Gli oceani possono davvero salvarci dal riscaldamento globale?
Secondo i ricercatori, gli oceani potrebbero in futuro aiutarci ad intrappolare l’anidride carbonica, che non siamo riusciti ad eliminare altrove.
Tuttavia avvertono, che le tecnologie – per la rimozione dell’anidride carbonica atmosferica, tramite gli oceani, note come mCDR, marine Carbon Dioxide Removal – sono ancora immature, difficili da misurare e potenzialmente rischiose. Senza controlli rigorosi, potrebbero persino peggiorare la situazione.
Un pianeta che si scalda più velocemente del previsto
Negli ultimi anni, il riscaldamento globale ha aumentato in modo allarmante gli eventi meteorologici estremi, le ondate di calore e i cambiamenti ecologici.
In questo contesto, diventa chiaro che non possiamo più limitarci solo alla riduzione delle emissioni. Alcuni settori sono così difficili da decarbonizzare che, anche con innovazioni radicali, una parte delle emissioni continuerebbe comunque ad esserci.
L’aviazione, ad esempio, utilizza carburanti ad altissima densità energetica, per i quali non esistono ancora ad oggi, alternative davvero carbon neutral.
La navigazione commerciale, che muove l’economia globale, dipende in larga parte ancora dai combustibili fossili, e industrie come il cemento, l’acciaio o la chimica generano CO₂ non solo bruciando energia, ma anche attraverso i loro normali processi di produzione.
È per questo che la rimozione del carbonio non può più essere considerata un’idea futuristica, ma una realtà che già oggi deve affiancare le politiche climatiche tradizionali. Non si tratta di sostituire la riduzione delle emissioni, ma di affiancarla dove semplicemente non è possibile arrivare a zero.
Questo quadro già complesso è stato sintetizzato perfettamente da António Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, durante il suo discorso di apertura alla COP30. “un superamento temporaneo del limite di 1,5°C è ad oggi inevitabile”.
Questo significa che, molto presto – probabilmente già nei primi anni del 2030 – varcheremo quella soglia che, fino a pochi anni fa, rappresentava il limite invalicabile per evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico.
Gli oceani: una risorsa immensa, ma piena di incertezze
Gli oceani già assorbono naturalmente grandi quantità di CO₂. Perché dunque non potenziare questo meccanismo naturale? Gli esperti dell’European Marine Board, guidati da Helene Muri del NILU e dell’Università norvegese di scienza e tecnologia (NTNU), hanno dichiarato che le tecnologie ad oggi disponibili non sono ancora pronte per essere utilizzate in sicurezza su larga scala.
Le tecniche attualmente allo studio includono:
Aumento della crescita del plancton tramite fertilizzazione con ferro o nutrienti. Il plancton, crescendo rapidamente, assorbe CO₂ e – in teoria – dovrebbe trascinarla in profondità quando muore.
Crescita di macroalghe o foreste marine che catturano il carbonio.
Processi chimici, come l’aumento dell’alcalinità oceanica per far sì che il mare assorba più CO₂ in modo stabile.
Estrarre direttamente CO₂ dall’acqua di mare tramite tecnologie fisiche o elettrochimiche.
Qual è il problema?
Queste tecniche potrebbero davvero funzionare? E soprattutto: come possiamo verificarlo?
Immagina di versare nel fiume un colorante, magari una goccia di inchiostro blu. Sai perfettamente dove l’hai lasciato cadere e puoi osservare come si diluisce, come scorre, e come si disperde.
Se ti sposti di qualche centinaio di metri più a valle, con un po’ di pazienza, potresti persino riuscire a individuarne le tracce. Un fiume, per quanto vivo e dinamico, segue comunque un percorso ben preciso, dato che scorre in una direzione, possiede una velocità più o meno costante, e subisce variazioni relativamente contenute.
Ora prova a immaginare la stessa scena, ma in mare aperto.
L’oceano non è un canale lineare, bensì un sistema immenso, stratificato e in continuo movimento dato che è composto da correnti superficiali, correnti profonde, vortici, onde, oltre a differenze di temperatura, salinità e densità.
Quell’inchiostro – o, nel nostro caso, il carbonio – non segue un unico percorso. Non va semplicemente “in avanti”. Può essere spinto verso l’alto, trascinato verso il basso, disperso in orizzonti completamente diversi, trasportato per decine o centinaia di chilometri, o perfino inglobato da organismi marini.
