Dal linguaggio all’odio: come nasce la disumanizzazione?

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Nel Sud degli Stati Uniti, durante i tempi bui della segregazione, i bianchi paragonavano il linciaggio degli uomini neri all’uccisione di polli o serpenti.

I nazisti, nel loro delirio ideologico, definivano gli ebrei “vermin”, cioè parassiti, mentre durante il genocidio ruandese del 1994, gli Hutu chiamavano i Tutsi “scarafaggi” e “serpenti”.

Dietro questi paragoni apparentemente simbolici si nascondeva un meccanismo atto a disumanizzare, cioè a negare agli altri lo status di esseri umani. Chi è visto come un animale, una malattia o un demone, può essere annientato senza rimorso. Non è un uomo, ma una minaccia da estirpare.

Che cos’è davvero la disumanizzazione?

Il termine “disumanizzazione” indica il trattare o percepire qualcuno come “meno che umano”. Ok, ma cosa significa, nel concreto, vedere un altro essere umano in questo modo? E soprattutto: perché accade?

Gli studiosi hanno cercato di rispondere a queste domande, ma non esiste una sola definizione. Alcuni sostengono che la disumanizzazione non riguardi solo gli orrori estremi della storia, ma anche le violenze quotidiane, come l’abuso sugli anziani, la brutalità verso i detenuti, o l’indifferenza verso i disabili.

In fondo, ogni volta che neghiamo la dignità di qualcuno, non stiamo forse togliendo loro una parte di umanità? Eppure bisogna fare attenzione: se tutto diventa “disumanizzazione”, allora il termine perde di significato.

Non basta fare qualcosa di profondamente ingiusto – come truffare una famiglia povera – per parlare di disumanizzazione, a meno che non si accompagni a una negazione dell’umanità stessa della vittima.

Le radici della disumanizzazione: le credenze

Secondo alcuni pensatori, la disumanizzazione nasce da una credenza profonda, che l’altra persona non sia del tutto umana, ma una creatura “subumana”. Chi pensa così si sente autorizzato a trattare gli altri con crudeltà, come si farebbe con gli animali o i parassiti.

È un meccanismo mentale spaventoso, poiché permette di eliminare ogni briciolo di compassione. Come giustificavano, ad esempio, i nazisti lo sterminio degli ebrei? Dicendo che erano ratti portatori di malattie. E se davvero credi che qualcuno sia un ratto, non ti senti in colpa nel “disinfestare”.

Alcuni studiosi, come David Livingstone Smith, sostengono che i disumanizzatori credano letteralmente che le loro vittime abbiano l’essenza o “l’anima” di creature inferiori.

Così, per gli Hutu, i Tutsi non erano solo “degli scarafaggi”, ma lo erano in senso metafisico: esseri che appaiono umani ma che dentro sarebbero “altro”.

Un’idea inquietante, certo, ma che spiegherebbe molte cose: se davvero si pensa che l’altro non sia umano, diventa più facile distruggerlo senza provare alcun tipo di rimorso

Un problema di credenze… o di azioni?

Esiste però un ostacolo, non sempre possiamo sapere cosa creda davvero una persona. Forse chi compie atrocità non pensa davvero che l’altro sia un animale, ma lo tratta come tale solo per obbedire, per paura, o per semplice convenienza.

Ecco, perché altri studiosi preferiscono concentrarsi non sulle credenze, ma sulle azioni: sul trattamento disumanizzante che possiamo vedere, osservare, e denunciare.

Il trattamento disumanizzante: quando si agisce come se l’altro non fosse umano

Come si riconosce un comportamento disumanizzante? Non basta trattare una persona come tratteremmo un animale, poiché spesso non trattiamo nemmeno gli animali in quel modo.

Il linciaggio, lo stupro, la tortura — nessuno li infliggerebbe a un cane o a un gatto. Allora cosa rende un atto “disumanizzante”? Alcuni filosofi hanno proposto tre idee principali:

  1. Negare gli interessi umani fondamentali. La disumanizzazione si manifesta quando si impedisce a qualcuno di vivere ciò che è essenzialmente umano, come la libertà, l’autonomia, o la dignità. Pensiamo alla schiavitù: non si toglie solo la libertà, ma si nega la stessa idea di essere umano.

  2. Sostenere l’oppressione di gruppo. Quando un’intera categoria di persone viene sistematicamente trattata come inferiore, la disumanizzazione diventa un’arma politica.

  3. Agire con intenzioni malevole. Spesso chi disumanizza non vuole solo ferire, ma cerca di togliere il diritto di appartenere al mondo degli esseri umani, come se non meritasse più di far parte della nostra comunità morale.

Ogni teoria, tuttavia, presenta i suoi limiti. Per esempio, se consideriamo disumanizzante qualsiasi azione che impedisca a una persona di esprimere la propria libertà o dignità, finiremmo per includere anche comportamenti che, pur essendo ingiusti, non negano del tutto l’umanità dell’altro.

Pensiamo, ad esempio, a un datore di lavoro che tratta i propri dipendenti con freddezza o li priva di autonomia nelle decisioni: è certamente un atteggiamento sbagliato e oppressivo, ma non implica necessariamente che egli li consideri “meno che umani.”

Allo stesso modo, se per capire se un atto è disumanizzante dobbiamo conoscere le intenzioni dell’autore, rischiamo di non poter mai giudicare con certezza.

Il paradosso dei “mostri umani”

Esiste poi un aspetto affascinante e terribile allo stesso modo: molti disumanizzatori sono incoerenti, dato che alternano termini come “scarafaggio”, “criminale”, “ratto” e “nemico del popolo”. Ma allora le vittime sono viste come animali o come persone? Forse entrambe le cose.

Smith suggerisce un’interpretazione sorprendente: i disumanizzati vengono visti come mostri, o creature ibride, “metafisicamente minacciose”, come i vampiri e gli zombie dei film horror, che appaiono umani, ma non lo sono davvero.

Questo spiegherebbe perché i disumanizzatori usano un linguaggio misto, a metà tra umano e non umano.

Altre domande aperte

La disumanizzazione solleva un’infinità di dilemmi.
Ad esempio:

  • Può colpire un individuo singolo, o solo interi gruppi?

  • In che modo si intreccia con fenomeni come razzismo, misoginia, specismo, od oggettivazione?

  • È sempre e comunque sbagliata? Immagina una persona che, per sopravvivere a una relazione violenta, inizi a vedere il proprio aggressore come un mostro. In quel caso, la disumanizzazione non diventa forse una legittima difesa?

Ci sono anche riflessioni più speculative ma interessanti. Se un’intelligenza artificiale senziente venisse trattata come un oggetto, sarebbe “disumanizzata”? E se un alieno intelligente fosse insultato, escluso o torturato, come dovremmo chiamare quel trattamento?

Forse, come suggeriscono alcuni studiosi, il termine giusto non sarebbe “disumanizzazione”, ma depersonalizzazione — una perdita del riconoscimento morale, indipendentemente dalla specie.

Conclusione

Studiare la disumanizzazione non è un esercizio accademico astratto, ma rappresenta un modo per capire il motivo per cui gli esseri umani arrivano a commettere atrocità inimmaginabili, e — soprattutto — come possiamo evitarle in futuro.

Ogni volta che una persona o un gruppo viene descritto come un animale, una malattia o un mostro, stiamo già aprendo la porta alla violenza.

La disumanizzazione comincia con le parole, ma finisce spesso nel sangue. Ricordarlo è un dovere morale, perché solo riconoscendo l’umanità negli altri possiamo salvare la nostra.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona.Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei