Il dialogo è morto: ecco come le etichette stanno distruggendo il confronto politico

Viviamo in una società in cui le parole non uniscono più, ma dividono.
Basta un commento o un dubbio espresso, e subito parte la condanna: sei un “radical chic”, un “populista”, un “fascista”, o un “buonista”, e così le parole, invece di spiegare, vengono usate per zittire.
Etichettare qualcuno è comodo, perché libera dal doverlo ascoltare: è come mettere una scatola attorno a una persona e dire: “So già chi sei, non serve che io ti capisca”, ma è proprio in quel gesto che il dialogo muore.
Quando una persona entra in una conversazione esclusivamente per vincerla, il dialogo è già morto, poiché chi parla per prevalere non ascolta, e non cerca di capire: vuole solo avere l’ultima parola.
La politica, ormai, somiglia sempre di più a un talk show dove non conta più la verità, ma la velocità con cui si colpisce l’avversario. E così le parole — che dovrebbero illuminare — diventano proiettili.
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ToggleUna società intrappolata negli slogan
Ogni epoca ha le sue mode linguistiche. Oggi la moda è ridurre tutto a una definizione estrema: o sei “progressista” o “reazionario”, o “inclusivo” o “odi l’altro”. Non esiste più la zona grigia, eppure, la realtà è fatta di sfumature, e non di opposti.
Questa tendenza nasce anche da un cambiamento profondo nella comunicazione.
I social network hanno accorciato i tempi del pensiero: una riflessione complessa non funziona in 280 caratteri.
I media tradizionali inseguono l’emozione più della sostanza, trasformando il confronto in spettacolo.
La politica stessa, anziché educare al pensiero, alimenta la polarizzazione, poiché – “divide et impera” – funziona ancora benissimo.
Il risultato? Siamo diventati una società che parla per etichette e pensa per hashtag. Non si discute più di contenuti, ma di appartenenze. E il cittadino, invece di scegliere in base alle idee, si schiera per reazione.
La perdita del pensiero complesso
Le etichette non fanno solo male al dibattito, ma impoveriscono il pensiero. Un esempio? Basta guardare qualsiasi discussione pubblica:
Chi chiede più controlli sull’immigrazione viene subito accusato di essere xenofobo.
Chi chiede più accoglienza viene tacciato di ingenuità o di essere un “buonista”.
Chi critica l’Europa è “sovranista”, mentre chi la difende è “servo di Bruxelles”.
È tutto ridotto a una logica binaria, in cui esiste solo il bianco o il nero, ma la società reale – quella che vive, lavora, e si arrangia – si muove nella zona grigia.
Dietro un’opinione c’è sempre una storia, un vissuto, una paura o una speranza. Semplificare significa negare l’umanità delle persone.
Le etichette come scudo contro la logica
Spesso, chi ricorre alle etichette non lo fa per argomentare, ma per sfuggire al confronto. È la scorciatoia di chi non ha più argomenti, ma non vuole ammetterlo. Quando la logica mette in difficoltà, la risposta più facile è colpire la persona invece delle idee:
“Se non posso smontare ciò che dici, allora provo a screditarti”.
È una strategia antica come il mondo, che oggi ha assunto la forma dell’“opinione legittima”. In realtà, si chiama denigrazione, e non centra nulla con il dialogo. È l’arte di svuotare il merito e spostare il bersaglio: non si discute più di cosa dici, ma della persona che lo sta dicendo.
Le etichette funzionano perché semplificano il mondo fino a renderlo gestibile: non serve più ragionare, basta classificare. Chi le usa non vuole realmente capire quello che l’altro sta dicendo: vuole solo chiudere la conversazione, e imporsi senza pensare.
Oggi questo meccanismo si è istituzionalizzato dato che è diventato il linguaggio stesso del dibattito pubblico. Invece di rispondere con argomenti, si risponde con etichette.
Usare un’etichetta è un modo elegante per dire: “Non ho voglia – o non ho la capacità – di pensare fino in fondo”.
E il risultato è devastante: il discorso pubblico si svuota, e si riduce a una gara di slogan, di schieramenti e di moralismi superficiali.
Immagina una conversazione qualunque, su un tema complesso – ad esempio l’immigrazione, la sicurezza o il lavoro.
All’inizio il dialogo sembra possibile, ma appena emergono dati concreti o argomenti difficili da confutare, qualcosa cambia: l’altro smette di rispondere nel merito e passa all’attacco personale.
Non contro ciò che dici, ma contro chi sei. Ed ecco che arriva l’etichetta: “fascista”, “populista”, “buonista”, “radical chic”.
È una dinamica sempre più frequente: quando le argomentazioni vacillano, si tenta di screditare l’interlocutore per non dover rimettere in discussione le proprie convinzioni. Non importa il tema – può succedere da qualunque parte dello spettro politico. Il meccanismo è sempre lo stesso: invece di confrontarsi sui fatti, si alza un muro identitario.
E nel momento in cui l’obiettivo diventa “avere ragione” invece che “capire”, la conversazione muore.
Le ragioni dietro le opinioni
C’è chi chiede maggiore sicurezza, chi maggiore libertà, e ancora chi reclama più uguaglianza: ognuno esprime una parte legittima del disagio collettivo. Non si tratta di schierarsi, ma di capire da dove nasce quella richiesta.
Molti cittadini oggi si sentono persi, spaventati, e soli di fronte a un mondo che cambia troppo in fretta.
La tecnologia corre più della cultura.
Il lavoro è precario.
Le istituzioni sembrano lontane.
Le certezze del passato si sbriciolano una dopo l’altra.
In questo clima, è normale cercare un punto fermo, o qualcuno o qualcosa che dia stabilità e un senso. Chi vota per “più ordine” non necessariamente odia la libertà, e chi chiede più “diritti e inclusività”, non necessariamente odia la propria nazione.
Il problema è che nessuno ascolta più le sfumature: ognuno interpreta l’altro nel modo peggiore possibile.
Le nuove tribù del pensiero
La polarizzazione politica ha creato vere e proprie “tribù identitarie”. Non importa più cosa dici, ma da dove lo dici. Se una proposta arriva da un certo schieramento, l’altro la boccia a prescindere, anche se dentro di sé sa che potrebbe essere buona.
Si è smarrito il valore della coerenza intellettuale. Ad oggi, è sempre più in aumento il fatto che esistano molte persone che difendono un’idea a prescindere, solo se conviene alla idea politica, e la rinnega, se viene pronunciata dall’avversario.
Questo atteggiamento trasforma il confronto in tifo ideologico, dove il merito scompare e resta solo la rivalità. Serve il coraggio di dire: “Hai ragione su questo punto, anche se la pensiamo diversamente su tutto il resto”. Solo così si cresce. Solo così si torna a discutere da cittadini, e non da tifosi.














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