Sopravviveremo al futuro? Le 5 forze che mettono seriamente in pericolo il pianeta
Da secoli sociologi, economisti e filosofi riflettono sulla possibilità che la crescita della popolazione mondiale possa superare la capacità del pianeta di nutrire l’umanità.
Già nel 1798 Thomas Malthus, nel suo Saggio sul principio della popolazione, sosteneva che l’aumento demografico avanzasse a una velocità troppo elevata rispetto alla produzione alimentare.
Secondo lui la popolazione cresce secondo una progressione geometrica (es. 1, 2, 4, 8, 16…), mentre la produzione alimentare cresce solo in progressione aritmetica (1, 2, 3, 4, 5…).
Da questo squilibrio matematico deduceva che, prima o poi, la popolazione avrebbe superato inesorabilmente la quantità di cibo disponibile. Secondo lui, questo inevitabile divario avrebbe generato fame, carestie e conflitti, riportando la popolazione a un livello sostenibile.
La teoria di Malthus fu contestata duramente da Karl Marx e Friedrich Engels, che la considerarono semplicistica e priva di fondamento, poiché consideravano lo sviluppo sociale ed economico non un parametro fisso, bensì determinato dai rapporti di produzione: la povertà, per loro, non derivava da una legge naturale, ma da strutture sociali ingiuste.
Accusavano Malthus di ignorare il progresso tecnologico e agricolo, e di giustificare lo sfruttamento delle classi lavoratrici, eppure, pur nella sua eccessiva rigidità, l’allarme di Malthus conteneva una domanda di fondamentale importanza: cosa accade quando il numero di persone cresce più rapidamente dei mezzi necessari per sostenerle?
Malthus, Marx ed Engels: un dibattito ancora attuale
Secondo Marx ed Engels, l’assunto matematico di Malthus era fuorviante. La storia ha dimostrato che la popolazione non cresce affatto secondo una progressione geometrica costante, e la produzione agricola non aumenta in modo rigidamente lineare.
In realtà, entrambi i fenomeni dipendono da fattori economici, tecnologici, sociali e politici che cambiano nel tempo. Innovazioni scientifiche, trasformazioni produttive e differenti modelli di sviluppo hanno spesso modificato sia i ritmi demografici, che la capacità di produrre cibo, smentendo le previsioni troppo rigide di Malthus.
Ad esempio, l’evoluzione tecnologica ha trasformato radicalmente la produzione di cibo, in quanto tramite l’introduzione dei macchinari agricoli alle grandi aziende industriali, è stato possibile produrre quantità enormi di alimenti rispetto alle piccole fattorie familiari.
Lo stesso Marx, tuttavia, pur criticando Malthus, nutriva seri dubbi sulla possibilità che società povere e prive di risorse potessero sostenere un numero crescente di figli.
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 arrivò a sostenere persino, che mettere al mondo bambini senza essere in grado di provvedere loro, fosse un comportamento «non etico».
La fame nel mondo: un problema ancora irrisolto
Nonostante i progressi agricoli, il pianeta non è riuscita ancora ad oggi, a garantire cibo adeguato a tutti. Secondo le più recenti analisi internazionali riportate anche da CARE, la fame rimane un problema gravissimo: oltre 295 milioni di persone vivono livelli elevati di insicurezza alimentare, a conferma che la malnutrizione continua a colpire in modo significativo soprattutto i paesi più vulnerabili.
La malnutrizione compromette gravemente crescita e sviluppo cognitivo, contribuendo alla morte di sei milioni di bambini sotto i cinque anni ogni anno.
L’aumento del costo dei beni alimentari, in particolare in alimenti base come riso e cereali, rischia di aggravare ulteriormente la situazione, aprendo la strada a nuovi potenziali disordini sociali su scala globale.
Dai “Quattro Cavalieri dell’Apocalisse” fino ad arrivare ai “Cinque Mostri”
Malthus descrisse le grandi calamità – guerra, carestia, pestilenza e malattia – come meccanismi naturali di riequilibrio della popolazione, era ciò che lui definiva positive checks.
In chiave metaforica ed ironica, possiamo paragonare queste forze distruttive alla celebre immagine dei quattro cavalieri dell’Apocalisse, che nella tradizione biblica incarnano proprio gli agenti della rovina umana.
Oggi, tuttavia, la situazione è profondamente mutata: questi flagelli non sono più attribuibili soltanto alla natura o al destino, poiché in larga parte vengono generati, aggravati o accelerati dall’azione dell’uomo stesso. Le guerre moderne, le crisi alimentari, le epidemie globali e il collasso sanitario sono spesso il risultato di scelte economiche, politiche e ambientali disastrose.
Da questa consapevolezza nasce la metafora dei “Cinque Mostri”: una versione contemporanea ed aggiornata dei “cavalieri malthusiani”, a cui si aggiunge un nuovo e inquietante distruttore di vita, l’“Incubo Ambientale”, cioè l’insieme dei danni ambientali prodotti dall’impatto umano sugli ecosistemi.
In questo quadro, l’umanità non è più soltanto vittima impotente dei disastri, ma anche il loro diretto artefice, e “i mostri” che si trova oggi ad affrontare sono il riflesso delle sue stesse azioni.
Guerra: un orrore senza tempo
La guerra è una delle calamità più antiche e devastanti della storia umana. Come osservava il sociologo C. Wright Mills, «riflettere sulla guerra significa riflettere sulla condizione umana», ma nell’era delle armi chimiche e nucleari, la guerra rappresenta una minaccia anche per la salute stessa dell’ambiente.
Oltre alla distruzione diretta, la guerra alimenta altri tipi di orrori. A Gaza, la guerra non ha provocato solo vittime dirette, ma anche vittime causate dall’interruzione di rifornimenti, chiusura di corridoi umanitari, distruzione di infrastrutture vitali, nonché dalla privazione di intere comunità di acqua potabile, energia e beni essenziali.
Così il conflitto non solo uccide, ma affama, isola e logora intere popolazioni, rendendo l’impatto complessivo ancora più profondo e devastante.
Carestia: quando l’uomo peggiora la scarsità
Il secondo “mostro” è la carestia. Nonostante possa essere innescata da eventi naturali come la siccità o le alluvioni, è indubbio il fatto, che nella maggior parte dei casi dipenda direttamente dall’azione sconsiderata dell’uomo, in quanto correlato direttamente a guerre, cattiva gestione dei raccolti, nonché a forte instabilità politica.
Tom Keneally, nel libro Three Famines, analizza tre carestie devastanti avvenute negli ultimi due secoli: quella irlandese del 1846, la carestia del Bengala del 1943 e quella etiope degli anni Settanta e Ottanta. In tutti i casi, nota l’autore, i sistemi di governo – imperialisti, autoritari o incapaci – ebbero un ruolo decisivo nell’aggravare la situazione, già grave di per sé.
Pestilenza: tra natura e responsabilità umana
Il terzo “Mostro” è la pestilenza, intesa come invasione di locuste, insetti o parassiti. Malthus non sbagliava nel considerarla una calamità naturale. Uno sciame di locuste può divorare in un giorno una quantità di vegetazione pari al consumo di 2.500 persone.
Tuttavia, anche qui l’impatto umano è rilevante, dato che la deforestazione, l’alterazione degli ecosistemi e il continuo prosciugamento delle zone umide costringono gli insetti a migrare, provocando danni enormi ai raccolti.
Malattia: il ritorno delle epidemie
Nonostante le conquiste scientifiche, la malattia resta uno dei più potenti “mostri” in assoluto. I cambiamenti sociali – migrazione, urbanizzazione, aumento dei viaggi internazionali – facilitano la diffusione degli agenti infettivi.
Negli anni ottanta si diffuse il concetto di “malattie infettive emergenti” (EID), usato per indicare infezioni nuove, appena comparse nella popolazione, oppure malattie già note che tornano a diffondersi dopo essere state a lungo sotto controllo.
Queste patologie rappresentano una minaccia continua perché possono nascere da mutazioni, cambiamenti ambientali, diffusione globale dei viaggi o indebolimento dei sistemi sanitari. Comprendere le EID è essenziale per prevenire epidemie e rispondere rapidamente ai nuovi agenti patogeni.
Accanto alle nuove patologie, persistono anche quelle croniche. In Italia, nel 2022, le malattie del sistema circolatorio e i tumori hanno causato insieme oltre il 55% di tutti i decessi.
Incubo ambientale: I danni ambientali causati dalla modernità
L’incubo ambientale causato dalle attività umane rappresenta il ” quinto mostro “.
Dopo oltre due secoli di industrializzazione e sfruttamento intensivo delle risorse, il pianeta mostra segni evidenti di stress: inquinamento dell’acqua, del suolo e dell’aria, accumulo crescente di rifiuti, erosione dei terreni, perdita di biodiversità e un cambiamento climatico sempre più rapido e imprevedibile.
Questi fenomeni non sono semplici disturbi dell’equilibrio naturale, ma veri e propri processi di degrado sistemico che minacciano la stabilità degli ecosistemi da cui dipendiamo. Gli ambienti naturali, già di per sé delicati e regolati da complesse interazioni biologiche, risultano oggi soffocati dai nostri modelli di produzione, consumo ed urbanizzazione.
In questo scenario, i flagelli ambientali diventano il nuovo “mostro” della modernità: silenzioso, onnipresente e capace di colpire intere popolazioni attraverso eventi estremi, scarsità di risorse e trasformazioni irreversibili del territorio.
Quando anche la natura “affonda” il colpo
A complicare un quadro già di per sé gravissimo intervengono anche fenomeni naturali, come eruzioni vulcaniche e fulmini, che continuano a esercitare un impatto significativo sull’ambiente e sulla vita umana.
Le eruzioni vulcaniche rilasciano nell’atmosfera enormi quantità di gas, tra cui anidride solforosa e acido fluoridrico, sostanze che possono provocare piogge acide, contaminazione delle acque e persino abbassamenti temporanei delle temperature globali a causa della formazione di aerosol riflettenti.
Anche i fulmini, spesso percepiti come eventi isolati, sono in realtà estremamente frequenti: colpiscono la Terra circa 100 volte al secondo e causano ogni anno più vittime di uragani e tornado messi insieme.
Inoltre, possono innescare incendi boschivi, danneggiare infrastrutture ed interrompere sistemi elettrici, aggravando ulteriormente la vulnerabilità delle società moderne.
Conclusioni
Il sociologo Max Weber parlava di una “gabbia di ferro” per descrivere la rigidità delle società moderne, imprigionate nella razionalizzazione, nella burocrazia e nell’efficienza ad ogni costo.
Oggi, però, il rischio è ancora più grave: se non cambieremo rotta, potremmo ritrovarci in una “gabbia tossica”: un sistema che non solo limita la libertà, ma compromette attivamente la salute del pianeta e delle persone.
L’ambiente in cui viviamo, e da cui dipende la nostra salute psicofisica è sotto attacco, e la combinazione tra forze naturali ed attività umane sta spingendo la Terra verso una condizione di fragilità estrema, mai registrata prima.
L’idea che il pianeta sopravviverà comunque, anche davanti all’estinzione dell’umanità, è alquanto diffusa; ma siamo davvero disposti a correre questo rischio?















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