La trappola dell’obbligo morale: se non parli, hai già sbagliato
Viviamo un periodo storico in cui restare in silenzio è diventato sospetto.
Davanti a ogni crisi globale, che si tratti di una guerra, di un’ingiustizia o di una causa ambientale, sembra che tutti debbano dire qualcosa, e quindi prendere una posizione netta. E chi non lo fa rischia di essere accusato di indifferenza, o peggio, di complicità.
È una pressione sottile, che si insinua soprattutto nei social, dove la velocità dell’informazione si confonde con la moralità dell’opinione. “Se non ti esprimi, significa che stai con l’oppressore”, si legge spesso nei commenti sotto ai profili di personaggi pubblici, musicisti, influencer, giornalisti… ma siamo sicuri che sia davvero così? In una democrazia, si può scegliere, di non scegliere?
Il diritto di tacere
La libertà di espressione, spesso celebrata come il cuore della democrazia, include anche il suo contrario: la libertà di non parlare.
Dire, commentare, e schierarsi è diventato quasi un dovere civico, mentre tacere, invece, è interpretato come una forma di fuga o codardia.
Eppure, in alcuni casi, il mio silenzio potrebbe dipendere da tutt’altri motivi. Se non comprendo fino in fondo una questione, ma scelgo comunque di prendere posizione solo per seguire il coro, non sto realmente esercitando la mia libertà di pensiero, ma la sto tradendo.
La democrazia, infatti, non vive esclusivamente di uniformità, ma anche di pluralità di atteggiamenti e sensibilità. Può esserci, chi sceglie di esporsi per convinzione profonda, e chi invece, preferisce non alimentare una tensione che sente di non poter gestire. Tutte queste, sono scelte legittime.
Il silenzio, in molti casi, nasce anche dall’incertezza: non tutto è bianco o nero, e molte questioni racchiudono in sé sfumature difficili da inquadrare.
Pensa, ad esempio, a un grande tema come l’immigrazione.
Da un lato, puoi comprendere chi chiede più controllo e sicurezza, poiché teme per la stabilità del proprio paese; dall’altro, puoi provare empatia per chi fugge da guerre o miseria. Entrambe le posizioni contengono elementi di verità, ed entrambe meritano ascolto.
In situazioni così, per alcuni, prendere una posizione in modo netto può sembrare disonesto, o quantomeno superficiale. Tacere, invece, può essere un modo per non ridurre un problema umano a una tifoseria politica.
In questi momenti, il silenzio non è codardia, ma onestà intellettuale, dato che hai la consapevolezza di non avere ancora tutti gli elementi utili per giudicare.
Quando il silenzio diventa una colpa
Negli ultimi anni è diventato sempre più comune che l’opinione pubblica spingesse attori, influencer ecc… a prendere posizione su ogni evento importante.
Durante il movimento Black Lives Matter, ad esempio, molte aziende e personaggi pubblici furono criticati per non aver espresso solidarietà o per averlo fatto troppo tardi, come se il silenzio fosse una colpa.
Quando è scoppiata la guerra in Ucraina, attori, cantanti e sportivi sono stati accusati di indifferenza solo perché non avevano pubblicato messaggi o bandiere sui social.
Lo stesso è accaduto durante la pandemia: chi non commentava o non condivideva la propria posizione sui vaccini veniva subito bollato come “no-vax” o “fanatico del vaccino”, a seconda di quello che non diceva.
E oggi, con il conflitto a Gaza, la storia si ripete. Molti artisti italiani sono stati invitati pubblicamente: a “dire da che parte stanno”, e a prendere una posizione per non sembrare complici. È una richiesta comprensibile: di fronte a un dramma umano, è naturale desiderare che chi ha voce la usi per denunciare o per sostenere.
Tuttavia, dietro questa spinta morale si nasconde una domanda molto scomoda: fino a che punto la società può pretendere che tutti si esprimano, anche contro la loro volontà?
Perché una cosa è scegliere di parlare per convinzione, mentre un’altra è sentirsi obbligati a farlo per paura di essere giudicati. La libertà di espressione non significa dover parlare sempre, ma avere il diritto di scegliere quando, e come farlo.
E in certe situazioni, tacere non è disinteresse, ma semplice consapevolezza di non possedere tutti gli elementi per comprendere appieno ciò che sta realmente accadendo.
Quando la giustizia diventa imposizione
Anche la causa più giusta, smette di essere tale, se viene imposta come un obbligo morale. La giustizia nasce dalla libertà di aderirvi, e non dalla paura di dissentire, poiché nel momento in cui la verità di qualcuno diventa la verità di tutti, non siamo più in una democrazia, ma in una forma di consenso forzato.
Chi pretende che tutti si schierino “a prescindere dalla loro volontà” non sta difendendo la libertà, ma la sta restringendo. Sta dicendo, implicitamente: “Puoi essere libero, ma solo se la pensi come me.”
Un artista, un intellettuale o un cittadino ha il diritto di schierarsi, ma anche di non prestare la propria voce a un coro. E non per egoismo, ma per difendere la possibilità stessa del dubbio. Perché il dubbio è una delle forme più alte di coscienza democratica.
La trappola del consenso morale
Nei social network l’indignazione si diffonde più in fretta della riflessione. La rapidità con cui tutto viene commentato e condiviso premia chi reagisce d’istinto, e non, chi si prende il tempo di riflettere.
Così, si crea un clima in cui il silenzio pesa più di mille parole, e la scelta di non esporsi viene subito interpretata come una colpa. Essere parte di una causa, non dovrebbe significare imporla anche agli altri. Chi si espone per una questione umanitaria merita rispetto, ma non può pretendere che tutti lo seguano o parlino la sua stessa voce.
La libertà non si misura dalla parte in cui ci si schiera, ma dalla possibilità di scegliere — di parlare o di tacere — senza timore di essere giudicati.
Conclusione
Chi difende la libertà di parola dovrebbe difendere anche la libertà di silenzio, poiché la democrazia non si fonda sul consenso, ma sul confronto.















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