Psicologia del voto: perché il benessere ci rende più progressisti?

voto elettorale

Viviamo in un mondo che oscilla tra speranza e paura come un pendolo incessante. 

La politica, in fondo, è lo specchio delle nostre emozioni collettive. Quando ci sentiamo al sicuro, guardiamo avanti e diventiamo più sognatori, mentre quando ci sentiamo minacciati, cerchiamo stabilità e ci aggrappiamo a ciò che già conosciamo. È una reazione naturale, un riflesso della nostra esigenza di sopravvivere come individui e come società.

Così, si ripete un fenomeno che la ricerca scientifica ha ormai ben documentato: in tempi di benessere e fiducia, la società tende verso visioni più aperte e progressiste, mentre nei momenti di paura e incertezza prevalgono posizioni più prudenti e conservatrici.

Le scienze politiche e la psicologia sociale ci dicono che questa dinamica è assolutamente reale. Dietro di essa ci sono decenni di studi che hanno analizzato dati, comportamenti e scelte elettorali in decine di paesi e di epoche diverse.

Quando cresce l’ansia, cresce anche il bisogno di stabilità e protezione. Quando invece fiorisce la fiducia, aumenta la curiosità verso il nuovo.

Come la paura orienta le scelte politiche

La psicologia politica ha dedicato un numero enorme di ricerche a comprendere come la percezione della minaccia influenzi il comportamento elettorale.

Non si parla solo di guerre o disastri naturali: basta una crisi economica, un aumento della criminalità percepita, una tensione internazionale, nonché un periodo di forte incertezza per cambiare il modo in cui le persone pensano al potere.

Nel 2003, alcuni ricercatori pubblicarono una meta-analisi fondamentale intitolata Political Conservatism as Motivated Social Cognition.

Analizzarono più di 80 studi per comprendere cosa spinge le persone verso posizioni più conservatrici. Il risultato fu chiaro: in momenti di incertezza e instabilità, cresce il bisogno di sicurezza e di ordine.

Una spinta più conservatrice, spiegavano, non è una “chiusura mentale”, ma una risposta psicologica naturale. Quando l’individuo percepisce caos o rischio, il cervello cerca un punto di stabilità.

L’ordine, la tradizione e l’autorità diventano così strumenti per ristabilire l’equilibrio. È come se, in mezzo a una tempesta, l’umanità intera preferisse scegliere un riparo, piuttosto che scegliere di esplorare il mare, e detto in questi termini, chi è che potrebbe obiettare a ciò?

La paura, insomma, rafforza le idee che trasmettono sentimenti di protezione, confini, identità e stabilità.
E questo si manifesta in diversi modi:

  • Durante una crisi economica, gli elettori tendono a preferire politiche di sicurezza e gestione, piuttosto che di redistribuzione o cambiamento.

  • Quando cresce la criminalità o la percezione di pericolo, aumenta il sostegno a partiti che enfatizzano “legge e ordine”.

  • Quando si teme la perdita dell’identità culturale, emergono leader che richiamano coesione e tradizione come strumenti di protezione.

È un meccanismo psicologico, quasi automatico: il cervello umano reagisce al pericolo attivando i circuiti di difesa. Non è un caso che, in periodi di forte tensione, il linguaggio politico tenda a semplificarsi, riducendo la complessità a formule rassicuranti, nette, e molto spesso basate sull’opposizione tra “noi” e “loro”.

Come scriveva George Lakoff, linguista e cognitivista, il pensiero conservatore fa leva sul modello del “padre severo”: una figura che impone regole per proteggere la famiglia dal caos. “E non come pensato da molti per autoritarismo, bensì per istinto di protezione. E quando il mondo sembra fuori controllo, quella figura torna naturalmente rassicurante.”

La fiducia che apre le menti: quando la stabilità permette il cambiamento

Quando una società vive periodi di benessere, pace e stabilità economica, accade qualcosa di naturale: le persone diventano più disponibili ad aprirsi, a discutere di cambiamenti, e a immaginare nuovi orizzonti. È come se, una volta placata la fame, l’essere umano tornasse a sognare.

Questo è il cuore della teoria di Ronald Inglehart, uno dei più influenti sociologi del Novecento. Nel suo libro Modernization and Postmodernization (1997), spiegava come la sicurezza materiale trasformi i valori collettivi. Quando la sopravvivenza non è più la priorità, emergono ideali che parlano di uguaglianza, diritti, tutela ambientale e giustizia sociale.

Inglehart definiva questi ideali “valori post-materialisti”, e mostrava come tendano a crescere nei momenti di prosperità. Un popolo che non teme la guerra o la miseria può permettersi di pensare al bene comune e di interrogarsi su ciò che può migliorare, non solo su ciò che deve conservare.

Nel 2016, insieme alla politologa Pippa Norris, Inglehart pubblicò Trump, Brexit and the Rise of Populism. In quello studio evidenziava che, al contrario, le crisi economiche e culturali riportano in primo piano i bisogni “materialisti”: sicurezza, identità e stabilità.

È un pendolo naturale: quando il presente è stabile, si guarda al futuro; quando il presente è incerto, si difende ciò che si ha.

In parole semplici:

  • Quando ci sentiamo protetti, diventiamo più inclini alla solidarietà e al cambiamento.

  • Quando abbiamo paura, cerchiamo maggiormente più stabilità, prudenza e continuità.

Non è una questione di ideologia, ma di psicologia collettiva. Chi vive con serenità tende ad ampliare i confini della propria empatia. Chi teme di perdere ciò che ha, tende invece a stringerli per sopravvivere.

E non si tratta solo di economia o benessere materiale: tutto ruota intorno alla fiducia nel futuro. Una generazione che crede che il domani sarà migliore di oggi tende a sostenere idee di progresso.

Una generazione che teme il futuro, invece, si rifugia nei valori che le danno sicurezza. Entrambe le scelte hanno una logica e una funzione: una spinge in avanti, l’altra consolida le basi.

Il pendolo della storia: quando la società respira e si contrae

Negli anni ’60 e ’70, dopo due decenni di pace e crescita economica, Europa e Stati Uniti conobbero un’ondata di fermento culturale. Le nuove generazioni, cresciute in un clima di sicurezza, chiesero più libertà, più diritti e più partecipazione. Il contesto di prosperità permise di sperimentare e di osare.

Poi arrivarono gli anni ’80, segnati da crisi economiche, tensioni internazionali e paura dell’instabilità. Gli elettori, di fronte a un mondo percepito come incerto, cercarono figure che offrissero fermezza e direzione. Leader come Reagan e Thatcher incarnarono quel bisogno di ordine e disciplina che molte società sentivano come necessario per ristabilire l’equilibrio.

Lo stesso accadde dopo l’11 settembre 2001: il trauma globale spinse milioni di persone verso leadership che promettevano sicurezza e protezione. Il bisogno di coesione e di difesa divenne più urgente rispetto a quello del cambiamento.

E ancora, nell’Europa post-2008, la crisi finanziaria e la paura del futuro alimentarono movimenti populisti e nazionalisti. Non solo per ideologia, ma per reazione emotiva collettiva: quando il terreno economico trema, è naturale cercare punti fermi.

Eppure, il pendolo non si ferma mai. Dopo ogni fase di chiusura, la società torna ad aprirsi, e viceversa. Lo vediamo nei movimenti giovanili per il clima, nelle nuove lotte civili, e nell’innovazione culturale. Quando le nuove generazioni crescono con meno timore e più fiducia, la bussola politica torna a orientarsi verso scelte progressiste.

La società, in fondo, non si sposta mai in modo lineare. Si adatta, reagisce e compensa. Quando sente di avere ossigeno, corre avanti. Quando si sente soffocare, cerca protezione. È il suo modo di restare viva.

La paura chiude, mentre la sicurezza apre. Quando temiamo di non farcela, pensiamo solo a resistere. Quando ci sentiamo al sicuro, iniziamo a migliorare. Ecco perché la crisi alimenta la cautela e l’abbondanza ispira il progresso.

Il ruolo dei media e della percezione collettiva

Se un tempo erano la fame, la guerra o le crisi a determinare la paura, oggi basta anche uno schermo. La percezione del pericolo non è più legata soltanto ai fatti, ma anche al modo in cui essi vengono raccontati.

Viviamo in un’epoca di informazione costante, dove le emozioni sono la vera moneta di attenzione. Ogni notizia può essere amplificata, distorta o caricata di pathos fino a trasformarsi in una valanga emotiva. La psicologia politica ci ricorda che non conta solo la minaccia reale, ma soprattutto quella percepita.

Un singolo evento, se ripetuto e rilanciato in modo ossessivo, può far sembrare instabile anche una società solida. È ciò che i sociologi chiamano spirale della paura: un meccanismo in cui la percezione di insicurezza alimenta la tensione politica, e la tensione politica a sua volta amplifica la paura collettiva.

In questi contesti, è naturale che le forze politiche che promettono protezione e stabilità trovino consenso, perché rispondono a un bisogno emotivo di sicurezza, tuttavia la stessa logica funziona anche al contrario: quando i media raccontano fiducia, progresso e coesione sociale, cresce l’apertura verso il cambiamento e il sostegno a idee più progressiste.

In entrambi i casi, i media agiscono come un acceleratore delle emozioni collettive, spostando l’equilibrio del dibattito pubblico verso la chiusura o verso l’apertura. I mezzi di comunicazione non creano i sentimenti: li amplificano. E nell’era dell’informazione, anche un sussurro può diventare un’onda  inarrestabile.

Cultura, generazioni e identità

Non tutte le società reagiscono nello stesso modo agli stimoli della paura o della fiducia. La cultura è il filtro che modella la risposta collettiva.
Nei paesi dove la fiducia nelle istituzioni è alta, e la coesione sociale ben radicata, le crisi generano meno polarizzazione. Dove invece prevale la sfiducia o la frammentazione, basta una piccola scossa per innescare tensioni e divisioni.

Le nuove generazioni mostrano differenti tratti. Dato che sono nati in un mondo più interconnesso e multiculturale, tendono a percepire la diversità come un elemento normale della realtà.

Tuttavia, anche tra i giovani, la precarietà e l’incertezza economica possono riattivare bisogni di protezione, portandoli verso posizioni più caute o conservatrici.

In fondo, le ideologie non sono altro che traduzioni culturali delle emozioni umane. Paura e fiducia rimangono le due grandi forze che orientano la bussola politica.

Destra e sinistra non come “valori morali”, ma come risposte psicologiche e sociali

Entrambe le ideologie se non estremizzate, ma ben centrate rappresentano strategie adattive di fronte a bisogni diversi:

  • La destra tende a valorizzare ordine, sicurezza, stabilità, identità, e coesione, cioè tutto ciò che permette a una comunità di resistere nei momenti di pericolo o incertezza.
    Quando la società rischia di disgregarsi, queste qualità diventano vitali: servono a garantire continuità, a evitare il caos, e a difendere ciò che già si possiede.

  • La sinistra, invece, tende a privilegiare cambiamento, uguaglianza, apertura, e solidarietà, cioè i valori che aiutano una comunità a progredire nei momenti di sicurezza e crescita.
    Quando la base materiale è solida, queste spinte spingono avanti il mondo in quanto ampliano i diritti, riducono le disuguaglianze, e portano a innovazioni.

In sintesi, destra e sinistra non rappresentano il bene o il male, ma due modi diversi di affrontare la realtà in base al contesto emotivo del tempo.
E la società ha bisogno di entrambe, un po’ come il battito del cuore, che si stringe e si dilata per tenere vivo l’organismo.

Conclusione

La linea che separa conservazione e progresso non passa solo attraverso i partiti o le ideologie, ma attraversa in primis la psicologia di un popolo. La politica è, in fondo, una manifestazione collettiva delle emozioni sociali.

In tempi di prosperità, l’essere umano si sente libero di rischiare, di esplorare nuove strade e di pensare al futuro. Nei momenti di crisi, invece, prevale l’istinto di proteggere ciò che si ha, oltre a mantenere stabilità e continuità. Entrambe le spinte sono necessarie: una costruisce, l’altra difende.

Capire questa dinamica non significa giudicarla, ma riconoscerla. La consapevolezza è il primo passo per non diventarne schiavi.
Quando comprendiamo che la paura e la fiducia sono parte dello stesso ciclo vitale, possiamo smettere di vederle come forze contrapposte e iniziare a considerarle complementari.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona.Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei