Ecco come le etichette distruggono il dialogo senza che ce ne accorgiamo
A chi non è mai capitato di trovarsi nel mezzo di una discussione e, invece di rispondere realmente a ciò che l’altro sta dicendo, liquidarlo con un’etichetta, magari con frasi del tipo:
- Sei un estremista
- Sei “un povero illuso”
- Sei una persona ignorante
Così facendo stiamo comunicando in modo implicito che il suo pensiero non merita attenzione poiché proviene da qualcuno che, secondo noi è sbagliato alla radice. In questo modo ci sentiamo come se la conversazione fosse già vinta, anche quando magari siamo noi quelli completamente in torto.
Le etichette possiedono un potere enorme, dato che recidono il dialogo e spengono il pensiero critico. Magari l’altra persona potrebbe portarti dati, argomenti solidi, o studi scientifici capaci di mettere in discussione le tue certezze, tuttavia, questo diventa irrilevante, poiché nella tua mente hai già decretato che quella persona non può avere ragione.
Non stai più ascoltando ciò che dice, ma hai giudicato chi lo dice.
PENSACI BENE: Perché mai dovresti partecipare a una conversazione solo per vincere, invece che per capire davvero. Quando l’ego prende il comando, la verità diventa un dettaglio insignificante. Eppure, quante volte nella nostra vita, abbiamo cambiato idea proprio grazie a un confronto sincero?
Quante volte abbiamo scoperto di essere in errore e ne siamo usciti migliorati?
La vera intelligenza non sta nel pretendere di avere sempre ragione, ma nel saper riconsiderare le proprie idee quando le circostanze lo richiedono. È statisticamente impossibile che una persona abbia sempre ragione su tutto!
Mettiamo anche il caso in cui fossimo davvero nel giusto, il confronto sincero può migliorare il pensiero complesso, e quindi favorire la nostra crescita personale. Anche se avevamo ragione, confrontarsi con gli altri, può permettere di vedere sfumature che, da soli, non avremmo mai potuto cogliere.
Chi sa cambiare idea dimostra inoltre, una spiccata elasticità mentale.
ESEMPIO: Se io, vegano convinto, guardo una persona che mangia carne e la etichetto denigrandola, come “mangia-cadaveri”, sto trasmettendo un messaggio molto chiaro: qualunque cosa tu dica non vale nulla, perché tu, in quanto persona, sei già considerato “sbagliato”.
La discussione così non è più tra due idee, ma tra due identità che si disprezzano. Tutto questo è spiegato chiaramente dalla psicologia sociale.
Gli esperimenti di Tajfel
Negli anni settanta Henri Tajfel – famoso psicologo britannico – si pose una domanda semplice ma potentissima: Quanto serve per far sentire due persone come appartenenti a gruppi diversi? Il risultato? Molto meno di quanto pensiamo.
Per verificarla, condusse i famosi esperimenti dei gruppi minimi.
Ecco come fu organizzato l’esperimento
Le persone venivano invitate in laboratorio e veniva detto loro che sarebbero state divise in gruppi in base a preferenze artistiche o ad altre caratteristiche apparentemente significative.
Ecco come procedeva: vi divideremo in due gruppi: da una parte ci saranno quelli che preferiscono i quadri di Klee e dall’altra quelli che preferiscono i quadri di Kandinsky.
Ecco il punto focale: la divisione era casuale.
Inoltre:
- 
I partecipanti non si conoscevano tra loro 
- 
Non vedevano mai i membri degli altri gruppi 
- 
Le ricompense venivano assegnate in modo anonimo 
- 
Non c’era nessuna interazione passata 
- 
E soprattutto non ci sarebbe mai stata un’interazione futura 
Una volta divisi, ai partecipanti veniva chiesto di assegnare punti o ricompense economiche ad altri membri del gruppo o all’altro gruppo.
Il risultato fu sconvolgente
Le persone favorivano sistematicamente il proprio gruppo e penalizzavano l’altro, anche quando questo significava ottenere meno vantaggi personali.
Cosa dimostra questo?
Dimostra che
- 
il nostro cervello crea identità e schieramenti anche quando non esistono 
- 
basta una differenza insignificante per far nascere noi contro loro 
- 
tendiamo a difendere il gruppo per proteggere la nostra identità personale 
- 
la ragione passa in secondo piano rispetto al bisogno di appartenenza 
L’esperimento di Tajfel ha dimostrato in modo inequivocabile, che basta una divisione minima, persino casuale, per farci favorire il nostro gruppo.
Ora, immagina cosa accade quando i gruppi non sono casuali, bensì legati a valori, ideologie, o identità ben radicate.
Quando non si tratta solo di essere “nel gruppo A o B”, ma di sentirsi:
- 
“i giusti contro i sbagliati” 
- 
“i consapevoli contro gli ignoranti” 
- 
“i buoni contro i cattivi” 
Ed è proprio per questo motivo che le ETICHETTE vengono utilizzate. Non servono a capire la realtà, ma a difendere il nostro gruppo e il nostro ego. Etichettare l’altro significa dire: «Tu non sei come me, quindi non devo ascoltarti».
È un modo rapido, e automatico per proteggersi dalla possibilità di essere messi in discussione.
Perché etichettiamo gli altri?
Etichettare non significa semplicemente giudicare, ma rappresenta più una scorciatoia emotiva per sentirsi al sicuro, in quanto:
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Evita lo sforzo del dialogo 
- 
Protegge l’ego da eventuali errori 
- 
Permette di sentirsi nel gruppo giusto 
- 
Illude di avere ragione senza approfondire 
Etichettare qualcuno riduce l’ansia che nasce quando qualcuno ci mette in discussione. Ed è qui che entra in gioco il concetto della dissonanza cognitiva.
Dissonanza cognitiva
Quando ci troviamo davanti a informazioni che contraddicono ciò in cui crediamo, il cervello prova disagio. Non è solo fastidio mentale, ma è un vero e proprio disagio emotivo.
Leon Festinger, nel 1957, mostrò che gli esseri umani fanno di tutto per evitare questa sensazione dolorosa, dato che cambiare idea significa:
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mettere in discussione sé stessi 
- 
ammettere di non essere perfetti 
- 
rinunciare a una parte della propria identità che pensavamo fosse inviolabile 
E questo il cervello lo vive come una piccola minaccia. Per questo spesso preferiamo avere ragione, rispetto al capire davvero.
E allora cosa fa l’etichetta?
L’etichetta funge da antidolorifico mentale, in quanto è in grado di bloccare la dissonanza cognitiva prima ancora che inizi. Se definisco l’altro “ignorante”, “fanatico”, “chiuso”, o “estremista” posso evitare di ascoltarlo. L’etichetta non serve a spiegare la realtà, ma serve esclusivamente a proteggere il nostro ego.
Quando l’etichetta prende il posto del pensiero, il confronto diventa una guerra, dato che non stiamo più discutendo di idee, ma stiamo solo difendendo il nostro bisogno di appartenere a un gruppo. Noi rappresentiamo il giusto, e loro rappresentano sempre la parte sbagliaa, quindi posso anche ignorare quello che stai dicendo, dato che è una perdita di tempo.
Questo meccanismo lo possiamo ritrovare nella politica, nelle religioni, nelle discussioni di genere, nelle ideologie alimentari, e nel tifo sportivo. Ogni volta che una discussione nasce come un “noi” contro un “loro”, la possibilità di capirsi si riduce in modo vertiginoso.
Quando qualcuno usa le etichette per discutere, non sta davvero cercando di comprendere il tuo punto di vista, ma sta solo cercando di AVERE RAGIONE! E, se necessario, arriverà anche a distorcere informazioni, ignorare dati, nonché reinterpretare fatti a modo suo pur di non mettere in discussione le proprie certezze.
Una persona davvero intelligente, invece, non ha paura di interrogarsi. Non cerca l’errore per umiliarsi, ma per avvicinarsi alla verità.
Chi cerca la verità non ha bisogno di proteggersi con le etichette, dato che possiede il coraggio di ascoltare, dubitare, e di cambiare idea quando serve.
Quando manca l’argomento, si colpisce il dettaglio
Ho notato anche un altro meccanismo di difesa molto diffuso, soprattutto sui social media. Quando una persona non riesce a confutare ciò che dici, spesso cerca di attaccarti su dettagli irrilevanti, come un errore grammaticale, una parola detta male o un’espressione poco elegante.
Come se, denigrando la forma, potesse automaticamente screditare anche il contenuto. È un modo sottile per dire
«Hai fatto un errore? Allora tutto quello che dici sarà sicuramente sbagliato.»
Questo ragionamento non è logico dato che un errore di scrittura non c’entra nulla con la qualità delle idee, ma serve solo a umiliare l’altro, specialmente quando c’è un pubblico che guarda.
Si passa dall’analizzare il messaggio all’attaccare il messaggero. Questo è solo un altro modo per chiudere la conversazione senza mettersi davvero in gioco.
Come riconoscere quando stiamo usando un’etichetta
Non è semplice accorgersi quando stiamo usando un’etichetta al posto del pensiero. Il nostro cervello lo fa in automatico, quasi senza che ce ne rendiamo conto, tuttavia possiamo imparare a fermarci un momento e fare attenzione a ciò che accade dentro di noi.
Quando stai discutendo potresti chiederti:
- 
Sto rispondendo alle sue idee, o sto attaccando la persona che le sta dicendo 
- 
Conosco davvero l’argomento, o sto ripetendo uno slogan che ho sentito 
- 
Mi sento messo in discussione, magari persino irritato o minacciato, mentre l’altro parla 
Se la risposta è “sì”, con molta probabilità non stai difendendo le tue idee, ma il tuo ego.
E questa è una delle cose più difficili da accettare.
Perché ammettere di aver sbagliato è così duro?
Ammettere un errore non significa – in alcuni casi – correggere solo una virgola. A volte significa guardare in faccia anni della nostra vita.
Pensiamo ad esempio, a chi si accorge, dopo vent’anni, di aver sostenuto un partito politico che non rappresenta ciò che crede davvero.
È come se dicessi a te stesso: per vent’anni ho creduto a qualcosa che ora non riconosco più. E ti assicuro che è estremamente difficile e doloroso ammetterlo.
O ad esempio, pensa a chi ha seguito una religione per decenni, per poi rendersi conto che alcune credenze non lo rappresentano più.
Non sta solo cambiando idea, ma sta modificando la sua identità.
È molto più semplice – anche davanti all’evidenza – continuare a voler avere ragione, te lo assicuro! È come mettere in discussione chi sei stato fino a quel momento.
Molte persone, nel momento in cui mettono in discussione le proprie convinzioni, possono sentirsi smarrite, come se dentro di loro si aprisse un vuoto difficile da colmare, tuttavia, quel vuoto, per quanto faccia paura, non è un errore, anzi… molto spesso è proprio il passaggio necessario per poter crescere come individuo.
 
								 
							


 
                                     
                                     
                                     
                                     
                                     
                                     
                                     
                                     
                                     
                                    
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