Il gioco è truccato? Il lato oscuro del capitalismo moderno

“Basta impegnarsi e chiunque può arrivare fino alla vetta.” È uno dei mantra più ricorrenti del capitalismo moderno: un’idea che viene ripetuta fino allo sfinimento in scuole e aziende. Il messaggio è chiaro: se non hai successo la colpa è solo tua, che non hai fatto abbastanza.
Ma è davvero così?
Dietro questa facciata rassicurante si nasconde una realtà molto più complessa. La Banca Mondiale e l’OCSE hanno pubblicato negli ultimi anni rapporti che mettono in discussione la favola della mobilità sociale.
Ad esempio, secondo l’OCSE, nei paesi occidentali servono a una famiglia povera in media quattro o cinque generazioni per raggiungere il reddito medio nazionale. In altre parole, un bambino nato oggi in una famiglia a basso reddito avrà pochissime possibilità di cambiare radicalmente il proprio destino nell’arco della sua vita.
E allora la meritocrazia, più che una regola, sembra essere un’eccezione. Funziona per pochi casi – che vengono poi celebrati mediaticamente per dare credibilità al sistema – tuttavia non rappresenta la norma. È come una lotteria: qualcuno vince, ma la maggioranza rimane esclusa.
Nepotismo e conoscenze: il vero biglietto d’ingresso
Non tutti partono dallo stesso punto, e questa è forse la verità più scomoda da accettare.
Chi nasce in una famiglia benestante gode di un capitale invisibile che va ben oltre il semplice denaro:
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Istruzione di qualità: scuole private, corsi di lingue, tutor, nonché attività extracurriculari.
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Capitale sociale: reti di conoscenze familiari, amicizie influenti e contatti lavorativi che aprono porte altrimenti sbarrate.
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Sicurezza economica: esiste la possibilità di “sbagliare” senza perdere tutto, di fare stage non retribuiti, e di avviare un’impresa contando sull’aiuto finanziario dei genitori.
Chi invece nasce in una famiglia povera deve affrontare ostacoli sistemici, che possono includere precarietà abitativa, scuole di quartiere con meno risorse, impossibilità di investire tempo e denaro in formazione, nonché necessità di iniziare a lavorare presto.
Le ricerche confermano quanto sia difficile “scalare la società” partendo da svantaggiati. Secondo il Pew Research Center (Pursuing the American Dream, 2012), solo il 4% dei figli delle famiglie americane collocate nel quintile più basso di reddito riesce a salire fino al quintile più alto. Al contrario, circa il 43% resta intrappolato nel quintile più basso.
Un’analisi dell’Urban Institute, condotta sugli anni 1984-2004, conferma lo stesso scenario: appena il 4-5% di chi partiva dal quintile più basso riusciva a raggiungere quello più alto nel corso della vita lavorativa.
Il messaggio è chiaro: per chi nasce povero, arrivare più in alto è molto più difficile, rispetto a chi nasce già ricco.
La meritocrazia si rivela così un’illusione narrativa: il talento conta, certo, ma solo dopo che hai pagato il biglietto d’ingresso per entrare nel sistema. E quel biglietto costa caro, spesso troppo caro per chi non ha le giuste conoscenze o i giusti mezzi economici.
Il mito del genio individuale
Leggendo questo articolo ci sarà sicuramente chi obbietta: i veri geni non hanno bisogno di privilegi, ed è vero! La storia è piena di figure eccezionali che, indipendentemente dalle proprie origini, sono riuscite a emergere: scienziati visionari, artisti fuori dal comune, nonché imprenditori che hanno rivoluzionato interi settori.
Il talento puro, quello che davvero si distingue dalla massa, spesso trova una strada anche in condizioni avverse.
Ma attenzione: si tratta di eccezioni, non della regola. La maggioranza delle persone non è composta da geni straordinari, bensì da individui con capacità normali o comunque distribuite nella media.
Ed è proprio qui che il contesto di partenza diventa decisivo. Chi nasce povero vede il proprio talento spesso frenato dalla mancanza di opportunità, reti e risorse; chi nasce ricco, invece, può trasformare anche abilità modeste in successo grazie a un ambiente favorevole.
Il capitalismo, celebrando le rare eccezioni, rafforza l’illusione che “se sei bravo ce la farai comunque”, tuttavia la verità è che, per la grande maggioranza della popolazione, il genio individuale non basta: senza condizioni di partenza favorevoli, il talento rischia di restare invisibile.
La scala sociale bloccata
Mobilità della ricchezza e persistenza sociale
Uno studio del Brookings Institution sull’“intragenerational wealth mobility” mostra che negli USA, chi è nei quintili più bassi di ricchezza nei trenta anni, con grande probabilità resta nelle categorie basse anche nei cinquant’anni. Ad esempio: circa il 49% di chi è nel quintile più basso in gioventù rimane lì anche dopo molti anni.
La mobilità sociale non riguarda solo il reddito, ma anche l’istruzione. In molti Paesi europei il livello di studio dei figli dipende ancora molto da quello dei genitori. Uno studio intitolato Educational Inequality of Opportunity and Mobility in Europe mostra che tra il 38% e il 74% delle differenze educative non sono dovute al merito personale (impegno, talento), ma a fattori esterni come:
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il livello di istruzione dei genitori,
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il quartiere o la città in cui si nasce,
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la qualità della scuola frequentata.
In pratica, quasi metà (e in certi Paesi tre quarti) delle differenze scolastiche dipendono dalle circostanze di nascita, e non dalle capacità individuali.
Trend recenti: cosa succede oggi?
In molti paesi europei la mobilità sociale migliorava nel dopoguerra o nella seconda metà del 20° secolo, ma negli ultimi decenni il progresso si è molto rallentato, se non bloccato. FONTE ATTENDIBILE
Anche nei paesi nordici, considerati “modelli” di equità da seguire, ci sono segnali di peggioramento. I dati mostrano che la correlazione tra reddito dei genitori e reddito dei figli sta aumentando. In altre parole, l’origine familiare pesa sempre di più. Se nasci ricco, resti ricco; se nasci povero, resti povero.
Implicazioni: ecco perché i numeri contano davvero!
Questi dati smantellano l’idea che il capitalismo “premi in primis il talento”: il punto di partenza (famiglia, condizioni sociali, educative) svolge un ruolo più importante.
La persistenza della povertà intergenerazionale comporta che molti non solo faticano ad uscire dalle fasce basse, ma che la disuguaglianza si tramandi come un’eredità.
Anche servizi pubblici e politiche di welfare giocano un ruolo molto importante: paesi con sistemi più redistributivi, con istruzione accessibile e sociale, mostrano migliore mobilità. Gli esempi scandinavi lo dimostrano.
Debito e disuguaglianze
Il capitalismo non è solo un sistema di produzione, ma è anche un sistema di debito. Funziona come un motore che per girare deve alimentarsi costantemente di prestiti, interessi e leve finanziarie. Ma chi paga davvero il conto?
Stati sotto pressione
Molti Paesi sono prigionieri di un debito pubblico che li rende vulnerabili e dipendenti.
In Italia, il debito ha superato il 140% del PIL, costringendo i governi a tagliare welfare, istruzione e sanità per rispettare i vincoli internazionali.
In Grecia, dopo la crisi del 2008, i tagli imposti hanno ridotto i salari pubblici fino al 40% e fatto schizzare la disoccupazione giovanile oltre il 50%.
Il risultato? Intere generazioni hanno visto svanire opportunità di lavoro e sicurezza sociale, mentre i grandi creditori internazionali continuavano a incassare.
Individui intrappolati nei debiti
Il capitalismo moderno spinge le persone a vivere a credito:
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Mutui trentennali per avere una casa.
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Prestiti studenteschi che negli USA hanno raggiunto i 1.700 miliardi di dollari, una zavorra che impedisce a milioni di giovani di avviare attività o mettere su famiglia.
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Carte di credito e microprestiti che trasformano la promessa di libertà in catene invisibili.
Secondo un report del Credit Suisse (2023), il 10% più ricco della popolazione mondiale detiene oltre il 70% della ricchezza globale, mentre circa la metà più povera possiede appena il 2%. Questo significa che mentre pochi accumulano capitali a livelli mai visti, la maggioranza deve ricorrere al debito per mantenere un tenore di vita minimo.
Il paradosso del “sogno capitalistico”
Il capitalismo racconta di sogni: la casa di proprietà, l’impresa di successo, l’auto nuova, ma spesso questi sogni sono finanziati da banche e istituti di credito che lucrano sugli interessi. L’apparente prosperità è costruita su fondamenta fragili, e basta una crisi economica per far crollare l’intero castello di carte.
Capitalismo o maschera del nepotismo?
Il capitalismo è davvero il regno del merito o è un sofisticato meccanismo per legittimare privilegi e concentrare il potere nelle mani di pochi?
Le élite economiche si tramandano ricchezza e posizioni di potere come fossero titoli nobiliari. Un rapporto dell’Harvard Kennedy School mostra che la probabilità di diventare dirigente in una grande impresa è tre volte superiore per chi proviene da famiglie già benestanti rispetto a chi proviene da famiglie a basso reddito, indipendentemente dal titolo di studio.
La narrativa della competizione e della meritocrazia serve allora a giustificare le disuguaglianze: se sei povero, è colpa tua; se sei ricco, è merito tuo. In realtà, molto spesso è questione di eredità, contatti e privilegi avuti fin dalla nascita.
Conclusione
Il capitalismo non è solo un sistema economico, ma è anche una narrazione potente, che in superficie vende sogni alla portata di tutti, ma che in profondità nasconde una realtà ben più dura dato che:
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Le regole del gioco non sono uguali per tutti.
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I debiti pesano più sui deboli che sui forti.
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Le ricchezze si concentrano nelle mani di pochi, mentre le masse faticano a salire anche di un solo gradino.
“Se non sei arrivato in alto, è colpa tua, perché non ti sei impegnato abbastanza.” Così ci viene ripetuto continuamente, tuttavia forse la verità è un’altra: non tutti hanno ricevuto lo stesso punteggio iniziale con cui iniziare la partita. La maggioranza inizia da zero, altri da venti, mentre altri ancora iniziano la partita già in vantaggio di cento punti.
E allora la meritocrazia, più che una regola, diventa un mito utile a mantenere in piedi il sistema.
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