questione di egoismo o irresponsabilità. C’è sotto una verità antropologica: la mente umana non è progettata per pensare al futuro.
Abbiamo evoluto il nostro cervello in savane dove l’obiettivo era sopravvivere oggi, non prosperare tra vent’anni. E questa eredità si riflette ancora oggi nei nostri comportamenti.
In psicologia si chiama sconto iperbolico. È il meccanismo per cui tendiamo a svalutare le ricompense (o i rischi) man mano che si allontanano nel tempo.
Un esempio semplice. Se ti offrissi 100 euro oggi o 150 tra sei mesi, molti sceglierebbero i 100. Non perché abbiano bisogno di soldi, ma perché la gratificazione immediata è più potente.
Ora, trasla questo ragionamento su scala planetaria.
Che interesse ha un leader politico settantenne ad approvare oggi una riforma climatica impopolare, che darà frutti tra trent’anni?
Zero. Anzi, da quella scelta è molto probabile che riceverà solo danni: calo nei sondaggi, ostilità dei poteri economici e fastidio dell’elettorato.
Il premio, se arriverà, sarà per qualcun altro. E magari nemmeno sarà vivo per vederlo.
Il risultato è una politica disfunzionale, che ragiona a scadenza di mandato. Triste vero?
Le scelte sono dominate dalla logica del “mantenere il consenso”, non del “garantire la sopravvivenza”.
Ma attenzione. Non è una colpa individuale. È un bug nel software umano.
Ed è proprio per questo che il cambiamento climatico è così difficile da affrontare. Non solo sfida i nostri modelli economici, ma prima di tutto sfida la nostra neurologia.
L’inconscio collettivo del potere: “Non sarà un mio problema”
E se ci fosse qualcosa di ancora più profondo del semplice disinteresse?
Qualcosa che lavora sottotraccia, senza che nemmeno i diretti interessati se ne rendano davvero conto?
Benvenuti nel mondo della rimozione psicologica.
Un meccanismo di difesa che ci permette di non pensare a ciò che ci spaventa o che non possiamo controllare.
Come la morte, o un cataclisma climatico.
Chi è vicino alla fine del proprio ciclo vitale tende, a livello inconscio, a chiudere le porte dell’empatia verso il futuro.
Non si tratta di cinismo. È un istinto di autoprotezione. Come spegnere la luce in una stanza che non vogliamo vedere.
Molti psicologi lo descrivono come “disconnessione temporale”.
In pratica, più percepisci il futuro come distante dalla tua esistenza, meno te ne preoccupi.
E questo meccanismo, se isolato, non sarebbe un problema. Ma quando riguarda chi prende decisioni globali, diventa pericoloso.
Un esempio concreto? Durante la pandemia, molti politici anziani minimizzavano i rischi a lungo termine per la salute pubblica o per l’economia, concentrandosi solo sull’impatto immediato sui mercati.
Allo stesso modo, in campo climatico, l’atteggiamento diffuso è:
“Il mondo si scalderà, certo… ma io sarò già nella tomba.”
E qui casca l’asino. Perché se chi ha il potere non sente più l’urgenza, anche le crisi più drammatiche restano congelate nei documenti.
Nessuna emozione, nessuna azione.
È come se stessimo vivendo una distorsione collettiva:
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I dati ci gridano che stiamo andando verso il disastro
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Ma il nostro cervello lo interpreta come un film lontano, non come una minaccia reale
Eppure, se non proviamo empatia verso il futuro, che razza di eredità stiamo lasciando?
Una questione di sopravvivenza per i giovani
A differenza dei loro genitori, i giovani non possono permettersi il lusso dell’indifferenza.
Perché non si tratta di idealismo. Si tratta di sopravvivenza.
Chi oggi ha 15, 20 o 30 anni non parla di clima per passione. Lo fa perché sarà il suo mondo a crollare, non quello di qualcun altro.
Parliamo di:
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Crisi idriche
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Collasso degli ecosistemi
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Muri climatici alle frontiere
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Aree inabitabili per il calore eccessivo
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Siccità e migrazioni forzate
Secondo l’ONU, se non cambiamo rotta, entro il 2050 ci saranno oltre 1 miliardo di profughi climatici. Un miliardo, hai sentito bene!
Non è un caso se i movimenti ecologisti più forti degli ultimi anni sono nati dal basso.
Basti pensare a:
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Fridays For Future, nato da un cartello di Greta Thunberg ma trasformato in un’ondata globale
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Extinction Rebellion, che usa la disobbedienza civile per attirare l’attenzione mediatica
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Le occupazioni universitarie in nome della giustizia climatica
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Le proteste nei musei, pur contestate, che pongono una domanda: “Cos’è più importante? Un quadro o il pianeta?”
Molti criticano queste forme di attivismo.
Ma la verità è che l’inazione delle istituzioni ha creato un vuoto. E i giovani ci si sono buttati dentro, armati di urgenza e disperazione.
Perché sanno una cosa che gli adulti fingono di non sapere:
Se non cambiamo tutto, tutto cambierà comunque, ma in peggio!
Il divario emotivo tra generazioni
Qui si apre un altro solco profondo: quello emotivo.
Chi è nato e cresciuto nel XX secolo ha vissuto (soprattutto in Occidente) un’epoca di stabilità, crescita e progresso.
Un mondo in cui ogni decennio sembrava migliore del precedente.
La fiducia nel futuro era la norma, non l’eccezione.
Il risultato? Una generazione che fa fatica a immaginare il collasso, anche quando glielo sbatti in faccia con dati e grafici.
Dall’altra parte, le nuove generazioni sono cresciute tra crisi economiche, pandemie, guerre e disastri naturali.
Il futuro, per loro, non è un orizzonte luminoso, ma una nube tossica all’orizzonte.
Questo crea una frattura narrativa:
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I vecchi parlano di “speranza” e “resilienza”
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I giovani rispondono con “collasso” ed “eco-ansia”
Secondo una ricerca pubblicata su The Lancet, il 75% dei giovani tra i 16 e i 25 anni nel mondo considera il futuro “spaventoso” a causa della crisi climatica.
Un’intera generazione sta crescendo con l’angoscia di non avere un domani.
Come possiamo trovare soluzioni comuni se uno pensa che “tanto andrà tutto bene” e l’altro che “è già troppo tardi”?
Serve un cambio di paradigma. E, forse, anche un po’ di umiltà da parte di chi ha vissuto nel meglio, ma sta lasciando in eredità il peggio.
Possibili soluzioni
A questo punto qualcuno potrebbe dire:
“Sì, tutto giusto. Ma che possiamo farci? Mica possiamo cambiare l’età dei politici…”
No, ma possiamo cambiare le regole del gioco.
Se il problema è strutturale, la soluzione non può essere solo morale. Servono meccanismi nuovi che riequilibrino il tavolo delle decisioni. Alcune idee sono già sul tavolo, altre sembrano uscite da un romanzo distopico. Eppure, in un mondo sull’orlo del collasso, le idee più radicali possono diventare le più sensate.
Ecco alcune proposte concrete e provocatorie da prendere sul serio:
🔹 Quota ambientale per le nuove generazioni
Che cos’è? Un principio secondo cui ogni governo dovrebbe includere una percentuale obbligatoria di rappresentanti under 30 nei processi decisionali che riguardano il clima.
Perché? Perché chi vivrà il futuro deve avere voce nel costruirlo.
Non è carità politica. È giustizia intergenerazionale.
🔹 Parlamento climatico giovanile con potere consultivo vincolante
Un organo parallelo composto da giovani esperti, attivisti, studenti e cittadini under 35 che ha potere di veto simbolico o obbligo di parere vincolante sulle leggi ambientali.
Potrebbe sembrare utopia, ma sarebbe un freno alla miopia delle classi dirigenti.
Il futuro non ha bisogno di eroi, ha bisogno di una voce!
Alla fine di tutto questo viaggio, la domanda rimane la stessa:
Possiamo davvero cambiare rotta se chi tiene il timone non ha motivo di farlo?
Il cambiamento climatico rappresenta soprattutto un paradosso in cui chi ha il potere non ha l’urgenza, e chi ha l’urgenza non ha il potere.
Ma forse, proprio in questo squilibrio, c’è la chiave.
Serve un nuovo patto intergenerazionale.
Serve dare una voce politica, sociale e culturale a chi ha tutto da perdere e nulla da governare.
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