La scienza secondo Popper: quando un fallimento vale più di mille successi
“Un milione di esperimenti riusciti non può dimostrare che una teoria sia corretta, ma un solo esperimento fallito può dimostrare che è sbagliata.”
Questa frase, ripetuta spesso nei dibattiti sul metodo scientifico, sembra riassumere perfettamente lo spirito della ricerca scientifica: razionale, spietata, e onesta. Davvero basta un solo fallimento per buttare via un’intera teoria?
Questa idea nasce dal pensiero di Karl Popper, uno dei filosofi più influenti del novecento, e dal suo principio del falsificazionismo. Popper voleva spiegare come funziona la scienza e perché essa progredisce.
Secondo lui, il segreto non è nel confermare le teorie, ma nel cercare costantemente di smentirle.
Popper e la sua rivoluzione logica
Negli anni ’50, Karl Popper criticò con forza alcuni campi della conoscenza che, a suo parere, si spacciavano per scientifici senza meritarlo. Un esempio? La psicologia freudiana.
Gli studiosi di Freud, secondo Popper, erano abilissimi nel trovare conferme: qualsiasi comportamento — aggressività, sogni, ansie, desideri, persino il loro contrario — poteva essere spiegato come effetto dell’inconscio. Proprio per questo motivo la teoria non correva rischi, perché nessun fatto poteva davvero smentirla.
PER CAPIRE MEGLIO IL PENSIERO DI POPPER: Secondo Popper, due psicologi freudiani che discutono tra loro non possono davvero confutarsi, perché la teoria psicoanalitica — così com’era — non stabilisce criteri oggettivi per decidere chi ha ragione.
Se io interpreto un sogno dicendo che significa una cosa (“è un desiderio represso”) e tu dici che significa un’altra (“è una paura inconscia”), entrambi possiamo inventare spiegazioni coerenti con la teoria.
Non c’è un esperimento, una misurazione o un’osservazione che possa dire in modo oggettivo chi dei due abbia ragione. Tutte le interpretazioni possono essere “aggiustate” per sembrare valide.
Popper chiamò queste teorie “non falsificabili”. Una vera teoria scientifica, spiegava, deve dirci non solo cosa possiamo aspettarci di osservare, ma anche cosa non dovremmo mai vedere.
Se dopo innumerevoli tentativi non troviamo nulla che la contraddica, allora la teoria guadagna credibilità, ma se anche un solo esperimento dimostra il contrario, essa va abbandonata.
Il fascino e i limiti della logica
Secondo Popper, il metodo induttivo – cioè il ragionare “dal particolare al generale”, traendo leggi generali a partire dall’osservazione di molti casi particolari – è intrinsecamente debole.
Nessuna quantità di osservazioni concordi, per quanto numerose, può garantire con assoluta certezza la verità di una legge generale: vedere mille cigni bianchi non dimostra che tutti i cigni del mondo siano bianchi. L’induzione, per Popper, non è in grado di fondare la scienza su basi logiche solide.
Al contrario, la deduzione – il ragionamento “dal generale al particolare” – permette un controllo rigoroso delle teorie. È lo strumento logico della falsificazione: se una teoria formula un’affermazione universale, come “tutti i cigni sono bianchi”, basta un solo caso contrario, come vedere un cigno nero, per dimostrarne la falsità.
Non possiamo mai verificare definitivamente una teoria, ma possiamo confutarla. Secondo Popper è proprio in questo processo continuo di prova ed errore, di ipotesi sottoposte e tentativi di confutazione, che la scienza progredisce.
Popper, Eddington e la sfida tra Newton ed Einstein
Durante un’eclissi totale di Sole, Eddington e la sua squadra osservarono un fenomeno che, almeno in apparenza, confermava la teoria della relatività generale di Albert Einstein, pubblicata solo pochi anni prima.
Secondo Einstein, la gravità non è una “forza” che agisce a distanza, come credeva Newton, ma una curvatura dello spazio-tempo: un po’ come se una palla pesante (il Sole) deformasse il tessuto elastico dell’universo, facendo curvare le traiettorie degli oggetti – e persino della luce – che passano vicino.
E così, quando Eddington notò che la luce delle stelle appariva leggermente deviata nel suo passaggio accanto al Sole, sembrò che Einstein avesse vinto la “partita”.
Popper interpretò questo episodio come l’esempio perfetto del suo principio di falsificazionismo:
La teoria di Newton affermava che la luce non si curva.
L’esperimento mostrava che invece lo fa.
Dunque, secondo la logica di Popper, la teoria newtoniana era falsificata e doveva essere scartata.
Semplice, no?
Eppure la realtà – come spesso accade nella scienza – non seguì questo copione così netto.
La prudenza degli scienziati
Quando i risultati dell’esperimento furono resi pubblici, la comunità scientifica non abbandonò Newton, anzi, molti scienziati restarono scettici. Alcuni pensarono che le fotografie scattate durante l’eclissi non fossero abbastanza nitide; altri sospettarono che la corona solare, con il suo bagliore diffuso, potesse aver alterato le misurazioni.
E avevano ragione ad essere prudenti. A quel tempo, gli strumenti di osservazione erano ancora rudimentali e il margine d’errore nelle misure era notevole.
Buttare via più di due secoli di fisica newtoniana – una teoria che aveva spiegato il moto dei pianeti, la caduta dei corpi e l’intera meccanica classica – sarebbe stato un gesto azzardato, quasi irresponsabile, sulla base di un solo esperimento incerto.
Solo negli anni successivi, con misurazioni più precise e ripetute, il quadro divenne chiaro: Einstein aveva davvero ragione. La luce si piega nello spazio curvato dalla massa del Sole, ma quella certezza fu il frutto di anni di lavoro collettivo, e non di un singolo lampo di genio o di un esperimento isolato.
La scienza non funziona come un tribunale
Popper immaginava la scienza come un processo, in cui una teoria si presenta “davanti al tribunale della ragione” e, se un esperimento la smentisce, viene condannata senza appello.
Nella realtà, però, gli scienziati non ragionano in modo così rigido. Un esperimento non è mai un verdetto finale, ma piuttosto una testimonianza: utile, importante, ma da interpretare alla luce di molte altre prove.
Se ogni anomalia sperimentale bastasse per scartare una teoria, la scienza non andrebbe mai avanti.
Ogni misurazione è influenzata da:
Limiti tecnologici (strumenti imprecisi, errori di calibrazione);
Condizioni ambientali non controllabili al 100%;
Interpretazioni umane, inevitabilmente fallibili;
E anche teorie di supporto che usiamo senza metterle in dubbio (per esempio, le leggi dell’ottica o i modelli di calcolo).
Quando un risultato contraddice una teoria, la prima domanda che uno scienziato serio si pone non è se “la teoria sia sbagliata”, ma se “abbia fatto bene i conti” o se “ci sia qualcosa che gli sfugge”.
Per questo, dopo il 1919, nessuno “buttò” via i principi di Newton. Molti continuarono a usarli – e ancora oggi li usiamo – perché le leggi di Newton restano perfettamente valide in moltissimi casi, come la progettazione di un ponte o il calcolo della traiettoria di un satellite.
La relatività generale è più accurata, certo, ma diventa davvero necessaria solo in condizioni estreme, come la velocità prossima a quella della luce, campi gravitazionali intensi, o distanze cosmiche.
Buona e cattiva scienza: una sottile differenza
Per capire meglio dove Popper sbagliava, immaginiamo due situazioni:
Uno studente di chimica esegue un esperimento in laboratorio: il liquido nella provetta dovrebbe diventare blu, ma diventa verde. “Ho falsificato la chimica moderna!”, esclama. Ovviamente no: è molto più probabile che abbia sbagliato una misura o usato i reagenti sbagliati.
Il CERN, dopo aver acceso per la prima volta il Large Hadron Collider, non trova il bosone di Higgs. Se avessero applicato il rigore popperiano, avrebbero concluso che la fisica delle particelle era sbagliata, ma non lo fecero. Continuarono a cercare, migliorando strumenti e metodi, finché nel 2012 il bosone fu finalmente scoperto.
In entrambi i casi, il “fallimento” iniziale non bastava a confutare la teoria. Prima di gettare via anni di ricerca, gli scienziati devono essere certi che non sia stato un errore tecnico, o un dato incompleto a causare l’apparente smentita dei risultati.
La scienza reale è meno perfetta di come la immaginiamo
Il vero problema del falsificazionismo è la sua rigidità. In pratica, nessun esperimento singolo può falsificare da solo una teoria. C’è sempre la possibilità che l’errore sia altrove: nel modo in cui si misura, negli strumenti, o perfino nelle ipotesi di contorno che diamo per scontate.
Popper chiedeva un metodo quasi matematico per distinguere la scienza dalla non-scienza, ma la scienza vera, quella dei laboratori e dei telescopi, è molto più “sporca”, dato che è fatta di dubbi, errori, revisioni, e correzioni continue.















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