L’evoluzione ci ha resi più intelligenti… ma anche più vulnerabili

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Secondo una ricerca condotta alla Stanford University, proprio ciò che ha reso il cervello umano così potente e creativo potrebbe anche averci resi più fragili, e più esposti a disturbi complessi come l’autismo.

Sembra quasi un paradosso, vero? Eppure i risultati raccontano una storia evolutiva affascinante e inquietante allo stesso tempo: quella di un cervello che, nel correre verso l’intelligenza, ha dovuto pagare un caro prezzo.

Neuroni che corrono più veloci dell’evoluzione

I ricercatori della Stanford University hanno analizzato oltre un milione di neuroni appartenenti a sei diverse specie di mammiferi — esseri umani, scimpanzé, gorilla, macachi, uistitì e topi. L’obiettivo? Capire come l’evoluzione abbia modellato, nel corso di milioni di anni, le diverse cellule del cervello.

I risultati hanno lasciato gli scienziati senza parole. Un particolare tipo di cellula nervosa, chiamata “neurone eccitatorio intratelencefalico dello strato 2/3” (abbreviato in IT 2/3), è risultato evolversi a un ritmo sorprendentemente rapido nella nostra specie.

Questi neuroni — i più abbondanti nella neocorteccia umana, la regione cerebrale che regola linguaggio, ragionamento, creatività e coscienza — sono come i “ponti” che collegano tra loro le diverse aree del cervello, rendendo possibile la comunicazione interna che sostiene il pensiero complesso.

In pratica, è come se l’evoluzione avesse “spinto sull’acceleratore” proprio su queste cellule, migliorandone le prestazioni e contribuendo così al salto cognitivo che ha reso l’uomo “unico” tra i primati. Tuttavia, come spesso succede in biologia, ogni passo in avanti comporta un costo: questo sviluppo così veloce potrebbe aver reso il cervello umano più sensibile e vulnerabile a disturbi come l’autismo.

Il compromesso nascosto nei geni

Analizzando i geni espressi in questi neuroni, gli scienziati hanno notato qualcosa di ancora più insolito. Nei neuroni IT 2/3 umani, ben 233 geni legati all’autismo mostrano un’attività ridotta rispetto agli stessi geni negli scimpanzé.

Un dato che fa riflettere: un gene, ad esempio, fondamentale per la comunicazione tra cellule cerebrali, è risultato 2,5 volte meno attivo negli esseri umani. Per comprendere l’impatto di questo cambiamento, gli autori propongono questa metafora:

Immaginate il cervello come se fosse una radio. Negli scimpanzé il volume è regolato a 10; se “si rompe” un altoparlante (cioè una copia di un gene), il suono scende a 5, ma resta udibile. Negli esseri umani, però, il volume parte già da 4: basta perdere un altoparlante per scendere a 2, un livello troppo basso per sentire chiaramente.

Questo esempio spiega bene quanto il cervello umano sia diventato sensibile: piccoli cambiamenti genetici, che in altre specie non causerebbero problemi, negli uomini possono fare la differenza tra normalità e disturbo.

La selezione naturale ha davvero voluto questo?

Per capire se questi cambiamenti fossero casuali o frutto della selezione naturale, il team ha confrontato il comportamento dei geni umani e di quelli degli scimpanzé in organoidi cerebrali: minuscoli “cervelli in miniatura” coltivati in laboratorio.

Il risultato? Tutto indica che non si tratta di un caso. Tra i 32 geni legati all’autismo che differivano tra uomo e scimpanzé, 27 mostravano un’attività inferiore nella versione umana. Questo significa che la probabilità che ciò sia avvenuto per puro caso è inferiore all’1%.

Non solo: l’attività di questi geni è risultata meno variabile tra gli esseri umani rispetto agli scimpanzé, un segno che la selezione naturale ha agito con forza su di essi. Gli scienziati ammettono di non poter escludere del tutto altri scenari, ma le prove puntano con decisione verso un adattamento evolutivo consapevole.

Perché mai l’evoluzione avrebbe ridotto l’attività di geni così delicati?

È qui che la storia diventa davvero affascinante. I ricercatori ipotizzano che questo “silenziamento” parziale dei geni possa aver dato un vantaggio evolutivo ai nostri antenati. Si, ma quale?

Tra le ipotesi più probabili ci sono:

  • Uno sviluppo cerebrale più lento, tipico della nostra specie, che prolunga l’infanzia e quindi il periodo di apprendimento.

  • Una maggiore plasticità cognitiva, che ci ha permesso di imparare lingue complesse, adattarci e inventare.

  • Un equilibrio energetico differente, necessario per sostenere un cervello più grande e dispendioso.

In altre parole, l’evoluzione potrebbe aver “sacrificato” un po’ di stabilità genetica per ottenere un cervello più flessibile e creativo. Un rischio calcolato, ma non senza conseguenze.

L’altra faccia dell’intelligenza

Numerosi studi precedenti avevano già mostrato che i neuroni IT 2/3 sono tra i più colpiti nelle persone con disturbi dello spettro autistico. Presentano infatti modelli di attività genetica alterati e connessioni neurali atipiche.

Ora la ricerca di Stanford suggerisce che questa vulnerabilità non è un incidente, ma il risultato diretto dell’evoluzione umana. In altre parole, i meccanismi che ci hanno permesso di pensare, parlare e costruire civiltà hanno anche reso il nostro cervello più sensibile agli squilibri.

Gli studi genetici più recenti lo confermano: molte varianti legate all’autismo si trovano proprio nelle sequenze di DNA che si sono evolute rapidamente nella nostra linea.

E non è tutto: le aree del cervello che si differenziano maggiormente tra uomo e scimpanzé sono le stesse in cui, negli esseri umani, si osservano differenze tra persone con e senza schizofrenia — un altro disturbo con radici genetiche affini.

Quando il progresso diventa rischio

L’autismo, non è una malattia ma una condizione neurodivergente. Tuttavia, la sua maggiore incidenza negli esseri umani rispetto ad altri primati potrebbe essere una diretta conseguenza del nostro stesso sviluppo evolutivo.

La nuova ricerca spiega anche il perché:

  • I neuroni più comuni sono quelli su cui l’evoluzione tende a intervenire meno, per evitare danni diffusi.

  • Tuttavia, nel caso dei neuroni IT 2/3 umani, questa regola è stata infranta.

  • Il risultato? Una maggiore posta in gioco: piccole variazioni genetiche possono avere conseguenze molto più ampie.

La maggior parte dei casi di autismo non dipende da una singola mutazione, ma da un insieme di piccoli fattori genetici e ambientali. Se la “soglia di tolleranza” del cervello umano è più bassa, basta un piccolo accumulo di alterazioni per scatenare la condizione di autismo.

Un principio universale dell’evoluzione neuronale

Starr e Fraser hanno identificato anche un principio universale: nei mammiferi, i tipi di cellule cerebrali più abbondanti evolvono più lentamente rispetto a quelli rari. È logico: se un tipo di cellula è molto diffuso, eventuali mutazioni dannose si ripercuotono su gran parte del cervello.

Tuttavia, i neuroni IT 2/3 umani sono l’eccezione che conferma la regola. Analizzando diverse regioni cerebrali — corteccia motoria, temporale e prefrontale — gli studiosi hanno trovato un’evoluzione coerente e lenta in tutte le specie, tranne nella nostra.

Solo negli esseri umani questa categoria di neuroni mostra un’evoluzione rapidissima, quasi impaziente, come se l’intelligenza stessa avesse spinto il cervello a correre più in fretta del resto del corpo.

E adesso?

I prossimi passi della ricerca cercheranno di capire quali tratti umani siano stati effettivamente modellati da questi cambiamenti genetici e perché la vulnerabilità a disturbi come l’autismo sia diventata così marcata nella nostra specie.

Capire questi compromessi evolutivi significa anche comprendere meglio noi stessi: ciò che ci rende unici, è anche interconnesso da ciò che ci espone al rischio. Forse l’evoluzione non ha sbagliato, ma ci ha semplicemente resi più complessi — un po’ come una macchina straordinaria che, proprio per la sua raffinatezza, richiede più manutenzione.

Un messaggio importante

È bene ricordare, come sottolineano gli autori, che l’autismo è una condizione influenzata da numerosi fattori genetici e ambientali e che ogni persona rappresenta un universo a sé. Questa ricerca non offre diagnosi né soluzioni, ma ci invita a riflettere su quanto sia sottile il confine tra forza e fragilità nel nostro cervello.

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Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona.Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei