Il DNA rivela il rischio suicidario: lo studio shock

rischio suicidio

Gli scienziati hanno scoperto che esiste una relazione esistente tra determinate caratteristiche della struttura cerebrale e la predisposizione genetica ai tentativi di suicidio. Una connessione che non solo ci aiuta a comprendere meglio questo fenomeno drammatico, ma potrebbe anche aprire nuove strade per la prevenzione.

Lo studio: un lavoro su scala gigantesca

Un’indagine senza precedenti: tra genetica e cervello

Il gruppo guidato da Jill A. Rabinowitz, professoressa associata alla Rutgers University, ha voluto spingersi oltre i semplici sospetti che per anni hanno aleggiato nella comunità scientifica: esiste davvero un terreno biologico comune tra rischio genetico di suicidio e struttura cerebrale?

La questione non è banale. Per molto tempo si è pensato che i comportamenti suicidari fossero spiegabili solo attraverso fattori ambientali e psicologici — traumi infantili, difficoltà economiche, isolamento sociale. Ma se il DNA e l’architettura del cervello giocassero un ruolo altrettanto decisivo?

Per dare una risposta concreta, i ricercatori hanno messo in campo una strategia su scala mai tentata prima: incrociare i dati di due giganteschi filoni di ricerca, unendo genetica e neuroimaging.

Primo pilastro: quasi un milione di genomi

Da un lato, sono stati analizzati i risultati di enormi studi genetici su larga scala (GWAS – Genome-Wide Association Studies) che hanno coinvolto quasi un milione di individui. In questo oceano di dati, gli scienziati hanno cercato i tratti genetici associati al rischio di tentativi di suicidio, ricostruendo così una sorta di “mappa del rischio” scritta nel DNA.

Si tratta di un lavoro titanico: immagina milioni di varianti genetiche sparse lungo il genoma umano, ognuna con un effetto minimo, ma che sommate tra loro possono aumentare la probabilità di sviluppare vulnerabilità psichiatriche. Proprio qui entra in gioco la statistica avanzata, che permette di calcolare un punteggio di rischio genetico individuale.

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Secondo pilastro: oltre 75.000 cervelli scandagliati

Dall’altro lato, i ricercatori hanno utilizzato i dati provenienti da più di 75.000 risonanze magnetiche strutturali. Non parliamo quindi di piccoli campioni da laboratorio, ma di una mole di scansioni mai vista prima per questo tipo di studi.

Le immagini hanno permesso di misurare:

  • il volume totale del cervello,

  • e soprattutto nove aree sottocorticali fondamentali:

    • ippocampo, sede della memoria e dell’apprendimento;

    • talamo, il grande “centralino” delle informazioni sensoriali;

    • amigdala, cruciale per le emozioni e la paura;

    • putamen e caudato, parti del sistema dei gangli della base, coinvolti nella motivazione, nei movimenti e nel controllo cognitivo.

Incrociando i due set di dati — genetica e neuroimaging — è stato possibile esplorare un’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria: i geni che aumentano il rischio di suicidio influenzano anche il modo in cui il cervello si sviluppa e si struttura?

Lo sguardo rivolto agli adolescenti

Perché guardare solo agli adulti, quando molti comportamenti a rischio emergono già in giovane età?

Ecco allora che entra in scena il progetto ABCD (Adolescent Brain Cognitive Development Study), uno degli studi longitudinali più vasti al mondo sullo sviluppo cerebrale nei giovani.

  • Oltre 5.000 adolescenti europei hanno fornito dati sia genetici che di risonanza magnetica.

  • L’obiettivo era capire se le prime tracce di questo legame tra geni e cervello si manifestassero già nell’adolescenza, in un periodo in cui il cervello è ancora in piena evoluzione.

I ricercatori hanno così potuto osservare come il rischio genetico non resti latente fino all’età adulta, ma inizi a plasmarne lo sviluppo neurologico già dai primi anni della crescita.

In altre parole, è come se i geni iniziassero a modellare in silenzio la struttura del cervello proprio nel periodo più delicato, quello in cui nascono le capacità emotive, motivazionali e sociali fondamentali per la vita futura.

Un viaggio dentro il DNA

Come hanno fatto i ricercatori a collegare il DNA con la forma e le dimensioni del cervello? Hanno usato una vera e propria “cassetta degli attrezzi” della genetica moderna. Vediamola in modo semplice:

  • Regressione del punteggio di linkage disequilibrium (LDSC).
    Immagina di voler capire se due aspetti – ad esempio il rischio di tentare il suicidio e la grandezza di alcune aree cerebrali – hanno radici comuni nel DNA. Questo metodo prende in esame l’intero genoma e calcola se, in media, le stesse varianti genetiche influenzano entrambe le caratteristiche. È un po’ come confrontare due libri e scoprire che usano molte delle stesse parole: non sarà una prova definitiva, ma è un forte indizio che raccontano storie collegate.

  • Analisi GWAS a coppie.
    Se il primo metodo guarda il quadro generale, questo va nel dettaglio. Qui i ricercatori scompongono il genoma in tanti piccoli segmenti e cercano quali di essi influenzano sia il rischio di suicidio sia la struttura del cervello. È come zoomare con una lente di ingrandimento su un testo e scoprire quali frasi vengono “riutilizzate” in due capitoli diversi.

  • Mappatura genica.
    Una volta trovati questi segmenti sospetti, i ricercatori li collegano a specifici geni e alle loro funzioni note. È un po’ come tradurre un messaggio in codice: capisci non solo dove sta l’informazione, ma anche cosa significa e quale effetto ha sul funzionamento del corpo e del cervello.

Il risultato? Chi porta nel proprio DNA una predisposizione maggiore al suicidio tende ad avere un volume cerebrale totale leggermente più basso. La correlazione non è enorme (r = -0,10), ma è statisticamente significativa e soprattutto conferma ciò che altri studi di neuroimaging avevano già suggerito: chi è più vulnerabile sul piano genetico tende ad avere un cervello mediamente più piccolo.

Le regioni cerebrali coinvolte

Quando i ricercatori hanno guardato con attenzione, hanno trovato dieci segmenti del genoma che influenzano sia il rischio di suicidio sia la struttura di aree molto specifiche del cervello.

  • Talamo (7 segmenti).
    Pensa al talamo come a un grande snodo ferroviario: tutte le informazioni sensoriali ed emotive passano di lì, per poi essere indirizzate verso altre regioni cerebrali. Se questo sistema di smistamento è fragile, può compromettere il modo in cui percepiamo e gestiamo emozioni e stimoli dall’esterno.

  • Putamen (2 segmenti).
    Questa parte del cervello è fondamentale per la motivazione e per i movimenti volontari. Non a caso, è coinvolta quando decidiamo di iniziare un’azione o di perseguire un obiettivo. Se i geni che regolano quest’area funzionano in modo “atipico”, la capacità di provare spinta o motivazione può essere ridotta.

  • Nucleo caudato (1 segmento).
    Questa regione ci aiuta ad apprendere, a prendere decisioni e a controllare i nostri pensieri e comportamenti. In pratica, agisce come una sorta di filtro cognitivo che ci permette di scegliere cosa fare e cosa evitare. Una sua alterazione potrebbe spiegare perché alcune persone fanno più fatica a regolare impulsi o pensieri intrusivi.

Non è un caso che tutte queste aree siano collegate a disturbi psichiatrici complessi come la depressione e la schizofrenia. È come se ci fosse una rete cerebrale particolarmente fragile che, a seconda dei geni ereditati e dell’ambiente in cui si cresce, può manifestarsi con problemi diversi.

I geni sono i protagonisti

Tra i geni individuati spicca il DCC, che guida la crescita delle connessioni neuronali e lo sviluppo delle sinapsi. In parole semplici, regola il modo in cui i neuroni si “parlano” e costruiscono ponti tra di loro. Non sorprende quindi che sia legato sia al rischio di suicidio, che alla grandezza di aree come il putamen e il caudato.

Altri geni si trovano invece in una zona particolare del DNA chiamata complesso maggiore di istocompatibilità (MHC). Questa regione è famosa per il suo ruolo nel sistema immunitario. Negli ultimi anni la scienza ha scoperto che è coinvolta anche in disturbi psichiatrici.

È come se il cervello e il sistema immunitario fossero molto più collegati di quanto potessimo pensare.

Nel caso del talamo, non è un singolo gene a fare la differenza, ma piuttosto una combinazione di più segnali genetici che agiscono contemporaneamente, rendendo l’effetto ancora più complesso da decifrare.

E negli adolescenti?

Qui arriviamo al punto più delicato e forse più importante. Quando i ricercatori hanno analizzato i dati di oltre 5.000 adolescenti dello studio ABCD, hanno scoperto che chi aveva un rischio genetico più alto di suicidio mostrava un volume ridotto del nucleo accumbens destro.

Cos’è il nucleo accumbens? È il cuore del sistema della ricompensa. È la regione che si attiva quando proviamo piacere, motivazione o soddisfazione, che può attivarsi quando vinciamo una partita, riceviamo un complimento o ascoltiamo semplicemente la nostra canzone preferita.

Un nucleo accumbens meno sviluppato può significare una minore capacità di provare gratificazione o di cercarla. In altre parole, ciò che per altri è fonte di gioia o spinta motivazionale, per alcuni ragazzi geneticamente più vulnerabili può risultare opaco o meno stimolante.

Ecco perché molti adolescenti fragili possono faticare a trovare la motivazione giusta per affrontare la vita, o sentirsi vuoti anche in situazioni che dovrebbero portare entusiasmo. È come se la “ricompensa interiore” fosse sintonizzata a un volume più basso.

Questa scoperta ci dice una cosa cruciale: il rischio genetico non rimane nascosto fino all’età adulta, ma può modellare il cervello già in adolescenza, un periodo critico per lo sviluppo emotivo e sociale.

Limiti e prospettive future

Naturalmente, la scienza invita sempre alla cautela. Questo studio, seppur vasto e innovativo, possiede anche alcuni limiti importanti:

  • Popolazione studiata: i dati genetici riguardavano solo persone di origine europea. Non possiamo dare per scontato che i risultati valgano anche per popolazioni asiatiche, africane o latinoamericane.

  • Associazione, non causalità: il fatto che geni e cervello siano legati non significa che uno causi l’altro. Potrebbe essere che i geni influenzino il cervello e da lì il comportamento, ma anche che un cambiamento cerebrale influenzi l’espressione genetica.

Gli stessi autori sottolineano che serviranno tecniche più sofisticate, come la randomizzazione mendeliana, per capire meglio la direzione del rapporto. Inoltre, non bisogna dimenticare l’ambiente: traumi infantili, relazioni familiari difficili, nonché condizioni economiche precarie possono giocare un ruolo di fondamentale importanza nella predisposizione genetica al rischio suicidario.

Perché tutto questo è importante?

Pensiamoci bene: se riuscissimo a identificare marcatori genetici e cerebrali che indicano un rischio maggiore già in giovane età, potremmo sviluppare strategie di prevenzione mirate, non per stigmatizzare, ma per proteggere meglio chi è vulnerabile.

Sapere che certe strutture del cervello riflettono la predisposizione genetica al suicidio può aiutare a costruire programmi di intervento personalizzati.

In fondo, come dice Rabinowitz, capire questi legami nelle prime fasi dello sviluppo “potrebbe essere una strada verso la prevenzione”. E non è forse questo l’obiettivo più nobile della scienza? Salvare vite, prima che sia troppo tardi.

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Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei