Libertà di parola e responsabilità etica: esiste un limite necessario?

libertà di parola

Il dibattito sulla libertà di parola e sul politicamente corretto occupa oggi un ruolo centrale nella discussione pubblica.

Molti sostengono ad oggi che non siamo più liberi di dire ciò che pensiamo, tuttavia, altri ricordano che esprimersi non significa soltanto “parlare”, ma anche assumersi la responsabilità degli effetti, che quelle parole producono.

La libertà di parola come fondamento democratico 

La libertà di espressione nasce storicamente come un’arma contro il potere, dato che è quella forza che permette all’individuo di parlare, o criticare le idee senza temere alcun tipo di ritorsione.

Senza la possibilità di contestare ciò che è stabilito, il potere politico e culturale avrebbe carta bianca per imporsi in modo incontrollato. La libertà di parola è, in questo senso, un fondamento democratico di incredibile valore.

Il filosofo John Stuart Mill, nel suo celebre saggio Sulla libertà (1859), sostiene che una società non può progredire se non permette la più ampia circolazione delle idee.

Per Mill, il valore della libertà di espressione non risiede soltanto nella difesa dell’opinione corretta, ma riguarda anche, e soprattutto la tutela dell’opinione sbagliata.

Sempre secondo Mill, infatti, una verità che non viene mai messa alla prova tende a diventare un dogma.

Se nessuno può più contraddire un’idea, essa finisce inesorabilmente per diventare un’abitudine mentale. In questo senso, perfino un’opinione erronea è utile, poiché obbliga le idee dominanti a giustificarsi, e a rafforzarsi tramite il confronto.

Da ciò, possiamo dedurre che limitare la libertà di parola, significa limitare la capacità stessa di pensare, e questo dipende dal fatto che senza possibilità di confronto, la nostra mente si restringe.

Il valore morale del linguaggio

Il linguaggio possiede il potere di definire ciò che consideriamo normale, offensivo, o deviante. Per questo, è nostra responsabilità fare attenzione a come esprimiamo certe idee, soprattutto quando potrebbero contribuire a diffondere odio e discriminazione.

La filosofa Judith Butler, con la teoria della performatività, ha mostrato che il linguaggio non si limita a descrivere le identità, ma contribuisce a formarle.

Le parole che utilizziamo durante la quotidianità non possiedono valenza neutra, ma costruiscono attivamente ruoli, aspettative e confini entro cui le persone si muovono.

In altre parole, attraverso il linguaggio stabiliamo come ci si aspetta che qualcuno sia – come debba comportarsi, cosa possa fare, cosa sia considerato appropriato o non appropriato.

Le parole stabiliscono chi può parlare e chi deve tacere, chi merita rispetto e chi può essere ridicolizzato, chi viene riconosciuto e chi invece resta invisibile.

Per questo parlare non è mai un gesto innocente: ogni parola ha il potenziale di produrre una rete di significati collettivi.

Dire qualcosa può:

  • attribuire un valore,

  • riconoscere o negare un’identità,

  • includere o escludere qualcuno a proprio piacere.

Le parole possono ferire! Come ricorda anche Pierre Bourdieu, il linguaggio è un’arma sociale: non colpisce il corpo, come farebbe una spada, ma l’immagine di sé, il senso di valore, e la possibilità di sentirsi parte del mondo.

Un insulto ripetuto, uno stereotipo riproposto, o anche una battuta apparentemente innocua, possono insinuare dubbi e pensieri limitanti, quali: “Forse non valgo quanto gli altri.”

Là dove l’insulto si normalizza, l’ingiustizia si istituzionalizza.

Attraverso il linguaggio, ad esempio, possiamo diffondere messaggi d’odio contro un gruppo etnico, una religione o un genere. Le parole creano immagini, rinforzano stereotipi, e orientano atteggiamenti. Se ripetute nel tempo, possono persino giustificare discriminazioni e forme di violenza.

Proprio perché il linguaggio possiede questa forza, è necessario imparare a usarlo con consapevolezza, come se avesse un “manuale d’uso”. Non si tratta di censurare, ma di riconoscere che parlare è sempre un atto che comporta conseguenze.

Per questo, non possiamo nasconderci dietro l’idea di libertà di parola per giustificare l’offesa o l’umiliazione gratuita. Offendere non è un diritto, e farlo in nome della libertà equivale a svuotare quel concetto del suo immenso valore.

Come possiamo distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è?

Stabilire se qualcosa sia “giusto” o “sbagliato” non è mai soltanto questione di regole astratte. Molti codici morali si sono rivelati, nella storia, strumenti di potere: ciò che una società definiva “giusto” ieri, può oggi apparire ingiusto e crudele.

Se il criterio fosse solo la tradizione o la legge, saremmo condannati a ripetere per l’eternità le stesse ingiustizie. Allora come possiamo orientarci?

Una possibile risposta risiede nell’empatia soggettiva, cioè nella capacità di mettersi, per un istante, al posto dell’altro.

La domanda che dovresti porti prima di dire o scrivere qualcosa è:

“Se qualcuno mi rivolgesse la stessa frase, lo stesso gesto, o la stessa “etichetta”, a me o a persone a me care, come mi sentirei?”

Se la risposta è fastidio, umiliazione o ferita, molto probabilmente stiamo producendo lo stesso effetto sull’altro.

Questo non significa che tutto ciò che offende debba essere SEMPRE proibito, tuttavia, è anche vero che abbiamo ricevuto un segnale importante, dato che quella parola, o frase, possiede il potenziale di  ferire il prossimo.

Potremmo ridefinire questo concetto con una regola d’oro sorprendentemente semplice, ma efficace:

          “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te.”

L’empatia, non è infallibile!

Ad esempio, se io fossi una persona molto magra e mi chiedessi se mi offenderei nel caso in cui qualcuno mi prendesse in giro per il mio peso eccessivo, probabilmente risponderei di no. Quell’insulto non toccherebbe un mio punto vulnerabile, in quanto non farebbe parte della mia esperienza.

Proprio per questo motivo non posso comprendere fino in fondo l’impatto che la stessa parola potrebbe avere su chi quel corpo lo vive, lo sente, e magari lo soffre in silenzio ogni giorno.

Questo mostra un limite importante dell’empatia: non sempre possiamo metterci davvero nei panni dell’altro, poiché non condividiamo la stessa storia, le stesse ferite, o le stesse insicurezze.

Ciò che per me è una “semplice battuta”, per qualcun altro può essere la conferma dolorosa di anni di umiliazioni e paure.

Dunque, basare il nostro linguaggio solo ed esclusivamente sulla nostra personale sensibilità può essere un errore. L’empatia è fondamentale, ma non basta da sola.

E tuttavia, questo non la rende inutile. Come ci ricorda la filosofa Martha Nussbaum, l’empatia non è una soluzione perfetta, ma è ciò che ci impedisce di trasformare l’altro in un bersaglio. L’empatia ci ricorda che di fronte a noi c’è una persona, con una storia che non conosciamo appieno.

L’empatia non garantisce la verità, né ci rende impeccabili, ma previene l’indifferenza, e l’indifferenza è il vero terreno su cui cresce la violenza, il disprezzo e la crudeltà quotidiana, quella che non sembra grave ma che corrode lentamente i legami umani.

In parole povere, possiamo affermare che:

“L’empatia non ci permette di capire tutto, ma ci impedisce di non vedere niente.”

Il politicamente corretto è giusto o sbagliato?

Il politicamente corretto può essere interpretato come uno sforzo di rendere il linguaggio più equo, inclusivo e consapevole. Nasce dall’idea che le parole sono strumenti che possono ferire ed escludere il prossimo.

Il dibattito moderno sul politicamente corretto nasce da due timori opposti:

  • Chi difende la libertà assoluta teme che il politicamente corretto elimini il dissenso e la creatività.

  • Chi difende la sensibilità linguistica teme che senza limiti si legittimino pregiudizi e violenze.

Entrambe le preoccupazioni sono reali e fondate.

Come possiamo capire se il politicamente corretto è giusto o sbagliato?

Dire che l’obesità è una malattia – come riconosciuto dalla medicina e dall’organizzazione mondiale della sanità – significa descrivere un dato oggettivo relativo alla salute.

È un’informazione che ha a che fare con la prevenzione, la cura e il benessere della persona. Questo tipo di affermazione non contiene nessun tipo di giudizio morale, ma riguarda il corpo in quanto organismo biologico, e non il valore della persona.

È qualcosa di profondamente diverso dal dire “sei brutto perché sei grasso”. In quel caso, la frase non comunica un’informazione, ma colpisce la dignità della persona. 

Molte critiche al politicamente corretto nascono proprio da questa confusione: si pensa che non si possa più dire nulla, quando in realtà la distinzione è chiara e ben visibile:

  • Una cosa è discutere di fatti

  • Un’altra cosa è giudicare o umiliare una persona sulla base di quei fatti.

Nella forma più pura, il politicamente corretto rappresenta un modo per non censurare, ma responsabilizzare: occorre ricordare che parlare rappresenta un atto etico oltre che comunicativo.

Detto questo, bisogna accettare il fatto, che anche il politicamente corretto, se spinto all’eccesso, può essere usato come uno strumento per bloccare il pensiero critico e il dialogo.

Ecco cosa succede quando il politicamente corretto si trasforma in una imposizione dogmatica:

  • le persone non parlano perché capiscono, ma perché temono giudizi;

  • non si dialoga più per cercare la verità, ma per evitare di essere umiliati;

  • la comunicazione diventa più prudente, a volte persino ipocrita.

Allo stesso modo, anche il messaggio opposto – “il grasso è bello” – può risultare fuorviante. L’intenzione è positiva, in quanto atto a contrastare l’odio verso la propria immagine, promuovendo una migliore autostima.

Tuttavia, se questo discorso non è accompagnato da una sana consapevolezza critica, rischia di trasmettere l’idea che essere in una condizione di obesità sia del tutto neutro o privo di implicazioni sulla salute, quando la medicina riconosce che non è così.

Qui la questione non è giudicare le persone, né dire come dovrebbero essere i loro corpi.
Il punto è distinguere tra:

  • Accettazione e rispetto della persona, sempre e comunque;

  • Normalizzare una condizione clinica che può comportare rischi reali.

In questo senso, il politicamente corretto non dovrebbe negare i fatti, o cambiare la realtà delle cose. 

Occorre trovare una via di mezzo

L’alternativa non è tra “parlare senza freni” e “non parlare affatto”, ma tra due modi di concepire il dialogo:

  • La libertà di parola non deve legittimare la libertà di poter ferire deliberatamente il prossimo.

  • Il politicamente corretto non deve diventare uno strumento di silenziamento morale.

Conclusione

La libertà di parola è un diritto irrinunciabile, ma non può esistere senza la consapevolezza delle conseguenze delle parole. Allo stesso modo, il politicamente corretto può essere un passo verso una società più giusta, ma solo se non diventa un’imposizione ideologica.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona.Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei