L’uomo è un lupo: ordine, paura e potere secondo Hobbes

La paura come fondamento del vivere insieme
Cosa ci tiene uniti davvero? L’amore per il prossimo? L’empatia? O, forse, una verità meno poetica ma più cruda: la paura. È questa la tesi di Thomas Hobbes, filosofo del Seicento che ha avuto l’audacia — o la disperazione — di guardare l’uomo per quello che è, senza filtri romantici. Hobbes, in un’epoca di guerre civili, con la polvere da sparo ancora nell’aria scrive il suo capolavoro: Leviatano.
Un’opera che non è solo filosofia politica, ma un’anatomia dell’anima collettiva, un’autopsia del patto sociale.
Nel suo saggio, Hobbes arriva a una conclusione sconvolgente e provocatoria: senza uno Stato forte, l’essere umano torna alla sua condizione naturale — quella della guerra di tutti contro tutti, una vita “solitaria, povera, cattiva, brutale e breve”. Per evitare questo inferno, l’uomo cede la propria libertà a un potere sovrano, il Leviatano, un’entità mostruosa ma necessaria.
Nel mondo di oggi, dove l’autorità viene continuamente messa in discussione e il concetto di libertà viene spesso confuso con un narcisismo collettivo, è fondamentale tornare a riflettere su queste domande: di cosa abbiamo davvero bisogno per convivere? Che prezzo siamo disposti a pagare per la pace? E se l’uomo fosse ancora, oggi, un lupo per l’altro uomo?
Hobbes e l’origine dello stato: dal caos alla sovranità assoluta
L’uomo nella sua nudità primordiale
Hobbes parte da un presupposto antropologico radicale: l’uomo, lasciato a sé stesso, è pericoloso. Non perché sia di natura malvagia, ma perché mosso da desideri incontenibili, passioni selvagge, e impulsi predatori. In assenza di un’autorità superiore, questi impulsi si scontrano, generando inevitabilmente conflitto. Il risultato? La “guerra di tutti contro tutti”.
Ma attenzione: Hobbes non crede che l’uomo sia un demone. Piuttosto, lo considera una creatura fragile, spaventata, e continuamente alla ricerca di sicurezza. E proprio questa paura — paura di morire, di perdere ciò che si ha, di essere sopraffatti — diventa la molla che spinge l’umanità a creare un ordine, a costruire uno stato.
Il patto sociale: un salto nella paura, non nella speranza
Hobbes non crede nella bontà naturale né in una solidarietà spontanea. L’ordine nasce da un patto. Un contratto in cui ogni individuo rinuncia a una parte della propria libertà in cambio di protezione. Ma non si tratta di una cessione tra pari: il potere va concentrato in un’unica entità sovrana — il Leviatano — dotata di forza e autorità assoluta. Solo così si può garantire la pace.
Ecco perché per Hobbes la democrazia non è il punto di partenza, ma semmai un lusso postumo, possibile solo dopo che l’ordine è stato garantito. Prima c’è il caos. Prima c’è la paura.
“La libertà non può esistere dove c’è il pericolo costante della morte violenta.”
Il Leviatano: mostro o salvatore?
Il titolo dell’opera non è casuale: il Leviatano è una creatura mostruosa dell’Antico Testamento, simbolo di potenza inarrestabile. Hobbes lo utilizza per rappresentare lo stato sovrano: una bestia artificiale, costruita dagli uomini per proteggere gli uomini da sé stessi. Paradossale? Forse. Ma incredibilmente attuale.
Nel Leviatano convivono due elementi: l’autorità (legittimazione) e la forza (coercizione). Senza forza, l’autorità è solo una voce nel vento. Senza autorità, la forza è tirannia. Il Leviatano è dunque il punto d’equilibrio tra necessità e diritto, tra paura e civiltà.
L’illusione del buon selvaggio: un mito da sfatare
Contro Rousseau, che decenni dopo parlerà del “buon selvaggio” corrotto dalla società, Hobbes lancia una sfida provocatoria: e se fosse vero il contrario? E se fosse proprio la società, con le sue leggi e le sue punizioni, a contenere la violenza insita in noi?
Viviamo oggi in una bolla di civiltà fragile, come vetro soffiato. Il nostro ordine si regge su regole invisibili, sul rispetto tacito di un’autorità. Ma basterebbe togliere quella forza — polizia, giustizia, esercito — perché emergano di nuovo i lupi. Lo abbiamo visto nei black-out, nei disastri naturali, e nelle guerre civili. Quando il Leviatano vacilla, l’inferno non tarda a riemergere.
Ordine, violenza e autorità: un equilibrio instabile
La violenza legittima: quando la forza diventa giustizia
Uno degli aspetti più controversi del pensiero di Hobbes è l’idea che solo lo Stato debba avere il monopolio della violenza. Un concetto che oggi può sembrare inquietante, ma che rappresenta uno degli snodi fondamentali della civiltà moderna. Perché se tutti avessero il diritto di farsi giustizia da soli, torneremmo all’anarchia, alla legge del più forte.
Il Leviatano è dunque legittimato a usare la forza, ma non per dominare: per mantenere l’ordine. È una violenza “sacra”, canalizzata, e regolata. E Hobbes non si illude: la violenza è una componente inevitabile della convivenza umana. Il vero problema, semmai, è chi la esercita e come.
Oggi questo tema è più vivo che mai:
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Chi decide cosa è “legittimo”?
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Quando lo Stato reprime una protesta, sta difendendo l’ordine o soffocando la libertà?
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È più violento un regime autoritario o una società dove la legge non viene applicata?
Sono domande scomode, che toccano i nervi scoperti della politica e della giustizia. Hobbes, da lucido realista, non cerca consolazioni morali: cerca funzionamento. E il funzionamento, a volte, richiede misure che ci spaventano.
L’autorità come atto di fede laico
Un’altra intuizione geniale — e inquietante — di Hobbes è l’idea che l’autorità non si debba basare solo sulla forza, ma anche su una forma di fede laica. Gli uomini obbediscono al Leviatano non solo perché ha le armi, ma perché credono nella sua autorità. In questo senso, la sovranità è una costruzione simbolica, quasi religiosa.
Pensiamo oggi alle istituzioni democratiche, alla costituzione, alla magistratura, e persino al denaro. Tutto si regge sulla fiducia collettiva. Quando quella fiducia crolla, come vediamo in tempi di crisi o scandali, il Leviatano trema. Non servono bombe. Basta il sospetto.
Hobbes oggi: il ritorno del Leviatano nel XXI secolo
Viviamo davvero in un mondo pacifico?
Nel 2025, siamo davvero usciti dallo “stato di natura” descritto da Hobbes? O abbiamo solo imparato a mascherarlo meglio? I social media, per esempio, hanno creato una nuova arena in cui la guerra di tutti contro tutti si combatte con armi digitali: offese, campagne diffamatorie, bullismo, e manipolazione. La legge del più forte si è trasferita nel regno dell’influenza e dell’algoritmo.
Inoltre, l’indebolimento degli Stati nazionali — di fronte a crisi globali, multinazionali, intelligenze artificiali — ha lasciato molte persone senza protezione simbolica. Senza un Leviatano forte, emergono nuovi poteri selvaggi, spesso senza volto né responsabilità.
“Quando il potere non ha un nome, diventa ancora più pericoloso.”
Viviamo in un’epoca in cui ogni autorità è sospetta, ogni regola viene vista come un’imposizione. Ma cosa succede se togliamo tutte le regole? Davvero siamo pronti ad affrontare la nostra libertà senza crollare nel caos?
Il Leviatano hobbesiano non è perfetto, ma è uno specchio che ci costringe a guardarci senza illusioni. Oggi abbiamo bisogno di un nuovo tipo di sovranità, non più fondato sulla paura della morte violenta, ma sulla consapevolezza della nostra interdipendenza. Un Leviatano evoluto. Non più un mostro armato, ma un’intelligenza collettiva capace di garantire coesione in un mondo frantumato.
Ci serve:
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Un potere che protegga, ma che non soffochi.
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Un’autorità che ispiri fiducia, non terrore.
Hobbes ha posto la domanda giusta: come possiamo convivere? Ma oggi dobbiamo rispondere con nuovi strumenti. Forse il futuro non sarà senza Leviatano. Ma con un Leviatano che sappia parlare, ascoltare e evolvere.
Senza stato e senza freni: l’illusione della coscienza collettiva
C’è una domanda che dobbiamo avere il coraggio di porci, senza ipocrisie: siamo davvero così evoluti da poter fare a meno dello stato? Guardiamoci indietro, quando la figura dello stato moderno non esisteva. Cosa c’era? C’erano villaggi bruciati dai briganti, donne stuprate con impunità, vendette di sangue regolate solo dal codice del più forte. L’omicidio era una forma di giustizia personale. Il furto era una strategia di sopravvivenza. La paura non veniva dallo stato, ma dagli altri uomini.
In quel mondo senza Leviatano, la coscienza non bastava. Il bene non era una scelta, ma un rischio. E oggi, siamo davvero così certi che l’essere umano, privato della minaccia di una pena, agirebbe in modo virtuoso solo per senso morale? Siamo davvero arrivati a quel grado di maturità spirituale in cui l’autocontrollo è più forte del desiderio, della rabbia, e dell’ego?
La verità è che — per molti — non è così. In assenza di una punizione concreta, molti darebbero libero sfogo ai propri impulsi. Basta guardare cosa accade nei momenti di black-out normativo: rivolte, saccheggi, guerra e violenza. Lo abbiamo visto durante guerre, disastri naturali, e crolli istituzionali. Quando lo stato si ritira, non nasce l’utopia libertaria, ma il ritorno della giungla.
Hobbes questo lo sapeva bene. E lo diceva senza timore: la civiltà non nasce dalla bontà, ma dalla paura. Una verità amara, ma necessaria da affrontare, se vogliamo davvero costruire qualcosa di meglio.
Libertà e sicurezza: un equilibrio impossibile?
Si può scegliere solo bianco o nero: siamo davvero obbligati a scegliere?
Hobbes ci costringe a fare una scelta che sembra crudele: o libertà senza sicurezza (e quindi il caos), o sicurezza senza libertà (e quindi la tirannia). Ma siamo sicuri che le due cose siano davvero incompatibili? O è la nostra incapacità di pensare a soluzioni nuove che ci imprigiona in questo dualismo?
Se vogliamo uscire dalla gabbia di Hobbes, dobbiamo fare uno sforzo collettivo: ripensare i termini del patto sociale. Costruire uno stato non più fondato solo sulla paura della pena, ma sul desiderio della vita. Non sul sospetto, ma sulla fiducia radicale. Non sulla sorveglianza, ma sulla responsabilizzazione.
Una missione utopica? Forse. Ma ogni civiltà nasce da un sogno impossibile.
Cosa possiamo imparare oggi dal Leviatano di Hobbes?
Oggi viviamo nell’illusione che la libertà sia una condizione naturale e permanente. Ma Hobbes ci sveglia da questo sogno infantile. Ci ricorda che la pace è un’invenzione artificiale, fragile come il vetro, costruita su regole, limiti, e concessioni.
Ecco alcuni insegnamenti essenziali che possiamo trarre da Leviatano:
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La pace è una conquista, non un punto di partenza.
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L’uomo non è un angelo, ma può diventarlo se sa riconoscere i suoi demoni.
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Lo stato non deve essere amato, ma compreso e migliorato.
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La libertà senza regole è una trappola mascherata da sogno.
Hobbes non ci offre una visione del mondo “bella”. Ma ci offre una visione utile, concreta, e potente. È il filosofo della realtà, della verità nuda e cruda – priva di tutti quei falsi buonismi che vivono nella nostra società attuale -.
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Conclusione
Voglio chiudere con una provocazione personale. E se il Leviatano non fosse solo lo Stato? E se ciascuno di noi avesse dentro di sé un piccolo Leviatano — un custode interiore, una voce che ci dice: “Fermati. Pensa. Non cedere all’istinto”?
Viviamo in un mondo in cui tutto ci spinge a reagire, a rispondere, e ad aggredire. Ma forse, il vero potere oggi non è dominare l’altro. È dominare sé stessi. Forse la vera sovranità è interiore. E forse il Leviatano più necessario, oggi, è quello che costruisce autocontrollo, lucidità, e compassione.
Il Leviatano di Hobbes nasce dalla paura. Ma forse il Leviatano del futuro potrà nascere da un atto di lucidità, di maturità collettiva, e di evoluzione spirituale. Non un mostro, ma un custode.
Il mondo non ha bisogno di più libertà. Ha bisogno di più consapevolezza.
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