E poi c’è un altro elemento da non sottovalutare: la tridimensionalità dell’oceano. Non parliamo di un flusso bidimensionale come quello di un fiume, ma parliamo di profondità che arrivano a migliaia di metri.
Il carbonio può restare negli strati superficiali, affondare per poche decine di metri o scivolare nelle profondità abissali, dove la luce non arriva mai. Ogni livello presenta temperature diverse, movimenti diversi, nonché tempi di permanenza diversi.
Aggiungi poi a tutto questo la biodiversità: microrganismi che assorbono e rilasciano carbonio, catene alimentari che lo trasformano, oltre a processi chimici che lo legano all’acqua o ai sedimenti. È un mondo dinamico, pulsante, quasi impossibile da prevedere.
Ecco le domande più frequenti che gli scienziati si pongono in merito a questo:
Se il carbonio affonda in profondità, quanto rimane davvero lontano dall’atmosfera? Anni? Secoli? Millenni?
Chi è controlla che un’azienda stia dicendo la verità quando afferma di aver assorbito X tonnellate di CO₂?
Quali organismi internazionali dovrebbero verificare questi interventi? E soprattutto, con quali strumenti?
Il rapporto pubblicato durante la COP30 suggerisce che prima di ampliare qualsiasi attività di mCDR occorrono che siano presenti tre fattori importantissimi:
Monitoraggio accurato dell’ambiente marino prima, durante e dopo gli interventi.
Rendicontazione trasparente e dettagliata delle operazioni.
Verifica indipendente da parte di enti qualificati.
Perché la rimozione del carbonio è comunque necessaria?
Se sappiamo già come ridurre le emissioni, perché bisogna complicarci la vita con queste tecnologie rischiose?
Perché, purtroppo, alcune emissioni non saranno eliminabili del tutto. I viaggi aerei, per esempio, non possono oggi diventare completamente carbon neutral. Lo stesso vale per molte industrie. E per raggiungere gli obiettivi climatici più ambiziosi – compreso quello di 1,5°C – gli scenari IPCC indicano che avremo bisogno di 5-10 gigatonnellate di CO₂ rimosse ogni anno entro fine secolo.
Ecco qualche dato per darti un’idea: nel 2024 le emissioni globali erano di 42,4 gigatonnellate, una cifra impressionante. La rimozione del carbonio sarà dunque un complemento essenziale alla decarbonizzazione.
Terra vs oceano: due mondi diversi
Sul versante terrestre abbiamo già tecnologie più efficienti e sicure, quali riforestazione, ingrassamento del suolo, nonché impianti di cattura diretta dell’aria (DAC).
In Islanda, l’azienda Climeworks usa giganteschi ventilatori per filtrare la CO₂ e trasformarla in roccia. Nel mare, invece, stiamo ancora sperimentando. Questo non dipende solo da ostacoli di tipo scientifico, ma anche da fattori di tipo etici e politici.
Il nodo dei crediti di carbonio
Il tema dei crediti di carbonio aggiunge un ulteriore livello di complessità a tutta la faccenda. Alcune aziende stanno già chiedendo di certificare i loro interventi di rimozione marina per ottenere questi crediti, cioè riconoscimenti ufficiali che attestano quanta CO₂ hanno tolto dall’atmosfera.
Ma come si può concedere una certificazione, se non sappiamo con precisione dove finisce davvero il carbonio, né se il processo può danneggiare gli ecosistemi marini, né tantomeno se quel carbonio rimarrà intrappolato a lungo, e non tornerà in superficie?
Senza dati solidi, un sistema di crediti così costruito rischia solo di dare un’illusione di progresso: numeri positivi sulla carta, ma nessuna garanzia reale per il clima. Non a caso, Muri sottolinea che “nessuno di questi metodi è maturo se non possiamo verificarne gli impatti”.
Conclusione
La rimozione della CO₂ dall’atmosfera tramite i processi marini potrebbe rappresentare una soluzione necessaria, ma piena di rischi. Come tutte le innovazioni radicali, richiede prudenza, monitoraggi rigorosi e una governance internazionale solida. L’oceano può essere parte della soluzione, ma non possiamo trasformarlo in un laboratorio caotico a cielo aperto.
Occorre anche ricordare una cosa: le tecnologie mCDR sono importanti, certo, ma non sono – né saranno mai – un sostituto della riduzione delle emissioni.















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