Dentro lo studio di Rosenhan: il sorprendente esperimento che scosse la psicologia mondiale

studio di rosenhan

Tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, uno psichiatra dell’Università di Stanford, il professor David L. Rosenhan, decise di mettere alla prova una delle certezze più radicate nella psichiatria dell’epoca: davvero gli esperti erano in grado di distinguere in modo affidabile una persona sana da una affetta da disturbi mentali?

L’esperimento che ne nacque divenne uno dei più famosi (e controversi) di tutta la psicologia moderna. E i suoi risultati, pubblicati nel 1973 sulla rivista Science, scossero la psichiatria come pochi studi prima di allora.

Tutto iniziò da una provocazione

Rosenhan formulò una domanda tanto diretta quanto destabilizzante:

“Le caratteristiche che portano a una diagnosi psichiatrica risiedono realmente nel paziente, oppure negli occhi e nel contesto in cui si trova l’osservatore?”

Negli anni ’60 prevaleva l’idea che le diagnosi psichiatriche fossero affidabili, e paragonabili a quelle della medicina. Le categorie del DSM-II dell’APA (pubblicato nel 1968) sembravano offrire un sistema solido per distinguere la normalità dalla patologia.

Tuttavia, molti critici iniziarono a dubitare di questa eccessiva sicurezza. Per molti, le diagnosi, non erano altro che opinioni professionali, inevitabilmente esposte a pregiudizi, convinzioni personali e persino al contesto in cui il paziente si mostrava.

Lo studio degli “pseudo-pazienti”

Per mettere alla prova queste idee, Rosenhan reclutò otto volontari — tra cui lui stesso — senza alcuna storia di disturbi mentali gravi. Tutti erano persone comuni, con vite normali e senza alcun passato clinico significativo.

Si presentarono in 12 ospedali psichiatrici distribuiti in cinque diversi stati americani, fingendo un solo sintomo: dichiaravano di sentire una voce sconosciuta, dello stesso sesso, che pronunciava tre parole prive di senso clinico ma volutamente enigmatiche — “vuoto, vuoto, tonfo”.

Era l’unico elemento inventato. Tutte le altre informazioni fornite — vita personale, relazioni, storia sanitaria — erano reali, fatta eccezione per nome, occupazione e contatti, che vennero modificati per ragioni di privacy.

Una volta ammessi — ammissione che avvenne in tutti i casi, senza eccezione — gli pseudo-pazienti smettevano immediatamente di simulare.

Dal minuto dopo il ricovero tornavano a comportarsi in modo del tutto normale: conversavano con cortesia, collaboravano, non manifestavano ansia o confusione, non mostravano allucinazioni né alcun tipo di comportamento bizzarro.

Alcuni degli otto volontari provarono un leggero nervosismo all’inizio — cosa comprensibile per chi entra in un reparto psichiatrico — ma si trattò di episodi brevi e passeggere, comunque non associabili a nessun tipo di disturbo mentale.

Eppure nessun professionista colse questo cambiamento repentino. Nessuno notò che i sintomi ” schizofrenici “erano scomparsi. Nessuno si rese conto che quegli individui stavano mostrando in modo costante e chiaro un comportamento perfettamente sano.

È qui che sta il nodo centrale dello studio: non è problematico che gli psichiatri li abbiano ricoverati all’inizio — Rosenhan stesso lo dice chiaramente.

Se una persona riferisce di sentire voci, è ragionevole comportarsi con prudenza. La vera criticità emerse dopo, quando gli pseudo-pazienti tornarono normali e il personale continuò comunque a considerarli malati.

Infatti:

  • 11 dei 12 ricoveri portarono a una diagnosi di schizofrenia;

  • 1 caso ricevette una diagnosi iniziale di psicosi maniaco-depressiva;

  • nessuna diagnosi fu rivista o corretta, nonostante fosse chiaro che i presunti sintomi non erano più presenti;

  • le degenze variarono da 7 a 52 giorni, con una media di 19 giorni.

Ciò che colpisce ancora di più è l’atteggiamento del personale: nei loro appunti infermieristici e nelle osservazioni cliniche, gli operatori descrivevano gli pseudo-pazienti come “amichevoli”, “collaborativi”, “educati”, e persino “privi di anomalie comportamentali”.

Tuttavia, nonostante questi giudizi apparentemente positivi, continuavano a interpretarli attraverso la lente della diagnosi. Ogni comportamento — anche il più normale — veniva ricondotto alla presunta patologia.

Ad esempio:

  • Scrivere appunti veniva interpretato come un atto “compulsivo”.

  • Passeggiare per i corridoi veniva letto come “agitazione schizofrenica”, invece che semplice noia.

  • Il parlare con educazione veniva riletto come “sforzo di controllo emozionale tipico del paziente in remissione”.

In altre parole, qualunque cosa facessero gli pseudo-pazienti, l’etichetta diagnostica continuava a influenzare tutto. La diagnosi, una volta emessa, diventava un filtro impossibile da togliere.

La depersonalizzazione negli ospedali psichiatrici

Uno degli aspetti più inquietanti emersi dallo studio di Rosenhan riguarda il modo in cui il personale ospedaliero interagiva — o, meglio, non interagiva — con i pazienti.

Gli pseudo-pazienti, durante la loro permanenza, tentarono più volte di avviare normali conversazioni con medici, infermieri e assistenti. Non chiedevano nulla di eccessivo o complicato: solo informazioni basilari, quelle che chiunque, in un contesto sanitario, riterrebbe legittime.

Domande semplici come:

  • “Quando incontrerò il personale?”

  • “Quando potrò essere dimesso?”

Erano domande, che chiunque in un luogo sconosciuto e potenzialmente ostile farebbe. Eppure, la maggior parte delle volte, queste richieste cadevano nel vuoto. Molti membri del personale non si fermavano nemmeno a rispondere.

Alcuni passavano oltre senza guardare il paziente negli occhi. Per rendere ancora più chiaro questo fenomeno, Rosenhan decise di misurare il tempo effettivo di contatto tra il personale e i pazienti in sei degli ospedali coinvolti.

Ciò che emerse fu sorprendente:

  • il tempo di contatto variava dai 3,9 ai 25,1 minuti al giorno,

  • con una media di soli 6,8 minuti complessivi.

Quanto può essere accurato, empatico o scientifico un monitoraggio clinico basato su sette minuti di dialogo quotidiano?

La sensazione dominante percepita dagli pseudo-pazienti era quella di una profonda impotenza. Molti riportarono l’impressione di diventare invisibili, quasi privati della loro identità. La depersonalizzazione non era un incidente, ma una caratteristica strutturale dell’ambiente.

Un po’ come se l’ospedale, attraverso la sua routine, il suo linguaggio, e le sue regole, avesse il potere di trasformare una persona in un numero, e non in un essere umano completo.

A questo punto ecco cosa si chiese Rosenhan:

“Quante persone potrebbero essere sane al di fuori dell’ospedale psichiatrico, ma apparire pazze dentro di esso non perché lo siano davvero, ma perché rispondono a un contesto bizzarro?”

Il curioso “studio dell’impostore inesistente”

Dopo il primo esperimento, Rosenhan decise di spingersi oltre. Realizzò un secondo studio, forse ancora più ingegnoso. Stavolta avvisò il personale di un grande ospedale di ricerca dicendo loro, che nei mesi seguenti, avrebbe inviato degli pseudo-pazienti addestrati a simulare i sintomi di schizofrenia.

Lo scopo era valutare l’abilità diagnostica del personale sapendo di essere sotto osservazione. Il risultato fu sorprendente e rivelatore. Su 193 pazienti reali arrivati in quel periodo:

  • 41 furono giudicati da almeno un membro dello staff come “altamente probabili” pseudo-pazienti,

  • 23 furono classificati come sospetti da almeno uno psichiatra,

  • 19 furono valutati come quasi certamente impostori da uno psichiatra e da un altro membro del personale.

Peccato che non fosse stato inviato nessun pseudo-paziente. Il personale, convinto di dover scovare finti pazienti, iniziò a vedere impostori ovunque. Questo portò a errori di tipo I, ovvero ritenere sani individui che invece chiedevano ricovero per sofferenza reale.

Era l’altra faccia della medaglia del primo studio: invece di credere troppo velocemente alla malattia, il personale si convinse troppo facilmente della salute.

Un ribaltamento perfetto, quasi ironico: quando gli psichiatri pensavano davvero che ci fossero pazienti sani a fingere disturbi, iniziarono a etichettare come sani individui che invece cercavano solo aiuto.

Il paradosso diagnostico: un vero “Catch-22”

Rosenhan individuò un circolo vizioso da cui è difficile uscire:

1. Per evitare di perdere un paziente malato (errore di tipo II), i clinici tendono a diagnosticare una patologia anche quando la persona è sana. È un eccesso di prudenza comprensibile: meglio ricoverare un individuo sano che rimandare a casa una persona malata.

2. Ma se cercano di evitare questo errore, rischiano di commettere l’opposto (errore di tipo I): dichiarare sano un paziente che invece ha bisogno di cure.

Un vero dilemma senza soluzione. E i pazienti? Anche loro ne rimangono intrappolati:

  • chi entra in ospedale rischia di sembrare “malato” proprio a causa dell’ambiente,

  • chi resta fuori rischia di peggiorare se soffre davvero di un disturbo.

Uno scenario kafkiano, in cui nessuna scelta sembra portare a un esito ideale. Rosenhan lo definì un Catch-22, un vicolo cieco diagnostico che intrappola sia gli operatori, che i pazienti.

Cosa ci dice tutto questo sul sistema diagnostico?

L’esperimento di Rosenhan ci mette davanti a una realtà scomoda, ma impossibile da ignorare: la diagnosi psichiatrica, ancora oggi, non poggia su basi solide quanto la diagnosi medica tradizionale.

A differenza della cardiologia o dell’oncologia, dove esistono test oggettivi, analisi del sangue, imaging, e biomarcatori, la psichiatria continua a fondarsi su criteri osservativi, impressioni cliniche, racconti soggettivi dei pazienti e interpretazioni del comportamento.

Questo non significa affatto che gli psichiatri non siano competenti, ma significa piuttosto che la psicologia lavora con strumenti intrinsecamente meno precisi, poiché la mente non si lascia misurare con un prelievo o una risonanza magnetica.

Questo porta a diversi problemi strutturali:

  • Le diagnosi si basano ancora oggi su interpretazioni di comportamenti e autovalutazioni. Le parole del paziente, le sue emozioni, il modo in cui si muove o reagisce vengono valutati dallo specialista, ma sono sempre filtrati da una quota inevitabile di soggettività. È una forma di “arte clinica”, e non di una scienza esatta.

  • Mancano test biologici affidabili. Non esiste un esame del sangue che dica: “questa persona ha la depressione” o “questo paziente ha la schizofrenia”. Non abbiamo biomarcatori universalmente validi. E questo limita la possibilità di verificare, confermare, nonché correggere una diagnosi.

  • Le categorie del DSM non riflettono davvero la complessità dei disturbi. Il DSM è utile, ma costruito sulla base di gruppi di sintomi e non su solide evidenze biologiche. È una tassonomia, più che un modello scientifico. Molti disturbi si sovrappongono, i confini sono sfumati e il rischio di classificare due persone molto diverse nello stesso “contenitore diagnostico” è molto elevato.

  • La ricerca moderna suggerisce che i disturbi sono spettri, e non categorie nette. 

Dunque, se la diagnosi psichiatrica poggia su basi fragili e incerte, cosa ci dice davvero lo studio di Rosenhan?

Cosa ci ha insegnato davvero Rosenhan?

L’esperimento ci lascia in eredità alcune lezioni fondamentali, ancora attualissime.

Le diagnosi psichiatriche sono complicate, fallibili e influenzate dal contesto. Non basta osservare un comportamento per dedurre uno stato mentale. L’ambiente, l’aspettativa del clinico, e la storia raccontata dal paziente possono distorcere la realtà.

Gli ambienti psichiatrici possono “produrre” comportamenti anormali. La depersonalizzazione, l’isolamento, e la mancanza di dialogo possono produrre frustrazione, ansia o reazioni atipiche.

In un contesto del genere, anche una persona sana può apparire confusa o disorientata. Ecco perché Rosenhan parlava di “luoghi folli”: non per offendere, ma per descrivere un contesto che altera la percezione di sé e degli altri.

Servono nuove strategie e strumenti diagnostici più raffinati, capaci di ridurre l’influenza dei bias e dell’interpretazione soggettiva. Questo non significa che la psichiatria attuale “non funzioni”: significa, piuttosto, che necessita di un potenziamento, che permetta di affiancare al giudizio clinico strumenti più affidabili e meno esposti all’errore umano.

Lo studio di Rosenhan ci ricorda anche un’altra verità fondamentale: la normalità mentale è molto più complessa di quanto vogliamo credere. Nessuno è perfettamente “squilibrato”, e nessuno è perfettamente “normale”. Ognuno di noi attraversa momenti di stress, rabbia e confusione. La linea che separa la salute mentale dal disagio è sottile, sfumata, e spesso molto più vicina alla nostra vita quotidiana di quanto ci faccia comodo ammettere.

In fondo, la vera lezione di Rosenhan è che la mente umana non è così facile da incasellare. E quando pretendiamo di farlo con troppa sicurezza, rischiamo di vedere solo ciò che ci aspettiamo — e non ciò che abbiamo davvero davanti.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona.Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei