Il potere cambia davvero le persone? Ecco cosa dice la scienza

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Diversi studi di psicologia sociale hanno mostrato che il potere è in grado di alterare i comportamenti, le percezioni e perfino la moralità. Essere ben consapevoli di esercitare potere sugli altri, può cambiare la nostra percezione del mondo. 

Il professor Dacher Keltner – dell’Università di Berkeley – ha dedicato anni a studiare questo specifico fenomeno. Le sue ricerche dimostrano, che chi occupa una posizione di potere tende a:

  • interrompere più spesso gli altri durante le conversazioni, come se la propria voce fosse più degna d’ascolto

  • mostrare meno empatia

  • prendere decisioni più rischiose, spesso sopravvalutando le proprie capacità

  • percepire meno le conseguenze delle proprie azioni, come se le regole valessero solo per gli altri

Keltner parla di un vero e proprio “deficit empatico indotto dal potere”. Questa specifica forma di disconnessione emotiva porta a vedere gli altri non più come persone, ma come strumenti o ostacoli da superare.

ECCO UN ESEMPIO: Pensa al classico dirigente che, dopo la promozione, smette di salutare la segretaria che fino a ieri considerava un’amica fidata.

Oppure, al politico che, una volta eletto, si dimentica delle promesse fatte ai cittadini. Questo cambiamento può avvenire anche in modo inconscio, dato che il potere crea una sorta di distanza psicologica.

La sensazione di estremo controllo verso gli altri, cambia il modo in cui percepiamo la realtà, in quanto l’altro smette di essere visto come una persona, ma diventa solo un elemento da gestire. E più una persona sale di grado, più questo rischio aumenta.

Se ci pensi bene, queste dinamiche si manifestano anche nelle relazioni. Quando una persona si sente più importante dell’altra, è molto probabile che finisca per imporre le proprie decisioni al partner.

Il cervello è “ubriaco” di potere

I neuroscienziati chiamano questa condizione “power intoxication”, cioè “ubriacatura da potere”. Quando una persona sente di avere controllo sugli altri o su una specifica situazione, il suo cervello produce dopamina, la molecola responsabile della ricompensa e della gratificazione.

È la stessa sostanza che si attiva quando vinciamo una scommessa, o riceviamo dei complimenti. Il potere, insomma, funziona come una droga: più ne hai, più ne vuoi.

Il risultato? Un senso euforico di sicurezza e invincibilità. Si diventa così, più impulsivi, meno prudenti, e più convinti di avere ragione. È la stessa dinamica che può far crollare un CEO o un politico in un attimo. In questo contesto infatti, abbiamo la convinzione di essere intoccabili.

Gli studi del neuroscienziato Sukhvinder Obhi – della McMaster University – hanno mostrato, che il potere può ridurre l’attività dei “neuroni specchio”: quelli che ci permettono di provare empatia verso l’altro. In pratica, il cervello di una persona “potente” reagisce meno ai segnali emotivi degli altri.

Ecco perché, in certe riunioni o decisioni politiche, assistiamo a scelte apparentemente “disumane”: non perché manchi la morale, ma perché si è attenuato il legame emotivo con chi ne subirà le conseguenze.

Gli esperimenti che fanno riflettere

Difficile parlare di potere e comportamento umano senza citare uno degli esperimenti più controversi nella storia della psicologia, ovvero, lo Stanford Prison Experiment, condotto da Philip Zimbardo nel 1971.

Un gruppo di studenti universitari venne diviso casualmente in due gruppi, una doveva fare le guardie, mentre l’altra i prigionieri. L’esperimento doveva simulare la vita carceraria in una prigione simulata all’interno del campus.

Eppure, bastarono pochi giorni perché il gioco si trasformasse in qualcosa di più sadico e perverso. Le guardie infatti, cominciarono a imporre punizioni crudeli, umiliazioni e abusi psicologici ai prigionieri. E i prigionieri risposero tramite comportamenti più passivi, depressi e sottomessi.

Zimbardo dovette interrompere l’esperimento dopo soli sei giorni! Il potere – seppur finto – aveva completamente trasformato persone comuni, in persone dispotiche.

Lo psicologo concluse che le situazioni possono cambiare le persone più di quanto pensiamo, e che il potere tende a “sbloccare” comportamenti latenti, specie quando mancano regole e controlli.

Esperimenti successivi hanno confermato la stessa dinamica: quando le persone percepiscono di avere autorità, si sentono meno vincolate a seguire le norme morali. È il fenomeno della cosiddetta “licenza morale”: l’idea che chi ha potere o status si senta maggiormente autorizzato a trasgredire.

Uno studio condotto alla Columbia Business School ha mostrato che chi detiene potere tende a giustificare maggiormente le proprie scorrettezze, attribuendo le colpe a fattori esterni o a un “bene superiore”. Il meccanismo psicologico in atto è subdolo: si pensa, “Posso farlo perché lo faccio per una buona causa”.

Le dinamiche del potere

Il potere è sempre un gioco a due, fatto di ruoli che si alimentano a vicenda: da una parte c’è chi domina, dall’altra chi si lascia dominare.
Chi detiene il potere si sente sicuro, quasi invincibile, convinto di poter controllare gli altri e di avere il diritto di farlo. Chi lo subisce, invece, spesso non si ribella: sceglie l’adattamento come forma di difesa.

È un meccanismo ben conosciuto in psicologia. Quando ci percepiamo “più piccoli” o vulnerabili, il cervello mette in moto le sue strategie di sopravvivenza: sottomettersi diventa così, un modo per evitare il conflitto.

La cosa più inquietante è che il cervello, una volta assaggiato il potere, impara a desiderarlo. Ogni volta che una persona esercita controllo sugli altri, prova una scarica di dopamina, la stessa sostanza che si attiva con le droghe, il sesso o il gioco d’azzardo.
Il risultato? Il potere diventa una forma di piacere. E, come ogni piacere intenso, può generare dipendenza.

Se poi dall’altra parte c’è chi si lascia dominare, il meccanismo si rafforza sempre di più. Il “dominante”, in questo modo aumenta gradualmente la sua dose di potere, proprio come un tossico che ha bisogno di una quantità sempre maggiore per provare lo stesso effetto. Così, per sentirsi sempre più forte, può arrivare a infliggere sempre più dolore e umiliazione, al povero malcapitato.

È un circolo vizioso dove:

  • più il sottomesso si piega, più il dominante si esalta;

  • più il dominante si esalta, più riduce l’altro a oggetto;

  • e più l’altro diventa oggetto, più perde la forza di reagire.

In questo contesto tossico, il potere viene esercitato dal ” dominante” che vive per dominare, e il sottomesso che vive per sopravvivere.
Un equilibrio tossico e instabile che finisce inesorabilmente per distruggere entrambi.

Eppure, non tutto è perduto

Sì, perché il potere non è un veleno invincibile, dato che ci sono leader, imprenditori, e persino politici, che restano profondamente umani, anche quando ai vertici del potere.

Come possiamo spiegare questo?

La risposta più probabile è il fatto che il potere non crea il carattere, ma lo rivela. Le persone con una solida bussola morale, dotate di una spiccata empatia e autoconsapevolezza, riescono a mantenere comunque, il giusto contatto con la realtà, anche quando il mondo le esalta.

Gli psicologi parlano di “potere prosociale”, ovvero quella capacità di usare l’autorità per migliorare – e non dominare – la vita altrui.
Pensiamo a Nelson Mandela, che dopo 27 anni di prigione scelse la riconciliazione invece della vendetta. O a leader aziendali come Satya Nadella (Microsoft), che promuove una cultura della gentilezza e dell’inclusione.

Possiamo quindi dire che il potere non cambia le persone, ma amplifica ciò che già portano dentro. Allo stesso modo, quando qualcuno si ubriaca non diventa aggressivo all’improvviso: se dentro di sé ha una rabbia nascosta, l’alcol non fa altro che portarla a galla.

Nata e cresciuta a Rosignano Solvay , appassionata da sempre per tutto quello che ruota intorno al benessere della persona. Biologa, diplomata all'I.T.I.S Mattei