Non vogliamo sapere: la psicologia dietro il rifiuto della realtà

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Viviamo nell’epoca della trasparenza, o almeno così ci raccontano. Un’era in cui i dati scorrono ovunque, i numeri parlano, gli algoritmi decidono, e la parola d’ordine è “evidenza scientifica”. Tutto dovrebbe essere chiaro, oggettivo e misurabile. Eppure, qualcosa non torna. Sempre più spesso, ci ritroviamo davanti a un paradosso: più informazioni abbiamo, meno sembriamo capaci di accettarle davvero. Non appena un dato ci disturba, lo ignoriamo. Se una statistica mina le nostre convinzioni, la contestiamo. Se una ricerca smentisce ciò in cui crediamo, la screditiamo.

Non si tratta solo di ignoranza o di malafede. Stiamo assistendo a una forma nuova e insidiosa di censura. Non è imposta dall’alto con la forza, ma agisce dal basso, nei meandri della nostra mente. Una censura psicologica, dove l’informazione viene rigettata non perché vietata, ma perché ritenuta fastidiosa. Perché entra in conflitto con ciò che vogliamo credere. Perché in qualche modo rompe l’equilibrio emotivo, mette in discussione la nostra identità e turba la narrazione che ci siamo costruiti.

Ma com’è possibile che il cervello umano, così potente, cada in queste trappole? Perché rifiutiamo la verità anche quando ce l’abbiamo sotto il naso?

Il cervello non vuole la verità. Vuole coerenza

La mente umana ha una priorità su tutte: vuole mantenere una certa coerenza interna. Quando un’informazione esterna entra in conflitto con ciò che già crediamo, si attivano meccanismi di difesa che hanno un solo scopo: proteggere l’integrità del nostro sistema di credenze. Questo fenomeno prende il nome di  dissonanza cognitiva.

Ogni volta che ci troviamo di fronte a un dato che ci contraddice, proviamo disagio. È come se qualcosa ci dicesse: “Ehi, forse hai sbagliato tutto”. Ma invece di accogliere quel campanello d’allarme, lo spegniamo e lo silenziamo. È molto più facile modificare l’interpretazione della realtà che modificare noi stessi.

Un esempio classico?

La persona che sente dire “il cambiamento climatico sta accelerando e le attività umane ne sono la causa principale”. È un fatto sostenuto da migliaia di studi. Ma poi arriva la risposta tipica: “Sì, ma d’inverno ha nevicato tantissimo… quindi dove sarebbe questo riscaldamento?”

Anche qui, un episodio isolato viene usato per negare una tendenza globale. L’esperienza soggettiva prevale sull’evidenza scientifica, perché è più facile da comprendere.

Un aneddoto batte una montagna di dati. Perché? Perché il cervello ha bisogno di proteggere la propria identità più di quanto abbia bisogno di sapere la verità.

Questi sono alcuni dei principali meccanismi psicologici attivati quando l’evidenza ci disturba:

  • Negazione: “Non può essere vero”

  • Razionalizzazione: “Ci sarà sicuramente una spiegazione alternativa”

  • Minimizzazione: “Non è così grave”

  • Attacco alla fonte: “Quella ricerca è pilotata dai poteri forti”

  • Selezione confermativa: “Leggo solo ciò che mi dà ragione”

In pratica, siamo come un software con un antivirus incorporato: ogni dato scomodo viene trattato come un virus da neutralizzare.

La post-verità non è una bugia, ma una scelta emotiva

La verità purtroppo, perde terreno quando entra in conflitto con le proprie emozioni. E oggi, in un’epoca iperconnessa e ipersensibile, le emozioni vincono quasi sempre.

La post-verità non è il trionfo della menzogna. È qualcosa di più raffinato, più sottile e molto più inquietante. È la disponibilità collettiva a preferire ciò che ci rassicura rispetto a ciò che è reale. È l’abitudine a giudicare la qualità di un’informazione non in base alla sua accuratezza, ma al fatto che ci piaccia o meno. Un post virale conta molto più rispetto ad anni di ricerca scientifica.

Pensiamoci bene… Quante volte abbiamo condiviso un articolo solo perché ci ha dato ragione? Quante volte abbiamo scartato una notizia solo perché ci ha fatto sentire a disagio? La verità oggi è diventata un prodotto emotivo. Se ci accarezza, la compriamo. Se ci punge, la buttiamo.

E in questo gioco di percezioni, entrano in scena i bias cognitivi. Sono scorciatoie mentali, utili per sopravvivere, ma disastrose per capire davvero il mondo. Ecco alcuni tra i più rilevanti in questo contesto:

  • Bias di conferma: cerchiamo solo le informazioni che confermano ciò che già pensiamo

  • Effetto Dunning-Kruger: meno sappiamo, più crediamo di sapere

  • Illusione di verità: se qualcosa ci viene ripetuto spesso, finiamo per crederci, anche se è falso

  • Bias dell’ottimismo: tendiamo a credere che le cose andranno bene, anche contro ogni evidenza

Ecco perché la verità, oggi, deve passare non solo per la logica, ma anche per l’empatia. Se non parli al cuore, la mente non ti ascolta.

Infodemia: troppi dati, poca comprensione

C’è un detto che recita “troppa informazione uccide l’informazione”. Nell’era digitale siamo costantemente bombardati da notizie, grafici, statistiche e breaking news. Ma invece di diventare più consapevoli, siamo diventati più disorientati. È il fenomeno dell’infodemia, ovvero la diffusione incontrollata e caotica di informazioni, vere e false, tutte sullo stesso piano.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha usato il termine per la prima volta durante la pandemia di COVID-19. Ma il concetto si applica ormai a tutto: politica, economia, scienza, ambiente e salute mentale. Il problema non è l’assenza di dati. È l’eccesso di dati privi di gerarchia, contesto e senso.

Immagina di entrare in una biblioteca dove tutti i libri sono sparsi a terra, le pagine mischiate, le copertine uguali, e qualcuno ti dice: “Cerca la verità”. Come fai a orientarti? Ecco spiegato cos’è l’infodemia. Una giungla di informazioni senza una guida.

Le conseguenze di questo sono molto pesanti:

  • Paralisi cognitiva: troppe informazioni creano ansia e indecisione

  • Assuefazione alla notizia: niente ci stupisce più, tutto ci scivola addosso

  • Perdita di fiducia: se tutto è vero e falso insieme, allora niente ha valore

  • Delegittimazione del sapere: l’esperto vale quanto un influencer, o anche meno

L’infodemia trasforma la conoscenza in rumore. E nel rumore, chi urla più forte ha sempre la meglio.

La distorsione è un sistema per la propria narrazione personale

La distorsione della comunicazione è un meccanismo strutturato, preciso e funzionale. Serve a mantenere il controllo delle narrazioni. Perché la narrazione è potere.

Chi decide di cosa si può parlare e come, decide anche cosa può essere vero. È un vecchio trucco retorico: se riesco a impostare i termini della conversazione, ho già vinto.

Facciamo un esempio concreto. Se un giornalista racconta un fatto scomodo ma lo inserisce in un titolo con parole emotivamente negative, quel fatto verrà percepito come marginale, sgradevole e divisivo. Lo stesso vale all’opposto: un’informazione vuota può sembrare importante solo perché presentata con enfasi, immagini e testimonianze toccanti.

Ecco alcuni strumenti usati nella distorsione sistematica:

  • Framing emotivo: presentare una notizia attraverso emozioni, non argomenti

  • Cherry picking: selezionare solo i dati che supportano una certa tesi

  • Straw man argument: distorcere l’opinione dell’altro per poi attaccarla più facilmente

  • Guerra semantica: ridefinire i concetti (es. “pace” può significare anche “silenzio forzato”)

  • Saturazione narrativa: ripetere all’infinito una tesi fino a renderla dominante

Non è un caso che molte persone oggi non sappiano distinguere un dato oggettivo da un’opinione. Perché anche i dati, se non contestualizzati, diventano strumenti di persuasione. Possono essere usati per chiarire la realtà, ma anche per oscurarla.

La narrativa dominante: quando contestare è eresia

Ogni epoca ha avuto le sue verità ufficiali. Ma oggi il concetto di narrativa dominante è più sottile. Non viene imposto da un re, da una chiesa o da uno stato totalitario – almeno nei paesi democratici. Viene costruito dalla convergenza di media, social, influencer, esperti, politici e sentimenti di massa. È una verità morbida, seducente e condivisa. Ed è proprio per questo che risulta molto potente.

Chi si oppone viene visto come un pazzo, un pericoloso, un negazionista o un asociale. Anche quando ha dati solidi, studi seri ed evidenze oggettive che confermano la sua tesi. Non importa quanto sia fondata la sua voce,… La psicologia sociale ci insegna che la pressione del gruppo può annientare anche l’evidenza. È l’effetto Asch: tutti dicono che una linea è più lunga dell’altra, e tu cominci a dubitarne, anche se i tuoi occhi ti dicono il contrario.

Alcuni esempi di narrative dominanti difficili da contestare:

  • “La scienza ha sempre ragione” (senza distinguere tra consenso scientifico e dogma)

  • “Chi si informa su internet è pericoloso” (come se il mezzo invalidasse il contenuto)

  • “Se non sei d’accordo con la maggioranza, sei contro il bene comune”

Siamo passati da un mondo dove la censura era palese, a uno dove la censura è interiorizzata. Perché ti fa sentire in colpa se dubiti. Ti isola se fai domande. Ti umilia se pensi in modo diverso. Non sto dicendo che chi la pensa diversamente ha sempre ragione, anzi… nella maggioranza dei casi è molto probabile che abbia torto, ma in quei pochi casi potrebbe cambiare completamente la verità su narrazioni manipolate.

Resistere alla verità: una questione di identità

Accettare una verità che contraddice ciò in cui crediamo non è solo una sfida logica. È una crisi esistenziale. Perché le idee, le opinioni e le convinzioni… non sono solo pensieri. Sono estensioni della nostra identità. Dire “mi sbagliavo” non è semplicemente correggere un errore. È ammettere che una parte di noi era fragile, imperfetta e mal informata. E il nostro ego non sopporta questo affronto.

Pensaci bene. Quante persone si dichiarano apertamente “razionali” e poi difendono con i denti credenze chiaramente infondate? Quanti esperti rifiutano nuove scoperte solo perché non combaciano con la loro teoria? Quanti attivisti cadono nella trappola della disinformazione in buona fede, semplicemente perché quella bugia difende la loro causa?

Il cervello non è un ricercatore della verità. È un avvocato difensore del proprio io.

Ecco perché, quando un fatto ci mette in crisi, reagiamo con:

  • rigetto emotivo (ci infastidisce fisicamente)

  • difesa automatica (“non è possibile!”)

  • attacco personale a chi porta quel fatto (“sei venduto, sei manipolato, sei ignorante”)

  • auto-rafforzamento identitario (ci rifugiamo nel gruppo che la pensa come noi)

In altri termini, la verità viene rifiutata non per ciò che è, ma per ciò che ci fa sentire.

Appartenenza vs realtà: la tribù prima di tutto

Gli esseri umani sono animali sociali. Ma ancora prima, sono animali tribali. Siamo programmati per desiderare l’approvazione del gruppo, per temere l’esclusione e per proteggere la nostra “famiglia ideologica”. E quando un dato minaccia l’armonia della tribù, veniamo respinti con forza.

In molte comunità – religiose, politiche, culturali – credere in certe cose non è un’opzione, è un requisito fondamentale per essere accettati. Se inizi a dubitare, diventi un traditore. Un outsider. E allora ecco che anche le menti brillanti si autocensurano. I dati vengono ignorati non perché irrilevanti, ma perché socialmente pericolosi.

Questa dinamica è fortissima nei social network, che funzionano come camere dell’eco. Gli algoritmi premiano i contenuti che confermano ciò che pensi. Ti mostrano solo ciò che ti fa stare bene e che rafforza la tua visione del mondo. Così ti convinci di essere nel giusto, anche quando sei nel torto. E chi prova a portarti una voce diversa viene subito escluso, bloccato e insultato.

Bisogna educarci al dubbio, anche in quello facile

E allora? Siamo condannati all’autoinganno? La verità deve arrendersi? Non proprio. Dobbiamo cambiare strategia. Se vogliamo che le persone accettino dati scomodi, dobbiamo prima aiutarle a reggere il disagio che quei dati provocano.

È come preparare un corpo a una medicina forte. Se somministri una verità troppo dolorosa a una mente non allenata, il rigetto è garantito. Ma se accompagni la persona e la fai sentire al sicuro, allora potrà iniziare ad accettare quella verità, seppur dolorosa.

Educare al dubbio significa:

  • insegnare che cambiare idea è segno di forza, non di debolezza

  • valorizzare l’umiltà intellettuale, non l’arroganza dell’opinione

  • allenare le persone a fare domande, non solo a cercare risposte

  • costruire una cultura dove l’evidenza conta più dell’identità

  • normalizzare l’errore, il ripensamento e il “non so”

Significa anche dare alle persone strumenti per valutare le fonti, leggere i dati e distinguere le emozioni dai dati reali.

Verità e responsabilità: il coraggio di guardare in faccia la realtà

Arrivati a questo punto, non possiamo più ignorare la questione centrale. Se oggi la verità viene rifiutata, distorta, ridicolizzata o ignorata, la colpa non è solo dei media, degli algoritmi, dei social o della politica, ma è anche – e soprattutto – nostra.

Lo so, la verità vera è scomoda, richiede tempo, fatica e pazienza.
E ti assicuro, che anche il sottoscritto in molti casi è caduto preda del fascino delle scorciatoie mentali. Ho creduto a notizie che mi facevano comodo, ignorando dati che mi mettevano a disagio. Ho scelto di stare dalla parte di ciò che mi rassicurava invece di ciò che mi metteva in discussione.

Perché è umano. Siamo tutti vulnerabili al bisogno di avere ragione, di sentirci al sicuro e di non dover rimettere in discussione l’immagine che abbiamo costruito di noi stessi.
Ma a un certo punto mi sono chiesto: vale davvero la pena vivere in una comoda illusione, se significa restare ciechi davanti alla realtà?

Non parlo di diventare fanatici della “verità assoluta” – quella, probabilmente, non esiste nemmeno. Parlo di un atteggiamento. Quella del dubbio, della curiosità e della volontà sincera di capire anche ciò che non ci piace.
Perché ogni volta che scegliamo di ignorare un fatto solo perché ci mette a disagio, stiamo rinunciando alla nostra crescita personale.
Ogni volta che preferiamo la “conferma facile” alla verità, stiamo fermando la nostra evoluzione come individuo.

Ecco perché serve una nuova forma di responsabilità:

  • Personale: dobbiamo interrogarci, ogni giorno, su cosa crediamo e perché lo crediamo. Dobbiamo chiederci se cerchiamo davvero la verità, o solo conferme

  • Collettiva: serve una cultura condivisa del dubbio, della verifica e del confronto rispettoso. Dobbiamo smettere di premiare chi urla di più e iniziare ad ascoltare chi ragiona meglio

  • Professionale: giornalisti, scienziati, divulgatori e docenti hanno il compito estremamente importante di formare e non solo informare.

Solo accettando questo sforzo possiamo uscire dalla bolla della post-verità. Perché la verità non si impone, si coltiva con pazienza, con disciplina e con coraggio.

Il caso della dieta vegana: quando la verità scomoda minaccia l’identità

Prendiamo un esempio reale e controverso: la dieta vegana. È una scelta che, per molte persone, va ben oltre l’alimentazione. È un vero e proprio sistema di valori. Etica, ecologia, salute, rispetto per gli animali… tutto si intreccia in un’identità forte, spesso vissuta con orgoglio e dedizione. Ed è proprio qui che entra in gioco il meccanismo descritto in questo articolo: quando un fatto scientifico mette in discussione una convinzione identitaria, la mente si difende.

Immaginiamo che emergano studi affidabili che suggeriscono che, in termini puramente statistici, una dieta vegana non promuove necessariamente una maggiore longevità rispetto ad altre diete equilibrate che includono prodotti animali di alta qualità. Il dato, preso in sé, non dice che la dieta vegana è “sbagliata” o “nociva”. Dice semplicemente che non è l’unico fattore determinante per la salute e la longevità.

Eppure, molte persone vegane potrebbero reagire con fastidio, rigetto o negazione. Perché? Perché accettare quel dato significherebbe mettere in dubbio una scelta che riguarda non solo il cibo, ma anche l’identità personale, l’etica e la coerenza con i propri valori. È qui che entra in gioco la dissonanza cognitiva: invece di rivedere la propria visione in modo più sfumato, si preferisce difendere la narrazione originale con ancora più forza.

Ma c’è di più. Se i dati mostrano che i vegani tendono ad avere una salute migliore, potrebbe non essere per l’assenza di carne in sé, ma perché, in media, conducono uno stile di vita più salutare su più fronti. Molti vegani:

  • prendono più sole (quindi più vitamina D)

  • praticano attività fisica regolarmente

  • fanno meditazione o yoga

  • consumano cibi biologici, naturali e poco processati

  • fumano e bevono meno

  • vivono con maggiore consapevolezza alimentare

E quindi, forse il vantaggio osservato non dipende tanto dall’essere vegani in sé, quanto dall’intero stile di vita a cui spesso il veganismo si accompagna.

Dall’altra parte, quando si guarda al consumo di prodotti animali, la questione viene spesso posta in modo binario: o sei vegano, o sei “uno che mangia carne del supermercato pieno di antibiotici tre volte al giorno”. Ma la realtà è molto più sfumata.

Una persona che consuma carne grass-fed, uova biologiche da galline allevate all’aperto e pesce selvatico, in quantità moderate e in un contesto di alimentazione ricca di vegetali, può avere un profilo metabolico e infiammatorio eccellente. Come nel caso delle persone che vivono a Okinawa, o in Sardegna. Loro sono un esempio di persone non vegane ma estremamente longeve.

Questa riflessione non serve a screditare il veganismo né a promuovere il consumo di carne. Serve a mostrare quanto la nostra mente possa semplificare, polarizzare e distorcere i dati quando questi toccano il nostro senso di appartenenza. E soprattutto, che accettare una sfumatura non significa tradire un valore.

In fondo, la vera apertura mentale sta nel riuscire a dire: “Io ho scelto questa strada per convinzioni profonde, ma non ho bisogno di negare l’esistenza di altre strade possibili”. È questa maturità che ci permette di dialogare, di crescere e di restare in ascolto anche quando la verità fa male.

Quando i dati scomodi vengono ridicolizzati: il caso di Okinawa e Sardegna

Continuiamo questo esempio per farti capire ancora meglio. Immagina di portare in questo dibattito le popolazioni che vivono in Sardegna e a Okinawa – Giappone. Queste popolazioni – sono state studiate per decenni per la loro estrema longevità – non sono vegane, né seguono diete restrittive estreme. Consumano un mix di vegetali, legumi, ma anche latticini, uova, pesce e in certi casi carne – seppur con moderazione e di alta qualità.

