Politica delle emozioni: vince la rabbia o conta ancora la competenza?

politico urla forte

Conta ancora la competenza o ormai vince solo chi sa urlare più forte?

Negli ultimi anni stiamo assistendo a una trasformazione silenziosa ma radicale. Non è più la forza degli argomenti a dominare il dibattito, bensì la potenza dell’impatto emotivo. Non importa tanto cosa dici, ma come fai sentire gli elettori e le elettrici che ascoltano il tuo discorso. Il contenuto razionale lascia il posto alla risposta emotiva. E chi urla più forte sembra avere la meglio.

Ma davvero è sempre stato così? O siamo entrati in un’epoca in cui la competenza è diventata secondaria, quasi un dettaglio fastidioso, rispetto alla capacità di generare adrenalina e indignazione? Per rispondere dobbiamo analizzare a fondo i meccanismi psicologici, sociali e mediatici che ci hanno portato a questo punto.

Il potere delle emozioni nel discorso pubblico

Gli psicologi lo sanno bene. L’essere umano non è un computer che elabora dati freddi. È un animale sociale che reagisce in primo luogo con la pancia e le neuroscienze lo confermano appieno. Le decisioni politiche non vengono prese nella corteccia prefrontale, sede del ragionamento analitico, ma nel sistema limbico, cuore pulsante delle emozioni.

Quando un leader politico alza la voce, punta il dito o mostra il volto teso, sta parlando direttamente a quella parte primitiva del nostro cervello che si accende con la paura e si esalta con la rabbia. E noi rispondiamo, spesso senza rendercene conto.

Gli studi sul cosiddetto “effetto paura” hanno dimostrato che un messaggio costruito sull’allarme cattura molta più attenzione di uno basato sulla logica. È la stessa dinamica che rende irresistibili i titoli sensazionalistici o i post sui social che fanno leva sullo sdegno. Ciò che minaccia la nostra sicurezza si imprime nella memoria più di qualsiasi dato statistico.

Ecco perché i discorsi politici che puntano sul rischio imminente, sul nemico da combattere o sulla catastrofe in arrivo sono così efficaci. Non ci invitano a riflettere, ma ci costringono a reagire velocemente tramite la nostra emotività.

  • La rabbia crea appartenenza. Ci fa sentire parte di un gruppo che combatte un nemico comune.

  • La paura spinge all’azione immediata. Porta a dire “bisogna fare qualcosa” prima ancora di capire cosa.

  • L’entusiasmo motiva. Rende credibile qualsiasi promessa, anche la più irrealistica.

In questo scenario la competenza diventa un dettaglio secondario. Chi ha la soluzione migliore, se non riesce a comunicarla in modo emotivo, resta indietro.

Dal ragionamento al tifo da stadio

La politica si è trasformata in un’arena da stadio. Le persone non ascoltano più per capire, ma per tifare.

Habermas, con il concetto di sfera pubblica, descriveva uno spazio ideale dove i cittadini potessero discutere liberamente di questioni comuni per arrivare a un consenso basato sulla forza degli argomenti e non sulla forza del denaro, del potere o della propaganda.

Immagina questo spazio come a una sorta di “piazza razionale” in cui ognuno porta idee, dati, opinioni e queste vengono vagliate con spirito critico. In teoria, è proprio questo dialogo che dovrebbe nutrire la democrazia e renderla sana. Oggi non è più così. Non si discute più per trovare la verità, ma per difendere la propria bandiera.

Basta guardare i social network. Gli algoritmi premiano i contenuti che generano interazioni, non quelli più competenti. E cosa genera più interazioni? Le emozioni forti, le frasi urlate, e i contrasti netti. Una tabella di dati raramente diventa virale, mentre un video che scatena indignazione può farlo in pochissimi minuti.

È come se il dibattito pubblico avesse subito una mutazione genetica. La discussione razionale è stata risucchiata in un buco nero di emotività.

Tre fenomeni accompagnano questa trasformazione:

  • Polarizzazione. I cittadini si dividono in tribù sempre più chiuse, incapaci di ascoltare chi la pensa diversamente.

  • Semplificazione estrema. Problemi complessi vengono ridotti a slogan di poche parole.

  • Leader-centrismo. Non conta più il programma ma il carisma del leader, capace di catalizzare emozioni come un influencer.

Ecco il paradosso. Più il mondo diventa complicato, più le risposte vengono semplificate.

La parabola della competenza politica

Un tempo la competenza era il lasciapassare principale per entrare nei palazzi del potere. Pensiamo al dopoguerra, quando i leader erano spesso professori, giuristi, ed economisti. Figure che avevano costruito la loro credibilità su anni di studio, sacrifici e carriera accademica.

Negli ultimi anni in Italia invece, diversi personaggi con poca o nessuna esperienza politica tradizionale hanno ottenuto visibilità e in alcuni casi incarichi molto importanti grazie a episodi sensazionalistici, più che per meriti di competenza.

Prendiamo il caso di Ilaria Salis. La sua vicenda giudiziaria in Ungheria, raccontata dai media italiani e internazionali, l’ha trasformata in pochissimo tempo da attivista poco conosciuta a volto simbolo di una battaglia per i diritti.

In questo caso la forza non è stata la competenza politica o la carriera accademica, ma l’impatto emotivo di immagini e racconti di un’ingiustizia percepita come tale.

Daniela Santanchè ad esempio è stato un esempio di come la visibilità mediatica possa aprire le porte della politica. Nata come imprenditrice e poi diventata un volto frequente della televisione, ha costruito la propria notorietà molto più sull’impatto comunicativo che su competenze tecniche specifiche.

È proprio questa capacità di stare al centro del dibattito, di accendere i riflettori e di occupare lo spazio mediatico, che le ha permesso di consolidare la propria presenza sulla scena politica italiana.

Un altro caso emblematico è quello di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano Cucchi, che ha trasformato la sua battaglia per la verità e la giustizia in un percorso politico.

La sua elezione non nasce da una carriera partitica classica, ma dal ruolo di portavoce di una vicenda che ha segnato profondamente l’opinione pubblica. La sua forza comunicativa non è tanto l’abilità tecnica, quanto la capacità di incarnare un simbolo di resistenza civile e di lotta contro gli abusi.

Ma prendiamo anche il caso di Beppe Grillo fondatore del movimento 5 stelle, che è entrato nella politica più come comico e provocatore, che come esperto di politiche pubbliche. È riuscito a costruire un intero partito politico esclusivamente sul suo carisma mediatico.

Il punto è che l’effetto emozionale immediato sembra oggi pesare più del percorso di competenze. In passato, per sedersi a un tavolo istituzionale servivano anni di carriera e credenziali. Oggi basta spesso una vicenda che colpisce l’opinione pubblica e lancia chi la vive direttamente sotto i riflettori.

E qui torna il paradosso: mentre i problemi del mondo diventano sempre più complessi – dall’intelligenza artificiale al cambiamento climatico, dalle crisi economiche alle geopolitiche – l’accesso al potere rischia di premiare chi ha saputo cavalcare l’onda dell’indignazione o della commozione, anche se privo delle competenze per affrontare quelle sfide.

I media come amplificatori di emozioni

Per capire davvero questa trasformazione bisogna guardare al ruolo dei media. Non solo come strumenti neutrali, ma come veri e propri amplificatori di emozioni.

La televisione, per decenni, è stata la regina incontrastata. I telegiornali hanno progressivamente sostituito i dibattiti approfonditi con risse verbali in cui vinceva chi sapeva alzare la voce meglio.

Poi è arrivata l’epoca dei social network. Qui l’effetto si è moltiplicato all’infinito. L’algoritmo non è neutrale, ma un selezionatore di emozioni. Premia i contenuti che fanno reagire e che scatenano like, cuori, rabbia e commenti furiosi.

Il risultato è un ecosistema tossico in cui l’attenzione è la valuta più preziosa. E l’attenzione si conquista non con la competenza, ma con le emozioni.

  • Una frase provocatoria può oscurare un intero programma politico.

  • Un video di 30 secondi può avere più impatto di un piano economico di 300 pagine.

  • Un hashtag ben congegnato può diventare più potente di qualsiasi discorso parlamentare.

In questo scenario, i media tradizionali non sono scomparsi, ma hanno imparato a inseguire la stessa logica. Anche i giornali e le televisioni, per non perdere pubblico, spesso cavalcano lo stesso linguaggio emotivo che imperversa online.

Ecco perché un politico competente che parla di bilanci pubblici rischia di non fare notizia, mentre chi insulta l’avversario, lancia una provocazione o scatta una foto “popolare” ottiene titoli e prime pagine.

Quando la rabbia soffoca la competenza

Un Paese governato più dalle emozioni che dai dati rischia di compiere scelte impulsive.

Gli effetti più pericolosi si manifestano in tre aree fondamentali:

  • Politiche a breve respiro. Le decisioni vengono prese per cavalcare l’onda emotiva del momento, senza valutare le ricadute future.

  • Debolezza istituzionale. Gli organi di controllo e le competenze tecniche vengono screditati come ostacoli burocratici.

  • Perdita di fiducia. Quando la retorica non trova conferma nella realtà, cresce il disincanto e si alimenta il cinismo verso la politica.

E gli esempi storici non mancano. Paesi travolti da leader che hanno saputo manipolare rabbia e paura hanno spesso imboccato strade autoritarie. L’entusiasmo di oggi può trasformarsi nella delusione di domani, e la disillusione, si sa, è terreno fertile per l’instabilità.

I rischi che corre la democrazia

La democrazia si regge su due fattori: da un lato c’è il consenso popolare, mentre dall’altro la competenza delle istituzioni. Se una delle due viene meno, l’equilibrio vacilla.

Quando vince solo l’emozione, la democrazia corre tre grandi rischi:

  • Semplificazione estrema. I problemi complessi vengono ridotti a slogan, ma uno slogan non costruisce ospedali né risolve crisi economiche.

  • Personalizzazione eccessiva. Il destino di un paese viene legato a un singolo leader. Se cade lui, cade tutto il sistema di fiducia.

  • Esclusione del conoscitore esperto. Gli scienziati, i tecnici e gli accademici vengono dipinti come “élite distaccate”, perdendo così un patrimonio essenziale di conoscenza.

Un esempio chiaro lo abbiamo visto durante il referendum sulla Brexit. Da un lato c’erano economisti ed esperti che spiegavano con dati e analisi i rischi di uscire dall’Unione Europea.

Dall’altro politici e comunicatori che, con slogan semplici e messaggi emotivi come “Take back control”, riuscivano a catturare milioni di consensi. Quale voce è stata ascoltata di più?

La democrazia non può reggersi solo sull’impatto emotivo, ma ha bisogno di un tessuto razionale che permetta di trasformare le emozioni in decisioni concrete e sostenibili.

Come possiamo uscirne?

Siamo ormai destinati a vivere in una politica da stadio, dove vince chi urla di più?

Esistono almeno tre strade possibili da percorrere:

Educazione critica

  • Bisogna abituare i cittadini a riconoscere le tecniche di manipolazione emotiva.
  • Occorre inserire nei programmi scolastici l’educazione ai media e alla comunicazione politica.
  • Bisogna dare strumenti per distinguere un dato verificato da uno slogan senza valore.

Responsabilità dei media

  • Occorre premiare la qualità informativa invece della mera viralità.
  • Bisogna offrire spazi di approfondimento veri, non solo talk show urlati.
  • Bisogna riconoscere che informare non significa solo intrattenere.

Leader più completi

  • Non chiediamo ai politici di essere freddi tecnici, ma possiamo chiedere che sappiano unire passione e competenza.
  • Non basta commuovere, bisogna convincere attraverso i fatti.

Verso quale futuro stiamo andando?

La politica è come uno specchio che riflette le paure, i desideri e i limiti del nostro tempo. Se oggi sembra dominata da rabbia, paura ed entusiasmo è perché viviamo in un’epoca di stress e incertezza. Le crisi economiche, le guerre, le pandemie e la rivoluzione digitale si muovono troppo in fretta. In mezzo a questo vortice le persone cercano risposte immediate, semplici, ed emotive.

Il politico del futuro non sarà né solo un professore né solo un influencer. Sarà una figura ibrida: un ponte tra il sapere e l’emozione. Saprà raccontare senza ingannare, e coinvolgere senza manipolare.

In fondo la domanda che ci accompagna dall’inizio resta aperta. Conta ancora la competenza o vince solo chi sa urlare? La risposta dipende da noi. Perché se continuiamo a premiare il rumore, avremo sempre più rumore. Se invece impareremo a premiare chi porta soluzioni reali, forse ritroveremo quell’equilibrio tra cuore e ragione che oggi sembra smarrito.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei