Sopravvivere non basta: la lezione di Viktor Frankl per un’umanità smarrita

Cosa resta dell’uomo quando gli porti via tutto? Quando lo spogli della dignità, della sicurezza, dei legami, e del futuro? A questa domanda ha risposto Viktor E. Frankl, psichiatra austriaco, internato nei campi di concentramento nazisti tra il 1942 e il 1945.
Nel suo libro “L’uomo in cerca di senso”, Frankl non racconta soltanto l’orrore della shoah. Ci accompagna in una riflessione radicale sull’essere umano, sulla libertà interiore e, soprattutto, sul senso della vita. Quel significato concreto, urgente, che rende ogni giorno degno di essere vissuto. Anche quando tutto sembra perduto.
Quello che colpisce non è solo la forza delle sue parole, ma la loro attualità. Perché oggi, in un’epoca apparentemente libera e sicura, moltissimi si sentono vuoti, smarriti, e anestetizzati. Il mondo abbonda di comfort, ma scarseggia di significato. Non è un paradosso?
Siamo sicuri che l’inferno sia solo quello dei lager? O forse c’è un’altra prigione, più sottile, dove abitiamo ogni giorno?
Il lager come laboratorio dell’anima
Per comprendere Frankl, bisogna capire dove ha scritto – e dove ha pensato – questo libro. Auschwitz, Dachau, Theresienstadt: tre nomi che evocano l’indicibile. Ma per Frankl, quei luoghi sono diventati il laboratorio dove ha testato la sua teoria: che l’uomo può sopportare qualunque cosa se ha un “perché”.
Nei campi, ogni certezza viene distrutta:
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Il cibo? Razione minima, spesso putrida.
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Il sonno? Ininterrotto da grida, botte, e freddo.
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La famiglia? Sparita. Forse morta.
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Il futuro? Una nebbia densa, senza orizzonte.
Eppure, Frankl osserva qualcosa di inaudito: alcuni uomini resistono. Non fisicamente – perché anche i forti crollano – ma spiritualmente. Non si lasciano annientare. Come?
Non si tratta di forza di volontà, né di illusione. Si tratta di senso. Chi trova un significato, anche nel dolore, può sopravvivere psicologicamente. Chi invece percepisce solo assurdità, cade nella disperazione. Frankl lo dice con una frase fulminante:
“Chi ha un perché per vivere, può sopportare quasi ogni come.” (citando Nietzsche)
Questo principio, che sembra filosofico, è in realtà eminentemente pratico. Frankl racconta che nei campi sopravvivevano meglio:
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I religiosi, che interpretavano la sofferenza come prova o offerta;
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Gli innamorati, che traevano forza dalla persona amata;
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Gli artisti, che immaginavano ancora le loro opere;
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Chi si sentiva responsabile di una missione, anche minima.
Al contrario, chi pensava solo alla perdita, al passato o alla vendetta, spesso crollava. Non per colpa, ma per mancanza di senso.
Frankl stesso racconta di essere sopravvissuto anche perché dentro di sé immaginava di tenere una conferenza sulla psicologia dei lager. Questo pensiero gli dava un orizzonte.
La libertà di scegliere come reagire
Uno dei messaggi più potenti di Frankl è che, anche nel luogo più disumano della storia moderna, esiste una libertà che nessuno può toglierti: la libertà di scegliere come reagire.
Sembra impossibile, quasi offensivo. Ma Frankl lo dimostra. Certo, non si può scegliere se morire di fame o meno. Ma si può scegliere se condividere il pane con un altro. Non si può impedire di essere picchiati, ma si può decidere di non odiare.
Non è retorica. È un atto di resistenza. Di rivolta spirituale. In un contesto in cui tutto è programmato per annientarti, il semplice gesto di scegliere resta un’affermazione di umanità.
Frankl scrive:
“Tutto può essere tolto a un uomo, tranne una cosa: l’ultima delle libertà umane – scegliere il proprio atteggiamento in una data serie di circostanze.”
Questo è un insegnamento devastante per noi, oggi.
Viviamo in una società dove la libertà è confusa con l’arbitrio: posso fare ciò che voglio, quando voglio. Ma questa libertà esterna, se non è accompagnata da una libertà interiore, diventa vuota. Peggio: diventa una prigione dorata.
Siamo sicuri di aver scelto consapevolmente il modo in cui viviamo il lavoro, le relazioni, la politica e la tecnologia? O ci siamo solo lasciati trascinare?
Frankl ci invita a una rivoluzione silenziosa: recuperare la nostra responsabilità esistenziale. Non nel senso moralista del termine, ma come capacità di rispondere al destino, di generare significato, di assumere una posizione.
È la libertà del samurai, non dell’edonista. Quella di chi sa che tutto può crollare, tranne la propria dignità.
La logoterapia: il senso come medicina dell’anima
Se Freud ha fondato la psicoanalisi sul principio del piacere, e Adler sull’istinto di potere, Frankl pone al centro della vita psichica un’altra forza: la volontà di significato. È questa l’intuizione radicale della logoterapia.
Secondo Frankl, ogni uomo è spinto dal desiderio profondo di dare un senso alla propria esistenza. Quando questo desiderio svanisce, l’individuo può cadere nella nevrosi, nella depressione, e nella dipendenza. Ma attenzione: non si tratta solo di una carenza affettiva o di un trauma irrisolto. Il male profondo è l’insensatezza.
“L’essere umano non è distrutto dalla sofferenza, ma dalla sofferenza senza significato.”
La logoterapia non cerca di analizzare il passato, come fa la psicoanalisi classica. Non indaga i traumi infantili o i conflitti dell’inconscio. Piuttosto, guarda avanti: si chiede per che cosa vale la pena vivere, oggi, qui, ora. È una terapia orientata al futuro, alla responsabilità personale, alla ricerca attiva di significato.
Ecco i tre pilastri su cui si fonda la logoterapia
Frankl struttura la sua visione su tre concetti chiave:
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Libertà della volontà
L’uomo non è determinato solo da istinti o condizionamenti. È libero di scegliere il proprio atteggiamento, anche in condizioni estreme. Questa libertà è il fondamento della sua dignità. -
Volontà di significato
Il bisogno più profondo dell’essere umano non è il piacere o la potenza, ma il senso. Senza un “perché” a cui tendere, l’uomo si ammala. Vive, ma senza vivere davvero. -
Senso della vita
Il significato dell’esistenza non è unico e universale. Ogni individuo deve scoprirlo, in modo personale e irripetibile. Il compito dell’uomo è rispondere alla vita, non semplicemente domandarle qualcosa.
Questa prospettiva rovescia l’approccio medico tradizionale. Il terapeuta, secondo Frankl, non è un meccanico della mente, ma un accompagnatore nella ricerca del senso. Non dà risposte, ma suscita domande.
Crisi di senso e vuoto esistenziale: l’epidemia silenziosa nella società attuale
Fin qui, potremmo pensare che Frankl parli solo di deportati, di guerre, o di drammi eccezionali. Ma il vero colpo di scena arriva quando ci rendiamo conto che il suo messaggio parla esattamente a noi, oggi.
Viviamo nell’epoca del benessere, dell’autorealizzazione, e del consumo illimitato. Eppure, mai come adesso, il numero di persone depresse, ansiose o disorientate è cresciuto in modo esponenziale. Perché?
Frankl lo chiamava vuoto esistenziale: una condizione in cui l’uomo ha tutto, ma non sa più perché vive. Il lavoro diventa routine, il tempo libero distrazione, i rapporti consumo. Il futuro? Una serie di obiettivi impersonali, slegati dal cuore.
Il rischio è che, senza senso, l’uomo moderno:
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Cerchi rifugio nel narcisismo, vivendo solo per apparire;
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Si anestetizzi con piaceri effimeri (scroll compulsivo sui social, abbuffate di cibo, pornodipendenza, droghe leggere);
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Si rifugi nell’ideologia, nel fanatismo, e nel culto della performance;
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Oppure cada nella rassegnazione, nel “tanto è tutto inutile”.
Frankl anticipava già questo scenario:
“Il nichilismo non è tanto la convinzione che la vita non abbia senso, ma che non valga la pena cercarlo.”
Ed è proprio qui che entra in gioco la provocazione. Non basta sopravvivere, bisogna tornare a vivere. E vivere, per Frankl, significa assumersi la responsabilità di generare significato. Non aspettare che la vita ci dia qualcosa: chiederci invece cosa la vita attende da noi.
L’illusione della libertà: siamo davvero liberi?
Viviamo in un’epoca che si autocelebra come “la più libera della storia”. E sotto molti aspetti lo è: abbiamo diritti, scelta, tecnologia, movimenti, e una grande scelta di possibilità. Ma ci siamo mai chiesti liberi per cosa? Liberi per comprare? Per accumulare? Per postare?
Frankl ci parlava di una libertà interiore, una libertà che esiste nonostante tutto. Ma oggi, paradossalmente, siamo immersi in una libertà senza direzione, che ha perso il senso del limite, del sacrificio, e del valore.
L’uomo contemporaneo è come un astronauta che ha tagliato il cavo con la navicella. Galleggia nello spazio delle infinite possibilità, ma senza gravità, senza orientamento. E allora si perde. Si stanca. Si deprime.
Siamo liberi, sì. Ma non sappiamo più cosa farcene di questa libertà.
Ecco perché, anche in assenza di guerra o fame, tantissimi giovani si sentono vuoti. Perché l’anima ha bisogno di una missione. Ha bisogno di un motivo per alzarsi al mattino che non sia solo “fare soldi” o “farsi vedere”.
Il nostro dramma non è la mancanza di libertà. È l’eccesso di libertà senza significato.
La provocazione di Frankl oggi: e se la sofferenza fosse necessaria?
Qui tocco un punto delicato, che per molti potrebbe essere addirittura offensivo…
Nel libro, Frankl afferma una cosa che può risultare difficile da accettare:
“La sofferenza smette di essere sofferenza nel momento in cui trova un significato.”
Attenzione: Frankl non glorifica il dolore. Non lo cerca, non lo impone. Ma ci dice che la vita è fatta anche di sofferenza, e che questa può essere trasformata. Può diventare offerta, crescita, e testimonianza. Se trova un perché.
E invece, oggi, facciamo di tutto per rimuovere il dolore. Viviamo in una società analgesica, dove ogni frustrazione deve essere subito eliminata, curata, o evitata. Come se il male fosse un errore da cancellare, e non una parte – a volte inevitabile – dell’essere umano.
Non sarà allora che la nostra infelicità deriva proprio da questa fuga continua dalla sofferenza?
Non sarà che, tentando di evitare il dolore, abbiamo anche evitato il senso?
Immagina un atleta che non vuole mai sudare. Un artista che non vuole mai sbagliare. Un amante che non vuole mai soffrire. Che tipo di esistenza vivrebbero? Sicuramente, un’esistenza comoda. Ma anche sterile.
Frankl ci insegna che la sofferenza, se abbracciata con dignità, può trasformarsi in valore. E oggi, più che mai, dovremmo tornare ad allenarci a questo: al dolore che purifica, che plasma, e che ci orienta.
Senso come responsabilità: una nuova etica dell’esistenza
A questo punto, viene naturale una domanda: “Va bene, ma dove lo trovo questo senso? Come si fa, concretamente?”
Frankl risponde con chiarezza: il senso non si inventa, si scopre. È già dentro le situazioni, dentro la vita che viviamo. Ma dobbiamo aprire gli occhi, allenare lo sguardo.
Per farlo, ci sono tre grandi vie che Frankl indica:
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Realizzare un’opera, una missione, un compito
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Che tu sia artista, genitore, imprenditore o infermiere, se senti che quello che fai serve a qualcosa o a qualcuno, stai già generando senso. ESEMPIO: Se scrivi un libro solo per guadagnare soldi, o anche per aiutare le persone in un determinato contesto, allora nel secondo caso avrai trovato il senso.
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Amare profondamente qualcuno o qualcosa
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L’amore è un’emozione formidabile. Dare la vita per un figlio, per un amico, o per un ideale… è un atto che riempie l’esistenza.
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Affrontare con coraggio una sofferenza inevitabile
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Se il dolore non può essere evitato, può essere trasceso. Non subìto, ma integrato in una narrazione più grande. Come fece Frankl nel lager.
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Queste tre vie richiedono però una cosa: responsabilità. Smettere di vivere come vittime passive degli eventi, e iniziare a vivere come autori della propria storia. Anche quando tutto sembra andare storto.
Questa è la grande rivoluzione che ci serve oggi: non più rincorrere il piacere, il successo o l’approvazione, ma vivere come chi risponde al richiamo della vita. Con coraggio, con vulnerabilità, e con senso.
Conclusione
Abbiamo attraversato i campi di concentramento con Frankl. Abbiamo respirato la cenere dell’assurdo, toccato il limite della disumanizzazione, e ascoltato il grido di chi ha scelto di restare uomo, anche nell’inferno.
E oggi?
Oggi l’inferno non ha più il volto del boia. Ha il volto dell’indifferenza. Della rassegnazione. Del “tanto è tutto inutile”. È un inferno elegante, climatizzato, e iperconnesso. Ma non per questo meno pericoloso.
Viviamo in una società che ha paura di domandarsi perché vive. Una società che anestetizza il disagio, che censura il dolore, che vende sogni vuoti come fossero risposte.
Ma se Frankl ci ha insegnato qualcosa, è che senza senso non c’è vita. Non quella vera. Non quella che fa fiorire l’anima. Non quella che vale la pena di essere vissuta.
E allora, la vera domanda che ci interpella è: che senso vogliamo dare al nostro stare al mondo?
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Vogliamo essere consumatori distratti o creatori di significato?
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Vogliamo fuggire dal dolore o trasformarlo?
Questa non è solo una scelta personale. È una responsabilità collettiva. Perché il senso non è una favola da raccontarsi davanti allo specchio. È un atto etico, un impegno verso l’altro, verso il futuro, verso ciò che ci trascende.
Frankl ci ricorda che la vita interroga noi. Non siamo noi a giudicarla: è lei che, ogni giorno, ci chiede “Che risposta dai, oggi, alla tua esistenza?”
Questa è la vera libertà: rispondere. Non con parole, ma con scelte. Con amore. Con coraggio e con dignità.
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