A quel punto, potresti pensare che questo rappresenti una prova valida a favore dell’idea che non esiste un solo modello alimentare “perfetto”, ma che lo stile di vita complessivo conta più dell’ideologia alimentare. Eppure, per chi ha investito identità e valori nella dieta vegana come unica via verso la salute, questa informazione risulta disturbante. Non può essere accettata.

Non conferma la narrativa dominante del proprio sistema di credenze. Ed ecco che interviene la strategia psicologica di neutralizzazione: “Sì, ma loro sono un’eccezione. Hanno il DNA favorevole. È tutta genetica”.

Questo tipo di reazione è molto rivelatore. Non importa quanto siano solidi i dati o quante siano le eccezioni statistiche che sfidano la visione rigida del proprio pensiero.

La mente, per proteggere l’identità, si rifugia in spiegazioni alternative, non falsificabili e spesso riduttive. In psicologia questo meccanismo prende il nome di “motivated reasoning”, ovvero ragionamento motivato: non si cerca la verità, ma una giustificazione che permetta di continuare a credere ciò che si credeva già.

Ma la verità non funziona così. Non rispetta le ideologie. Non si piega ai gruppi, alle bandiere o ai dogmi. La genetica gioca un ruolo, certo, ma è solo uno dei fattori. Gli studi sulle Blue Zones indicano anche:

  • una vita attiva fino a tarda età

  • forti legami familiari e sociali

  • ritmi lenti, poco stress e contatto con la natura

  • alimenti naturali, stagionali e poco industrializzati

  • moderazione nel cibo e nel vino, ma senza privazioni estreme

  • Consumo non eccessivo di calorie. Non ci si abbuffa tutti i giorni fino a “scoppiare”

Ridurre tutto al “DNA” significa ignorare questa complessità. Significa togliere valore all’insieme delle abitudini quotidiane che favoriscono la longevità. Significa, ancora una volta, proteggere la propria ideologia a scapito dell’evidenza.

E così, anche un dato che dovrebbe ampliare la comprensione viene respinto come irrilevante. Non perché non sia valido, ma perché non è utile a rafforzare il proprio sistema di credenze. E questo è il cuore di tutto ciò che abbiamo detto finora: non rifiutiamo la verità perché non esiste, ma perché ci destabilizza. 

E invece di potenziare la nostra crescita personale, questo comportamento non fa altro che limitarla, soffocarla e rinchiuderla in una gabbia invisibile. Ogni volta che respingiamo un’informazione solo perché ci turba e ogni volta che neghiamo un dato solo perché ci mette in crisi, stiamo scegliendo la sicurezza mentale al posto dell’evoluzione interiore.

Non cresciamo restando dove ci sentiamo a nostro agio. Cresciamo quando ci mettiamo in discussione.
Ma se trasformiamo ogni confronto in una minaccia e ogni voce diversa in un nemico non impareremo mai nulla e resteremo sempre fermi e bloccati dentro una falsa visione del mondo.

Bisogna riscoprire la forza del pensiero lento

La mente ha bisogno di tempo per cambiare e di silenzio per ascoltarsi. Ma tutto nella nostra società ci rema contro. Siamo sempre pervasi costantemente da rumore costante, aggiornamenti continui e notifiche infinite. Viviamo costantemente in apnea cognitiva. E così la verità, quando arriva, ci trova esausti e disarmati.

Serve un cambio radicale. Un’educazione al pensiero lento, come lo chiamava Daniel Kahneman. Occorre riscoprire la potenza della riflessione profonda senza pregiudizio. Solo così possiamo distinguere ciò che è vero da ciò che è semplicemente virale.

Conclusione

In un mondo che cambia alla velocità della luce, la verità non può più essere una roccia immobile. Deve essere un muscolo vivo, che si adatta senza rinunciare alla sua forza.

La nuova censura non vieta, ma confonde.
Non brucia i libri, ma spegne l’interesse.
Non imprigiona i dissidenti, ma li ridicolizza.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei