Siamo animali morali o solo macchine di sopravvivenza? Una riflessione senza alibi

moralità

Cosa ci rende umani? È una domanda semplice solo in apparenza. Perché se grattiamo via la patina delle buone intenzioni, e smascheriamo il linguaggio addomesticato della società civile, quello che emerge non è sempre piacevole.

Viviamo, amiamo, e aiutiamo, certo… Ma chi aiutiamo davvero? Chi ci somiglia. Chi ci conviene. Chi ci è utile. E invece pensiamo gli altri? Al resto dell’umanità, agli estranei, ai lontani e ai dimenticati?
Rumore di fondo

La filosofia ha sempre avuto il coraggio di guardare in faccia questa ambiguità. Hobbes ci descrive come lupi affamati in una guerra perpetua di tutti contro tutti. Kant, al contrario, ci assegna la dignità della legge morale dentro di noi, capace di resistere al mondo. Nietzsche ci ride in faccia: non esiste alcuna morale oggettiva, ma solo volontà di potenza mascherata da buone maniere.

Il dilemma della morale: strumento o fine?

Hobbes: la morale come contratto tra egoismi

Secondo Thomas Hobbes, l’uomo è mosso dalla paura e dal desiderio di protezione. Non c’è alcuna bontà originaria. Non c’è compassione. Solo un caos brutale in cui la vita è “solitaria, povera, cattiva, brutale e breve”. E allora perché nasce la morale? Per un calcolo. Per un patto. Perché è meglio convivere sotto un’autorità comune (il Leviatano) che vivere nel terrore.

In questa visione, la morale non è una verità universale, ma un’invenzione utile, una tregua temporanea tra volontà egoistiche. È un abito cucito sull’interesse. È lo zucchero sul bordo del calice amaro della convivenza.

Ma se la morale è solo un accordo, allora vale solo finché conviene. E quando non conviene più? Quando il diverso minaccia il mio status, quando l’altro chiede troppo, o quando la legge non fa il suo dovere cosa succede? Lo metto a tacere. Lo ignoro. Lo annullo.

E qui si mostra una verità scomoda secondo Hobbes: l’uomo morale è un uomo condizionato, non libero.

Kant: l’animale che si obbliga da solo

Contro questo pessimismo si erge Immanuel Kant, con la forza di chi crede nella dignità dell’uomo come fine e mai come mezzo. La morale non nasce dal calcolo, ma dalla ragione pratica, che impone leggi universali a tutti gli esseri razionali. Non ci comportiamo bene perché ci conviene, ma perché è giusto.

Il suo imperativo categorico è un faro nel buio della convenienza. Agisci solo secondo quella massima che vorresti diventasse legge universale. In altre parole, non fare agli altri ciò che non accetteresti per te stesso.

Ma Kant lo sa: la moralità è una sfida costante. L’uomo non è naturalmente buono, tuttavia è capace di bontà. E questa è la sua grandezza. L’uomo non cede al comodo, ma sceglie il giusto.

La crudeltà della somiglianza

Arendt: il male come assenza di pensiero

Eppure la storia ci mostra altro. Ci mostra che gli uomini che si credono morali sanno chiudere gli occhi. Sanno escludere. Sanno scegliere chi è degno e chi non lo è. Lo hanno fatto nei lager. Lo hanno fatto nelle colonie. Lo fanno oggi, con un click, decidendo cosa vedere e cosa ignorare.

Hannah Arendt ha osservato con lucidità il volto banale del male. Secondo la sua visione, il male non è un demone o un mostro, ma rappresenta la normalità dell’uomo. Quello che “obbedisce agli ordini”. Quello che non pensa. E quindi non vede.

La morale, se non è pensata, si svuota. Diventa automatismo. Diventa adesione cieca a un’identità, a un gruppo, e a un noi contrapposto a un loro.

E allora la somiglianza diventa selezione. Solo chi è come me merita compassione. E cosa succede a chi è diverso o lontano? Può morire in silenzio.

Simone Weil: la giustizia è attenzione all’invisibile

Nella nostra cultura, quando si parla di morale verso l’altro, si pensa subito all’empatia. Ma per Simone Weil, l’empatia è insufficiente.
È ancora troppo emotiva. Troppo soggettiva. Troppo legata alla reazione che provoca in me l’altro.
Mi commuovo se mi colpisce. Mi muovo se mi somiglia.
Ma l’attenzione di cui parla Weil è un’altra cosa. È qualcosa di radicale e impersonale.

L’attenzione è, per lei, uno stato dell’anima.
Non è “fare qualcosa per l’altro”. È vederlo davvero, senza filtri. È lasciare che il suo dolore mi attraversi senza cercare di modificarlo, spiegarlo, giustificarlo o usarlo per provare qualcosa su me stesso.

È uno svuotamento del proprio io, per creare uno spazio di ascolto puro.

Weil ci dice: “Il dolore vero non grida”.
Le persone veramente in difficoltà spesso non sanno chiedere, non sanno raccontarsi, e non commuovono.
Vivono nel silenzio sociale, nei margini, e nel non detto.

Ecco perché, per Simone Weil, il bene non è reagire al dramma visibile, ma scendere nel silenzio e tendere l’orecchio a chi non ha più voce.

  • Non il parente che piange

  • Non l’amico che bussa

  • Ma lo straniero invisibile

  • Il povero senza nome

  • Il lavoratore ignorato

  • Il nemico dimenticato

L’attenzione vera, in questo senso, è un atto mistico, non emotivo, non selettivo, e non teatrale.

Prendersi cura dell’invisibile, per Weil, è il gesto più puro di bene possibile, perché:

  • Non riceve riconoscimento

  • Non rafforza l’ego

  • Non è funzionale a nulla

  • Non serve a sopravvivere

È una forma di giustizia silenziosa, una responsabilità che nasce dal solo fatto che l’altro esiste.
Anche se non parla. Anche se non ci somiglia. Anche se non ci serve.

Ecco cosa ci dice Weil:
👉 La vera morale non è calcolo, né reazione, né regola.
👉 È offerta.
Un gesto gratuito, che non pretende nulla.
Un atto che non cerca neanche di “fare il bene”, ma solo di rispettare l’altro.

Solo quando guardiamo davvero l’altro, senza proiezioni né pretese, allora qualcosa si apre anche in noi.

Nietzsche: oltre il bene e il male

La morale come debolezza camuffata

Nietzsche rovescia il tavolo. Per lui, la morale che predica l’uguaglianza, il sacrificio e la compassione non è un traguardo dell’evoluzione umana, ma una strategia dei deboli per sopravvivere ai più forti. È la vendetta degli impotenti contro la vitalità, contro l’istinto, e contro la vita stessa.

Nel suo saggio Genealogia della morale, Nietzsche distingue tra morale dei signori e morale degli schiavi:

  • La morale dei signori nasce dall’affermazione di sé, dalla potenza, dalla bellezza, e dal coraggio. Non si giustifica: è.

  • La morale degli schiavi nasce dal risentimento. Chi non può agire, giudica. Chi non può godere, condanna. Chi non può affermarsi, inventa il “bene” come negazione del piacere e della forza.

Secondo Nietzsche, l’uomo morale moderno è malato, rinchiuso in valori che lo privano della sua energia originaria. E così si trascina tra ipocrisie, paure, e maschere. Non è libero. Non è nobile. È addomesticato.

Questa critica radicale ci costringe a chiederci: la nostra idea di bene è autentica o è un trucco? È frutto di una reale tensione verso l’altro o solo un’arma sottile per affermare noi stessi?

Il superuomo e la morale come creazione

Ma Nietzsche non si limita alla critica. Propone una nuova via. L’uomo, se vuole davvero essere morale, deve creare i propri valori, non ereditarli. Deve dire “sì” alla vita, anche quando è dolorosa, ingiusta e assurda. Solo chi accetta il caos può diventare artista del proprio destino.

Il Superuomo non è un tiranno, ma un creatore di senso. Non segue le norme, le forgia. Non si lascia guidare dal risentimento, ma dalla potenza generativa dell’esistenza.

In questa prospettiva, la morale non è più un codice. È un gesto poetico. Un atto di coraggio. Una sfida continua a ciò che ci tiene in catene.

Platone e la nostalgia del bene

L’idea di bene come origine dell’anima

Platone, molti secoli prima, aveva già intuito che la giustizia non può essere ridotta alla convenienza. Per lui, il bene non è un’opinione. Non è un patto. È un’ idea, la più alta tra tutte, da cui discende l’ordine stesso del mondo.

Nella Repubblica, Platone afferma che l’anima ha conosciuto il bene prima di incarnarsi, e che tutta la vita morale è un ricordo (anamnesi) di quella visione perduta. Vivere bene, dunque, non significa calcolare, né obbedire. Significa riconnettersi a ciò che è eterno, vero, e puro.

La giustizia non è utile. È bella. Come la luce del sole che illumina ogni cosa. L’Idea di bene dà senso a tutte le azioni. Ma attenzione: non è una bellezza soggettiva. È un ordine armonico che l’anima, se educata, riconosce.

In questa visione, essere morali non è una scelta contro natura, ma un ritorno alla nostra vera natura. Non all’istinto, ma all’essenza.

Il filosofo come guida dell’anima collettiva

Per Platone, però, la maggioranza delle persone è cieca e non può vedere il bene da sola. È prigioniera della caverna, incatenata alle ombre delle opinioni, delle emozioni, e delle convenzioni. E allora serve il filosofo. Non come moralista, ma come guida dell’anima collettiva. Uno che ha visto la luce e torna per liberare.

La morale, così intesa, non nasce dal basso, dai bisogni o dai gruppi. Ma dall’alto. Dall’ascesi. Dalla contemplazione. È verticale, non orizzontale. È sacrificio di sé, non difesa del sé.

E in questo Platone parla a noi oggi, forse più che mai. In un mondo dominato dall’utile, dalla visibilità, dalla prestazione, chi osa ancora cercare il Bene per il Bene?

Ubuntu: l’etica dell’essere-con

Io sono perché noi siamo

Non tutte le filosofie nascono nella competizione. Non tutte vedono l’uomo come individuo separato, in lotta con l’altro. Nella tradizione africana, e in particolare nel pensiero dell’Ubuntu, l’essere umano non esiste in sé, ma in relazione. Non c’è identità senza comunità.

Ubuntu significa, letteralmente: “una persona è una persona attraverso le altre persone”. Non si tratta di un generico senso di solidarietà, ma di una visione ontologica: l’essere umano è intrinsecamente “essere-con”. La mia dignità non si afferma contro l’altro, ma insieme all’altro.

In questa prospettiva, la morale non è un codice imposto, né un’autoaffermazione creativa. È una danza collettiva, una reciprocità che non chiede nulla, perché sa già di essere parte di un tutto.

L’Ubuntu non si fonda sull’utile, ma sulla cura reciproca. Non si ama il prossimo perché ci conviene o perché lo dice la legge morale, ma perché non esiste un “io” senza il “tu”.

Chi vogliamo essere?

Questa domanda – siamo animali morali o macchine di sopravvivenza? – non ha una risposta definitiva. Perché non siamo mai una cosa sola. Dentro ciascuno di noi convivono pulsioni contrastanti. La paura e la generosità. L’ego e il dono. L’istinto e la scelta.

Ma forse è proprio qui che nasce la moralità. Non dall’essere già giusti, ma dalla consapevolezza del nostro potenziale pericoloso. L’uomo può ignorare il dolore altrui. Può uccidere con un click. Può voltarsi dall’altra parte. Ma può anche fermarsi, guardare, ascoltare, e prendersi cura.

La morale è una lotta. È una tensione. È una fedeltà all’impossibile.

Non siamo automaticamente buoni. Non basta essere umani per essere giusti. Ma possiamo decidere di diventarlo. E ogni volta che scegliamo il bene nonostante la paura, e ogni volta che ascoltiamo l’invisibile, traduciamo in atto quella possibilità fragile che chiamiamo umanità.

Conclusione

Allora, che cos’è l’uomo?

Una contraddizione ambulante.
Un animale che parla di giustizia ma costruisce confini.
Una macchina biologica che si interroga sul senso del bene.
Una scintilla che, ogni tanto, decide di illuminare il buio anche se nessuno la vede.

Siamo stati programmati per sopravvivere. Ma non siamo condannati a restarlo. Possiamo creare, possiamo scegliere, e possiamo tradire il nostro stesso programma.

Essere morali, oggi, significa resistere alla semplificazione, al cinismo, e all’indifferenza. Significa coltivare una visione più ampia del “noi”. Non perché sia naturale, ma perché è giusto.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei